ETICA ED ECONOMIA. L’ENCICLICA CARITAS IN VERITATE E LE SFIDE DELLA GLOBALIZZAZIONE
Atti dell’incontro organizzato da CGIL e SPI, Bergamo, 21 novembre 2009
Intervento di Riccardo Terzi
L’enciclica Caritas in veritate è un tentativo di sistemazione organica del punto di vista della Chiesa cattolica di fronte ai nodi della globalizzazione, ed è per questo un testo impegnativo e ambizioso, denso di significati e di approfondimenti dottrinali. La nuova dimensione dello spazio globale rappresenta per tutti una sfida, una spinta a ridefinire le proprie categorie di interpretazione del reale, e la Chiesa, che ha già nel suo bagaglio culturale una forte vocazione universalistica, ha oggi bisogno di cimentarsi con le nuove contraddizioni e con le complesse dinamiche di un mondo unificato, ma niente affatto pacificato. La nuova enciclica si presenta esplicitamente come una continuazione e un aggiornamento della Populorum progressio di Paolo VI, pubblicata nell’ormai lontano 1967. Questo richiamo viene però inserito in una interpretazione del pensiero della Chiesa come una storia di totale continuità. «Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una post-conciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo». Si può capire, naturalmente, che una grande istituzione rivendichi la sua complessiva coerenza. È un meccanismo di autolegittimazione che ritroviamo con grande frequenza in tutte le organizzazioni. E tuttavia ciò che non può non colpire in questo giudizio è la sottovalutazione della portata innovativa del Concilio, della rottura profonda che esso ha determinato nel rapporto tra la Chiesa e ciò che sta fuori dalla Chiesa.
II Concilio ha totalmente rovesciato il modo di intendere il rapporto con il mondo esterno, vedendo nel mondo non una forza ostile, da disciplinare con il rigore della dottrina, ma il luogo in cui maturano domande etiche ed esistenziali a cui occorre saper rispondere, in uno spirito di dialogo e nel riconoscimento dell’autonomia dei diversi piani lungo i quali si snoda la concreta esperienza dell’umanità. Gli effetti culturali e politici di questa «svolta» sono stati profondi. È la Pacem in terris la grande enciclica che segna questo decisivo mutamento di indirizzo e di mentalità nelle posizioni della Chiesa. La novità è l’appello a un compito comune che riguarda l’umanità intera, oltre le diverse appartenenze culturali e religiose. Paolo VI, che sviluppa con grande coerenza le innovazioni conciliari, conclude la sua enciclica con questo significativo messaggio: “Se lo sviluppo è il nuovo nome della pace, chi non vorrebbe cooperarvi con tutte le sue forze? Sì, tutti: Noi vi invitiamo a rispondere al Nostro grido di angoscia”.
In quel contesto, quel «tutti» non è un artificio retorico, ma esprime il senso drammatico di un’urgenza di un atto di giustizia che non può essere rinviato, di una responsabilità comune che reclama il superamento dei vecchi steccati di tutte le forme di incomunicabilità di diffidenza, di chiusura, le quali impediscono il progresso civile dell’umanità. A questa visione concorrono molti elementi di novità nel quadro nazionale e mondiale. Sono gli anni della desta destalinizzazione e del «disgelo», della coesistenza pacifica, del nuovo protagonismo dei Paesi non allineati, dello sviluppo dei movimenti di liberazione nel terzo mondo. E in Italia comincia una nuova stagione di «dialogo» tra la sinistra e il mondo cattolico, a livello sociale, con il nuovo slancio unitario che anima tutta l’iniziativa sindacale, e anche nelle posizioni politiche, come dimostra l’importante discorso di Togliatti a Bergamo nel 1963, tutto teso a creare le condizioni per una collaborazione, a partire proprio dall’obiettivo della pace nel mondo.
La Chiesa conciliare, con Giovanni XXIII e Paolo VI decide di incoraggiare tutti questi sviluppi, con una prudente lungimiranza, senza perdere il suo retroterra più tradizionale, ma senza restare inchiodata al suo passato, cogliendo la necessità, nell’interesso stesso della Chiesa, di un nuovo dinamismo, che sappia cogliere il «segno dei tempi». Tutto ciò converge nell’idea centrale della Populorum progressio: la necessità di uno «sviluppo umano integrale», volto cioè «alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». È l’idea di un umanesimo integrale che si incontra con le grandi correnti democratiche del mondo moderno.
Da questo punto di vista, come si colloca la nuova enciclica? A me sembra piuttosto oscillante, ambivalente. Da un lato si conferma l’appello a «una collaborazione fraterna fra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e per la pace». Ma questa affermazione suona come la ripetizione rituale di una formula, ormai un po’ svuotata, senza riuscire a imprimere a essa una nuova forza trainante, senza produrre quell’effetto di provocazione e di rottura che si sprigionava da quelle precedenti encicliche prima rammentate. Eppure, tutta la situazione dovrebbe giustificare un nuovo grido di allarme, perché tutte le speranze che si erano aperte negli anni Sessanta sono state sostanzialmente deluse, e le «diseguaglianze clamorose» denunciate allora da Paolo VI si sono ulteriormente moltiplicate e intensificate, nel rapporto tra le nazioni e anche all’interno di ciascuna di esse.
