L’IDENTITÀ E I VALORI

Il vero problema del centro-sinistra non è quello del leader

Idee, valutazioni e proposte discusse tra: Ettore Combattente, Luca De Biase, Biagio De Giovanni, Vincenzo Moretti, Rosario Strazzullo, Riccardo Terzi

L’attenzione del mondo politico italiano è da tempo concentrata sulle prossime elezioni. Si discute di regole per assicurare ai contendenti uguali opportunità di garanzie per coloro che usciranno sconfitti dalle urne, di tempi più o meno utili entro i quali eleggere il nuovo Parlamento. Le scelte, di breve come di lungo periodo, sembrano in larga parte subordinate a tale obiettivo e la tendenza ad amplificare, e a tratti esasperare, la loro importanza, è ampiamente diffusa.

A nostro avviso il voto servirà invece essenzialmente a determinare condizioni più o meno favorevoli all’avvio del processo di ricostruzione dello Stato democratico. Riteniamo perciò necessario un dibattito meno condizionato dalla politica giorno per giorno, dall’angoscia dell’appuntamento decisivo, dalla sindrome dell’ultima spiaggia. Del resto le stesse vicende della sinistra italiana, tanto ricche di appuntamenti prima decisivi e poi mancati, consigliano maggiore prudenza e lungimiranza.

La tesi di fondo che intendiamo sostenere è che il centrosinistra, se vuole credibilmente proporsi come forza capace di rinnovare l’Italia, deve dare voce al bisogno di valori presente nella società e, contemporaneamente, definire la propria identità, ricostruendo le culture e i soggetti politici che lo compongono, valorizzando i pluralismi e le differenze in esso presenti. Per questa via esso potrà non solo spendere al meglio le proprie ragioni nel corso della competizione elettorale, ma anche conquistare nuovi spazi di iniziativa ben oltre il voto e i suoi stessi esiti. La crisi di sistema con la quale si è chiusa la prima fase della Repubblica si manifesta sempre di più come crisi di unità e di identità della nazione e dello Stato. Essa ha travolto culture, soggetti e luoghi della politica e la sua risoluzione passa per la realizzazione di una compiuta democrazia dell’alternanza, fondata su regole condivise, in cui le differenze si determinano non sui principi, ma sulle scelte programmatiche e di governo.

In Italia, contrariamente a quanto avviene negli altri paesi democratici, è questa una frontiera ancora tutta da conquistare. I tempi e le caratteristiche con cui tale processo potrà realizzarsi dipendono fortemente da impegno, consapevolezza e capacità di innovazione che le diverse forze sapranno mettere in campo.

Non ci si può dunque limitare all’individuazione di un leader. Né appare convincente la rincorsa a modelli di formazione e di definizione delle scelte tradizionalmente caratteristici delle forze di centro-destra. Esse propugnano l’idea del capitalismo come società naturale e utilizzano la crisi dei partiti per sostenere e dare una base di massa alla propria cultura plebiscitaria. Alle forze di centro-sinistra spetta dunque il compito di rimotivare la politica, di rinnovarne le forme, di evitare che la costante opera di devalorizzazione dei partiti sia di fatto finalizzata alla costruzione di comitati e macchine elettorali, o, peggio ancora, di una sorta di Forza Italia di area progressista.

I nuovi e inediti problemi di partecipazione presenti nella società italiana richiedono necessariamente risposte complesse, regole democratiche che non lascino margini a tentazioni di tipo plebiscitario, analisi e approfondimenti che sappiano andare al di là della polemica politica quotidiana.

 

Il contesto

Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta, con le vittorie di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli Stati Uniti, la destra afferma la propria capacità di presentarsi come forza moderna e innovativa, in grado di dialogare e di rispondere alle aspettative di ceti diversi. In qualche modo essa comprende in anticipo la crisi del rapporto tra blocchi sociali e scelte politiche e a tale crisi risponde riaggiornando e rilanciando quelle idee e ricette liberiste sulle quali edificherà la sua lunga stagione di governo nei principali paesi occidentali. Il mercato, la ripresa economica, l’innovazione tecnologica, la riduzione delle tasse oltre che obiettivi puramente economici diventano così modelli culturali attorno ai quali conquistare e consolidare la leadership sociale e politica.

