L’IMPEGNO POLITICO DEI GIOVANI CATTOLICI

Il convegno del movimento giovanile DC sulla politica estera a Bergamo

Articolo di Riccardo Terzi sul convegno del movimento giovanile DC

L’improvvisa rottura delle trattative di Bruxelles e il chiaro emergere di strategie divergenti all’interno dell’“Europa libera” non potevano mancare di polarizzare l’attenzione politica dei giovani democristiani; riunitisi a Bergamo per un Convegno nazionale sulla politica estera, che ha visto anche la partecipazione di delegati dei partiti cattolici di altri paesi. La bruciante attualità del problema, lo stimolo ad un esame retrospettivo e ad uno sforzo autocritico, la necessità di pronunciarsi intorno ai contenuti che devono essere propri della politica europea, hanno dato vitalità e slancio al dibattito: non ci sono state reticenze nel denunciare a chiare lettere il carattere conservatore e nazionalistico della strategia proposta da De Gaulle, nel rifiutare l’alleanza franco-tedesca e la mano tesa alla Spagna di Franco.

Ma fin qui si tratta di posizioni politiche prevedibili e scontate.

A costo di deludere chi voglia una informazione puntuale sulle risposte date alle singole questioni, riteniamo che dal Convegno di Bergamo sia emerso un problema di ben più ampia portata, sul quale in particolare intendiamo soffermarci. Dato come presupposto l’impegno politico dei cattolici, si tratta di vedere con quali criteri di valutazione questo impegno viene portato avanti. Dare una risposta a questo problema è condizione preliminare perché il nostro dialogo coi cattolici riceva una definizione concreta: esso non può infatti andare separato da una comprensione delle reali linee di tendenza che vanno affermandosi nel mondo cattolico, e deve partire dalla individuazione di un nesso fra il sistema di valori cristiani e i problemi della società moderna, nesso che va valorizzato. Il problema si presenta allora in questi termini: l’impegno politico dei cattolici nasce dalla coscienza di questo nesso, ed è acquisizione di una maturità ideologica, o procede piuttosto nella direzione del compromesso?

 

Divergenze nella compagine cattolica

Visto da questo angolo visuale, il Convegno di Bergamo si presenta assai più ricco di indicazioni di quanto possa apparire da una piatta cronaca delle cose dette. Se infatti a un certo livello di indagine può essere rilevabile una certa omogeneità di posizioni, nella comune ricerca di una alternativa democratica alla strategia di De Gaulle, a un livello più sotterraneo è possibile riscontrare nella compagine cattolica divergenze di impostazione non facilmente sanabili.

Di fronte alla necessità di definire la forma del loro impegno politico, i cattolici devono scegliere fra una presenza civile che trovi nei fondamenti della loro fede ideologica e morale uno slancio ideale e delle norme prioritarie, e un atteggiamento realistico e laico, che proceda su un binario diverso, intendendo la politica come una tecnica fine a se stessa. La relazione introduttiva di Celso Destefanis è servita a illuminare bene questo secondo atteggiamento, che è, a nostro avviso, una componente importante del mondo cattolico, e che è di grave pregiudizio alla instaurazione di un dialogo costruttivo.

Il punto di partenza dei cattolici “realisti” come Destefanis è il rifiuto di ogni schematismo, la sfiducia verso le risposte definitive; giusta esigenza, che muove dalla obiettiva constatazione della insufficienza di certi schemi di interpretazione (anche marxisti), e dalla viva necessità di ricercare nuovi strumenti di indagine, per capire più concretamente la novità e originalità del mondo in cui viviamo. Ma da un esame più attento di questa esigenza “realistica” si ricava che il rifiuto dello schematismo coincide con l’abbandono di ogni criterio unitario di interpretazione, per cui l’indagine si riduce ad una individuazione della complessità dei fenomeni, della loro reciproca interazione e della loro particolarità, in funzione puramente strumentale.

In questa prospettiva l’anticomunismo diventa un presupposto metodologico: in quanto interpretazione unitaria della realtà e ricerca di una direzione da imprimere alla storia, il marxista viene rifiutato aprioristicamente, confondendo l’esigenza della unificazione e delle affermazioni generali, necessaria ad ogni visione scientifica, con il dogma arbitrario, riducendo quindi la scienza a pura empiria.

In questa frantumazione della realtà umana, non c’è più posto per lo slancio morale, inteso non come utopia, ma come impegno per conformare la realtà storica a valori prioritari. Il realismo diventa accettazione del gioco politico nella sua brutalità, diventa sfiducia nell’uomo. Per questo, non possiamo entusiasmarci di fronte a certo antifascismo: il rifiuto dei nazionalismi, dei miti totalitari, della mistificazione del potere non appare come conquista di una nuova dimensione civile, ma rientra semplicemente in quel processo di appiattimento positivistico della vita politica. Ai miti del passato non si contrappone alcun sistema di valori capace di informare di sé le attuali strutture politiche, le quali sono invece considerate e accettate nella loro nudità. L’antifascismo si riduce quindi a rifiuto della retorica e della presunzione fasciste, senza indagarne i moventi di fondo.

Con questo criterio di valutazione è facile dire che l’Europa “libera” ha saputo dare una risposta negativa alle alternative che, da destra e da sinistra, le sono state proposte; questa affermazione non è che la banale constatazione che l’Europa borghese è rimasta in vita, senza formulare un giudizio che metta in primo piano i contenuti che storicamente si affermano.