D’altra parte, altri passi dell’enciclica sembrano muoversi in una diversa prospettiva, in quanto c’è una totale svalutazione della razionalità umana che non sia purificata dalla fede. «L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano». E allora, è ancora possibile una collaborazione comune, se tutta la verità e tutto il bene stanno da una parte sola, e fuori di essa c’è solo il dominio dell’inumano? Può essere che si tratti solo di formule tradizionali, di una impalcatura teologica che tende più a nascondere che a svelare il vero significato del testo pontificio. E tuttavia, giù nel titolo stesso dell’enciclica viene indicata una precisa direzione di pensiero, proprio in quanto la stessa carità è pensata solo nella luce della verità, e solo su questo fondamento essa acquista valore. «Solo nella verità la carità risplende». È questo esclusivismo della verità, di una verità rivelata all’uomo dall’esterno per il tramite della Chiesa, che porta con sé, inevitabilmente, una tendenza integralistica, la quale percorre tutta l’enciclica e ne smorza la portata innovativa.
Si crea così una barriera tra chi sta nella verità e chi ne è escluso. Anche il linguaggio comune sembra riflettere questa medesima opposizione, là dove si parla di «credenti e non credenti», come se fossimo di fronte all’alternativa tra un pieno e un vuoto, mentre nella realtà c’è una dialettica complessa tra diverse convinzioni, tra molteplici percorsi di ricerca, senza che si possa tracciare una netta linea di demarcazione. Fede e ragione sono variamente mescolate nell’esperienza di ciascuno di noi, ed è proprio per questo che si rende possibile una collaborazione, perché non c’è una frattura antropologica tra due opposti tipi umani, ma c’è una condizione esistenziale comune a cui cerchiamo, ciascuno con le sue risorse, di offrire una interpretazione, un significato.
E allora il rapporto tra carità e verità dovrebbe essere, a mio giudizio, rovesciato. È chiaro che qui non tratto il problema sotto il profilo teologico, per il quale non ho nessuna competenza, ma solo dall’interno della pratica sociale, la quale ci dovrebbe insegnare che la carità, ovvero il porsi dal punto di vista dell’altro, non ha bisogno di essere verificata, validata da un criterio a essa superiore, ma ha già in se stessa una forza di verità. Il problema non è la sua coerenza con una verità esterna, ma è piuttosto la sua coerenza interna, la sua capacitò di andare fino in fondo, di sviluppare fino alle ultime conseguenze i suoi presupposti La carità è il pensare che la vita si giustifica solo se messa al servizio dell’altro, se si rovescia il paradigma individualistico. In questo, essa è una sfida che si rinnova continuamente e che mette in discussione tutte le forme del «senso comune», dell’abitudine, del conformismo. Prendere sul serio la carità vuol dire ribaltare il senso corrente della vita, e attingere così a quella verità che sta nel cuore della condizione umana, al di là delle fedi e delle dottrine. Caritas est veritas, questo potrebbe essere il titolo di una enciclica ancora da scrivere. Alcune aperture importanti sono già presenti nel testo di Benedetto XVI, in particolare nell’idea che «la carità eccede la giustizia», che essa sta dunque in una dimensione che va oltre le forme della legalità, le trascende e le oltrepassa. Che significato ha questo oltrepassamento? Esso significa a me pare, che c’è una dimensione umana originaria, che ha le sue radici nell’essenza della persona, e che tutte le relazioni umane e sociali vanno ricondotte a questo fondamento. Per questo, la legalità è solo uno stadio necessario ma non sufficiente. L’esempio che meglio può chiarire questo concetto è dato dalla condizione dei carcerati. Essi hanno avuto giustizia. Ma c’è, oltre la giustizia, una sofferenza umana che ha bisogno di essere ascoltata, dando luogo a una pratica di solidarietà, Su questo tema la Chiesa ha più volte insistito raccogliendo consensi solo formali e spesso ipocriti, mentre il meccanismo reale della giustizia continua a funzionare secondo la sua antica logica repressiva e disumanizzante. E oggi in particolare la tendenza generale è quella di sacrificare alle ragioni della sicurezza ogni altra considerazione, rimettendo in discussione tutto il patrimonio giuridico delle società democratiche. L’idea non è più quella costituzionale del recupero e del reinserimento sociale, ma quella, più sommaria e del tutto inefficace nei suoi risultati, di amputare le parti infette. Così, ad esempio tutto il tema dell’immigrazione viene affrontato solo come un capitolo della politica di pubblica sicurezza, senza nessuna considerazione per le storie e per le sofferenze individuali.