Gli anni novanta sono segnati invece dalla crisi del liberismo. Sono gli anni in cui negli Stati Uniti i democratici riconquistano la leadership dell’Unione e nella Germania riunificata viene avviato, con uno sforzo senza precedenti e non ancora concluso, il programma per l’integrazione e lo sviluppo dell’Est. La stessa vittoria di Jacques Chirac in Francia è resa possibile dal recupero di concetti e valori della destra plebiscitaria e popolare e non certo dall’impostazione rigorista che aveva reso famosa la signora di ferro. In Italia la vittoria di Silvio Berlusconi nelle elezioni del 27 marzo 1994 presenta invece significativi caratteri di controtendenza. Vendendo sogni prima ancora che benessere, slogan piuttosto che concrete soluzioni ai problemi aperti, egli riesce a presentarsi, utilizzando messaggi generici e semplificati, come l’elemento di novità sulla scena politica italiana. Negli stessi anni la sinistra, nonostante la forte spinta al cambiamento avviata a ridosso della caduta del muro di Berlino, appare statica, poco incline o comunque troppo lenta a cogliere le novità che vanno maturando nella società.

La sua capacità di attrazione, fondata sulla difesa degli interessi e dei pezzi di welfare funzionali alla loro tutela, si riduce sempre più, mentre la sua iniziativa appare determinata da condizioni di necessità piuttosto che da orientamenti e scelte politiche autonomamente assunte. Contemporaneamente le stesse opzioni culturali e di valore alla base della sua azione di rappresentanza vanno offuscandosi, determinando una sua sostanziale identificazione con le strutture più burocratiche e assistenziali della società. La sovrapposizione tra spesa sociale e spesa assistenziale, lo sfascio del sistema sanitario, l’inefficienza della pubblica amministrazione sono alcuni degli esempi possibili in questa direzione. Sta di fatto che né gli avvenimenti dell’89, con le spinte liberatorie da essi determinati, né lo scoppio di Tangentopoli, con i suoi effetti devastanti sui partiti e le classi di governo, bastano alla sinistra italiana per scrollarsi di dosso la sua immagine statalista e conservatrice.

 

La crisi italiana

Magmatica, profonda, dagli esiti incerti: la crisi italiana si caratterizza contemporaneamente per la grande debolezza dello Stato e della Nazione, per la crescente forza dei poteri oligarchici e delle corporazioni, per il rapporto distorto tra i partiti, la società e lo Stato, per il costante prevalere delle formule e delle parole sui fatti, per la carenza di luoghi e spazi democratici. Siamo in presenza di un tale insieme di fattori da rendere difficile la sua rappresentazione perfino a livello terminologico. Agli slogan semplificatori del centro-destra, il centro-sinistra deve rispondere innovando, scegliendo i contenuti, proponendo riforme sul piano sociale, politico, istituzionale. Alla società del conformismo e della superficialità che si regge su quelli che Norberto Bobbio ha definito i servi contenti, va contrapposta una società che valorizzi la creatività e le differenze. Una società che ha bisogno della partecipazione autonoma e consapevole delle singole persone, delle associazioni e delle forze sociali, delle amministrazioni e dei governi locali e nazionali. Una società basata sul rispetto delle regole. Una società nella quale fare bene e fino in fondo il proprio dovere è la condizione per poter rivendicare i propri diritti. Una società che sappia favorire le relazioni tra le persone che la vivono e la popolano e tra esse e i diversi soggetti sociali, politici e istituzionali che la governano.

A modelli gerarchici e centralizzati è necessario contrapporre la cultura della flessibilità, della responsabilità, del decentramento. Occorre moltiplicare i centri e i protagonisti della politica e adoperarsi perché la realtà torni ad essere rappresentata dai contenuti e non dalle forme in cui essa viene espressa. Occorre che la sinistra ritorni ai valori, si mostri capace di suscitare attese e fiducia nel futuro, potenziando e qualificando allo stesso tempo la propria proposta programmatica. È su questa strada che essa potrà ricostruire una propria funzione nazionale, invertire il processo di progressiva marginalizzazione del nostro paese dall’Europa, contribuire a dare soluzione alla questione italiana.

La fine della prima fase della Repubblica ha lasciato in eredità una democrazia dai molti tratti illiberali, nella quale i partiti, compresi quelli di sinistra, hanno occupato spazi impropri e hanno stabilito rapporti distorti con lo Stato e i suoi poteri. Con la crisi del liberismo e il superamento della contrapposizione tra mercato e Stato sociale ritorna la necessità di recuperare quei valori propri del liberalismo che hanno contaminato la parte migliore della cultura liberale e democratica dagli anni trenta a oggi. La pluralità dei poteri, la loro autonomia e separazione, le funzioni di reciproco controllo rappresentano, in questo quadro, il terreno di ricerca da contrapporre alle spinte e alle scorciatoie di tipo plebiscitario.

 

Una nuova classe dirigente

La costruzione delle istituzioni della seconda fase della Repubblica rappresenta il compito prioritario di tutte le forze che intendono candidarsi al governo del paese. I temi istituzionali vanno tenuti distinti dalla lotta politica quotidiana: il rapporto tra destra e sinistra ha qui un punto di verifica decisivo. Piuttosto che ad eventi propri della politica spettacolo o a frettolose abiure della storia riteniamo perciò che il processo di reciproco riconoscimento e legittimazione vada affidato alla coerenza e all’impegno con il quale si contribuisce alla ricostruzione dello Stato democratico e alla formazione di una nuova classe dirigente.