È curioso osservare come questa difesa dell’Europa venga fatta proprio dimenticando quel contributo culturale che l’Europa ha dato, nel senso di una ricerca umana che sappia trovare, al di là della molteplicità empirica e al di là del tecnicismo, criteri generali di valutazione. Il richiamo ai valori della tradizione, alla funzione culturale dell’Europa è puramente retorico o opportunistico; la tradizione può essere salvata, nei suoi contenuti di verità, non già volendo cristallizzare una realtà di fatto, che progressivamente si isterilisce, ma recuperandone i valori in un processo di rinnovamento che porti ad una nuova strutturazione civile. Non c’è contrasto fra tradizione e rivoluzione, poiché la tradizione stessa è valida nella misura in cui non è una realtà immobile.

Sotto l’europeismo dei giovani burocrati della DC sta il totale adeguamento al tecnicismo americano, al pragmatismo deteriore. Coerentemente quindi viene riaffermata la “leadership” americana, la funzione dello Stato-guida, sia pure in termini demistificati.

L’Europa che si vuole è una realtà politica senza contenuto, un’Europa gerarchicamente strutturata, che deve evitare la moltiplicazione dei centri di decisione, un’Europa in cui rientrano tranquillamente i regimi di Adenauer e di De Gaulle, con i quali si conduce una polemica più tattica che di fondo. Si rifiuta il disegno di De Gaulle, ma non si opera una indagine sulle cause profonde che hanno determinato questo deterioramento della situazione europea, forse perché questa indagine significherebbe la sconfessione delle scelte politiche del passato. La strategia di De Gaulle è vista giustamente come la prospettiva di una Europa delle patrie, intesa come bacino di raccoglimento dei vari nazionalismi, dominata quindi da quelle stesse forze – politiche, economiche e militari – che inizialmente rifiutavano l’integrazione europea. Ma quale sia il senso del processo che ha ridato spazio vitale al sorgere di nuovi nazionalismi, quali siano le responsabilità storiche, sono queste domande senza risposta.

 

Il dialogo coi comunisti

A questa impostazione “modernistica”, chiara soprattutto in Destefanis, si contrappone però una linea sostanzialmente diversa, anche sotto l’apparente concordanza di certi giudizi politici, linea che crediamo di poter individuare principalmente negli interventi del francese Barrat e di Mario Rossi.

Barrat, a costo di alimentare aspirazioni idealistiche, non rinuncia ad affermazioni di principio, da cui dedurre una linea di condotta politica. A conferma del nostro giudizio che la maturazione ideologica sia un presupposto del dialogo, abbiamo visto come a sinistra sappia collocarsi chi esplicitamente si riferisce ai principi cristiani e non chi, sotto il velo della affermazione laica e della autonomia della politica, nasconde una sostanziale aridità, una cruda vocazione di politicante.

Barrat giunge a teorizzare una forma di socialismo democratico come terza via fra il capitalismo liberale e il comunismo bolscevico. Questo socialismo, pur riducendosi ad una conciliazione di classe, raccoglie tuttavia istanze positive: si cerca di dare un contenuto all’Europa, che deve essere l’Europa dei popoli e non l’Europa dei monopoli, e si vuole assegnare all’Europa unita una funzione di mediazioni fra il blocco occidentale e quello orientale, cui si riconosce una sincera volontà di pace. Egli parla di “dialogo coi comunisti” che non prescinda dai principi ideologici: è esattamente quello che chiediamo.

Il limite di questa teorizzazione di una Europa socialista e mediatrice sta evidentemente nel non avvertire le qualità di fondo che distinguono nettamente i due sistemi, e nel propugnare quindi un irrealizzabile compromesso, una utopistica conciliazione. Ma le esigenze che stanno alla base di questa utopia sono quelle validissime di rifiutare l’avvilimento piccolo-borghese, che si isola nel proprio “benessere”, e di riportare il discorso all’uomo in quanto essere morale.

Similmente Mario Rossi denuncia l’addomesticamento delle masse attraverso il benessere, proprio del capitalismo avanzato, e soprattutto mette in luce come il timore di andare al di là del realismo consentito dai fatti, il timore di essere idealisti ed utopisti abbia sterilizzato l’impegno politico dei cattolici. Confondendo l’utopia con lo slancio morale, i moderni burocrati sanno solo adattarsi ai fatti così come sono, e rimangono scettici e indifferenti di fronte a prospettive decisive per la civiltà, come quella del disarmo, della smilitarizzazione o dell’apporto disinteressato ai paesi sottosviluppati.

L’intensità degli applausi concessi alla “testimonianza” di Mario Rossi dimostra come questa esigenza di ritrovare un nesso più umano fra la politica e i valori ideali non si trovi ad essere isolata, anche se dobbiamo riscontrare che questa risonanza rimane alla superficie e non intacca validamente il predominio dei burocrati della politica.

Queste contraddizioni dobbiamo comunque averle chiaramente presenti, per sapere a chi dobbiamo rivolgere la nostra proposta di dialogo, e perché il dialogo non vada scisso da una aperta polemica contro il tecnicismo neopositivistico dei burocrati, per i quali le leggi della società capitalistica sono un ineliminabile dato oggettivo che sarebbe utopia e illusione voler superare. Il nostro realismo è invece l’individuazione delle contraddizioni per farle saltare, la comprensione della realtà per poterla trasformare.


Numero progressivo: L37
Busta: 9
Estremi cronologici: 1963, 10 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Nuova generazione”, 10 febbraio 1963