L’Italia ha oggi più che mai bisogno di una classe dirigente che sappia indicare, innovando, le ragioni di una nuova unità della nazione; che riconosca la non esaustività delle problematiche sociali; che sappia coniugare il bisogno di autonomia e quello di solidarietà; che abbia consapevolezza della rilevanza che, nell’era della competizione globale, rivestono le economie di sistema, i fattori ambientali, gli ambiti territoriali; che sappia perciò guardare con un approccio federalista al tema dello Stato. Interpretare i mutamenti avvenuti nell’economia e nella società e corrispondervi ridefinendo e rafforzando i compiti dei poteri locali e territoriali ci sembra il modo migliore per evitare che la discussione sul federalismo si esaurisca tra parole roboanti e frasi ad effetto molto spesso vuote.

La costruzione di una nuova classe dirigente è un processo certamente più laborioso della ricerca di un leader. Essa ha bisogno, per formarsi, che la cultura e l’esercizio della partecipazione, della responsabilità e del controllo prevalgano sulla delega; che i legittimi interessi che ciascuno rappresenta siano comunque subordinati all’interesse generale; che le regole sostituiscano la discrezionalità e l’arbitrio.

Non è certo un caso se dall’educazione dell’ordine mezzano al quale si dedicava il Genovesi, alla ricerca dei cento uomini di ferro teorizzata da Dorso, alla costruzione della società di mezzo di cui si discute ai giorni nostri, i passi avanti realizzati non sono stati né quelli auspicabili, né quelli necessari. Eppure, a nostro avviso, proprio da qui potrà venire un contributo importante al compiuto sviluppo della democrazia italiana. Per questo non ci convince una concezione della politica tutta incentrata sul rapporto fra leader e riteniamo debba essere combattuta la tendenza ad affrontare temi decisivi con un tatticismo troppo spesso esasperante. Si tratti di regole o di federalismo, di lavoro o di Mezzogiorno, di giustizia o di aborto, niente sembra sfuggire a tale destino. Invertire tale tendenza è possibile se si definisce un nuovo protagonismo e un più deciso apporto dei poteri e della società diffusa, dagli amministratori locali agli imprenditori, dalle associazioni ai sindacati, ai cittadini. L’esperienza pure importante che si sta realizzando attorno a Romano Prodi va dunque potenziata, ampliata, non lasciata isolata. Così come è necessaria una discussione più approfondita e meno conformista sui valori e i contenuti programmatici che sono alla base dell’alleanza politica di centro sinistra. A cominciare dal valore del lavoro.

 

Il valore del lavoro

La possibilità di un nuovo corso italiano, la costruzione di una risposta nazionale alla crisi del paese hanno nell’affermazione del valore del lavoro il proprio centro, il proprio motore, la propria anima. E se è vero, come noi riteniamo, che i numerosi elementi di rottura che caratterizzano la crisi italiana hanno una ragione fondamentale nell’incapacità e nella non volontà di cogliere appieno la relazione esistente tra mancato sviluppo del Sud e mancata modernizzazione del paese, è evidente che il Mezzogiorno torna prepotentemente a rappresentare una frontiera decisiva per il futuro dell’Italia. Il vero e proprio processo di identificazione tra questione lavoro e questione meridionale è ormai un dato di fatto. E nel contesto europeo il dualismo italiano, con un mercato meridionale sempre meno indispensabile alla struttura produttiva di un Nord d’Italia sempre più integrato in Europa, è un fattore destinato a moltiplicare le spinte di tipo secessionista. È tempo dunque che una nuova politica per il Sud, che sappia coniugare interessi e solidarietà, che avvii finalmente una fase di sviluppo autopropulsivo, diventi una concreta priorità per l’intero paese.

Assumere il lavoro come valore vuol dire realizzare un grande programma di qualificazione e di valorizzazione delle capacità culturali e produttive delle persone, in primo luogo quelle meridionali; potenziare gli strumenti legislativi e contrattuali previsti a sostegno dell’occupazione; decentrare e qualificare, ridefinendone compiti e funzioni, il ministero del Lavoro, le agenzie per l’impiego, gli uffici di collocamento; adottare programmi formativi all’interno delle aziende e schemi di orari flessibili e ridotti; combattere il lavoro nero e illegale e sostenere il lavoro autonomo regolare e la piccola impresa. In questo quadro diventa sempre più decisiva la capacità di integrazione e di coordinamento con l’Unione europea. Con la fine dell’intervento straordinario, infatti, i fondi europei rappresentano le sole risorse aggiuntive effettivamente disponibili e la loro corretta attivazione è essenziale per dar credibilità e sostanza a una strategia che punti decisamente alla creazione e alla diffusione d’impresa.

Il Sud ha bisogno di sviluppo diffuso. Lo sviluppo diffuso, per non restare soltanto uno slogan, ha bisogno che si rafforzino i poteri locali, che si investa in legalità, formazione, infrastrutture avanzate, che si promuovano e si valorizzino anche nel Sud le esperienze dei distretti industriali. Per questa strada passa la stessa possibilità di affermare una cultura imprenditoriale meno schiacciata sulla ricerca forsennata del profitto. Creare nuova ricchezza, partecipare al processo di rafforzamento della struttura democratica della società, incentivare l’autonomia, la responsabilità, le relazioni, sono alcuni caratteri possibili di una nuova funzione sociale dell’imprenditore.

 

Il valore della socialità

In una società avanzata al valore del lavoro deve corrispondere il valore della socialità. Le persone non vanno solo protette e risarcite dalle conseguenze di una competizione sempre più spinta, ma vanno sostenute in tutto l’arco della loro vita con politiche di promozione e di valorizzazione delle loro capacità fisiche e intellettuali. La promozione della persona, della sua libertà, della sua autonomia, rappresenta il fondamento di ogni moderna concezione dello Stato sociale.

In questo quadro, l’azione sociale dello Stato deve riguardare innanzitutto le nuove generazioni. I giovani rappresentano infatti la principale risorsa per il futuro in una società che sarà sempre più fondata sulla flessibilità, la velocità, l’innovazione, il cambiamento. Le politiche scolastiche e formative rivestono dunque una straordinaria importanza così come, in tale ambito, l’estensione e la tutela dell’obbligo scolastico e la lotta al lavoro nero e minorile. Le stesse politiche di sostegno alle famiglie numerose e monoreddito vanno sviluppate condizionandole al rispetto dell’obbligo scolastico. All’idea di un’istruzione sempre più dequalificata va contrapposto un programma finalizzato all’innalzamento del numero di diplomati e al restringimento della forbice tra iscritti all’università e laureati. L’istruzione e la formazione dovranno rappresentare l’interfaccia delle politiche per l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Si afferma in questo modo una concezione del lavoro come esperienza insostituibile di autorealizzazione e socializzazione, come contributo allo sviluppo dell’economia e della società.

Una società può definirsi veramente avanzata se è in grado di valorizzare il potenziale di innovazione di ciascuna classe di età, comprese quelle più anziane. Il recupero di valori come la memoria e l’esperienza, la realizzazione di sistemi flessibili tra formazione e lavoro e tra lavoro e pensione, la domanda di reintegrazione possono e devono rappresentare, a cinque anni dal Duemila, un’occasione e una risorsa.

I servizi alle persone sono infatti decisivi per impedire che lo sviluppo tecnologico determini fenomeni di disintegrazione sociale, di emarginazione e di vera e propria perdita di identità per fasce sempre più consistenti di cittadini. Da qui la necessità di istituire un mercato sociale volto alla soddisfazione della domanda di reintegrazione, di assistenza e di cura del cittadino utente. Crescita dell’occupazione, incrementi della produttività sociale e ruolo di un welfare riformato rappresentano, in questo quadro, gli aspetti diversi e complementari delle politiche di un’Italia che sarà tanto più moderna quanto più saprà riconoscere il bisogno di investire in socialità.

 

Pazienza e lavoro

Un grande filosofo contemporaneo ritorna spesso sulla necessità di affrontare la vita e le difficoltà piccole e grandi, individuali e collettive che essa ci fa incontrare, con pazienza e lavoro. Ci sembra francamente che nel nostro paese ci sia, dell’una e dell’altro, estremo bisogno.

Più che cose nuove, si vedono in giro tante cose vecchie con un nome (qualche volta) nuovo. E poi superficialità e conformismo in dosi massicce e non di rado fastidio per le opinioni diverse. Forse per questo ci piacerebbe che alle prossime elezioni il centro-sinistra si facesse interprete del bisogno di diffondere la democrazia.

Forse potrebbe essere qualcosa di più di uno slogan. Potrebbe essere l’alternativa vera a chi sostiene che, se servono un milione di posti di lavoro, debba scendere in campo Berlusconi; o che la tutela della legalità è un affare che riguarda Di Pietro (ieri) o Caselli (oggi); o anche che per risolvere i problemi di Napoli e di Roma basta affidarsi a Bassolino e Rutelli. Non è un’alternativa semplice, neppure per il centro-sinistra. Eppure il segreto potrebbe essere proprio qui. Nella capacità di prospettare un futuro nel quale ci sia spazio per l’impegno e le ragioni di ciascuno.


Numero progressivo: B4
Busta: 2
Estremi cronologici: 1995, 13 novembre
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 40, 13 novembre 1995, pp. 28-30