Il discorso può essere allargato all’intero funzionamento dell’economia di mercato, perché anche in questo caso c’è bisogno di una eccedenza, dell’irruzione di un principio di solidarietà umana che si sottrae al rigido meccanismo delle leggi economiche. “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pie pienamente espletare la propria funzione economica”. Tutta la situazione che si è prodotta su scala mondiale con l’esplodere della crisi finanziaria è una straordinaria conferma di questo giudizio. Il mercato non può essere l’unico regolatore, e lasciato a se stesso produce esiti distruttivi. Qui sta il punto centrale dell’intero messaggio dell’enciclica. È solo in parte la riconferma delle posizioni tradizionali della Chiesa, sia perché si misura esplicitamente con la nuova dimensione del mondo globalizzato e con le sue contraddizioni, sia perché in una forma forse mai così netta viene affermata l’indissolubilità del discoro etico-politico e del discorso economico. La solidarietà non è un qualcosa che si aggiunge ex post, e che agisce quindi solo sugli effetti del processo economico, ma deve essere il criterio che guida tutto l’insieme dell’agire umano. Ciò che si rifiuta è la separazione delle due dimensioni, quella etica e quella economica, perché non c’è nessuna oggettività tecnica, ma l’intero processo è affidato alla responsabilità e alla libera scelta degli uomini. Per questo, «i canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall’inizio mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente». È un attacco frontale al pensiero liberista dominante, che teorizza il primato dell’economia di mercato e assegna alla politica una funzione solo sussidiaria. Questo paradigma viene rovesciato, restituendo alla politica la sua funzione di indirizzo e di regolazione. «È causa di gravi scompensi separare l’agire economico da quello politico», e quindi, se non ha fondamento questa separazione, tutto torna nelle nostre mani, nella nostra libera responsabilità. Se l’effetto dell’attuale sviluppo è l’esasperazione delle disuguaglianze, ciò non dipende da una legge oggettiva, ma solo dalle scelte politiche che si sono compiute. Nessuno può sottrarsi alle sue responsabilità. Il mondo nel quale viviamo non è altro che il risultato delle nostre azioni. Non viene, quindi, dalla Chiesa un messaggio di fatalismo e di rassegnazione, ma al contrario si indica la via di un rinnovato impegno civile, e questo rappresenta un punto d’approdo molto importante, il quale esclude ogni interpretazione dell’insegnamento della Chiesa in una chiave di conservazione degli equilibri di potere.
A questo punto, la discussione si sposta tutta sul terreno politico, per individuare sia gli obiettivi sia gli strumenti di una azione di governo che sappia affrontare le contraddizioni dell’attuale sviluppo. Naturalmente, non spetta alla Chiesa entrare in questo tipo di discorso. Ma resta molto importante e impegnativo il richiamo alla responsabilità politica, così nettamente affermato nell’enciclica. Ciò che si chiede è «una nuova e approfondita riflessione sul senso dell’economia e dei suoi fini, nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo». Non è poco, e per questo l’enciclica, pur all’interno di un impianto teologico di stampo tradizionale, apre delle nuove prospettive, su cui è possibile lavorare. Alla fine, gli aspetti positivi mi sembrano essere prevalenti, perché il nucleo centrale del discorso affermo direttamente e con chiarezza quello che è davvero il cuore della crisi attuale, la necessità cioè di una regolazione politica che sia capace di indirizzare tutta l’attività economica verso un obiettivo condiviso di giustizia e di solidarietà. L’idea di fondo è che c’è sempre la possibilità di una libera scelta; tutte le forze dell’immenso apparato tecnologico ed economico non costituiscono un campo di necessità, ma possono sempre essere ricondotte, alla libera progettualità politica, che è tuttora nelle nostre mani. È il rifiuto del modello tecnocratico, che espropria i cittadini del loro potere di decisione.
In questo contesto, c’è un’importante sottolineatura della funzione delle organizzazioni sindacali, proprio in quanto soggetti che intervengono attivamente per la promozione dello sviluppo civile e della giustizia. E al sindacato si chiede di non restare chiuso in una logica corporativa, ma di rappresentare l’insieme dei lavoratori, organizzati e no, con una particolare attenzione per le fasce più deboli e meno protette. Questo richiamo coincide esattamente con quello che la CGIL si propone di essere.
C’è infine una parte innovativa e di grande interesse che tratta della sussidiarietà, dell’economia sociale, del terzo settore -ovvero di quello spazio intermedio tra i due opposti fondamentalismi dello Stato e del mercato -che può essere una straordinaria risorsa strategica da mettere al servizio di una diversa organizzazione sociale. Si tratta di un campo di sperimentazione che va più attentamente esplorato, nelle sue potenzialità e anche nelle sue ambivalenze, nei suoi possibili usi distorti, come quando, ad esempio, la sussidiarietà viene intesa solo come un indebolimento delle garanzie pubbliche e come una forma di privatizzazione dei diritti sociali. La sussidiarietà, in quanto dà vita a un protagonismo attivo dei soggetti sociali, è una risorsa fondamentale per il rinnovamento dello Stato. Ma essa va interpretata e applicata con grande rigore, e non può essere la chiave risolutiva di tutti i problemi. Dobbiamo guardarci dagli effetti perversi della retorica. Per questo, la sussidiarietà ha bisogno di una sua precisa e rigorosa definizione.
Per quanto riguarda il grande tema, oggi drammaticamente aperto, degli strumenti di governo nello spazio globale, non penso che sia sufficiente o significativo dire che occorre un governo di tipo «sussidiario». Mi sembra una formula vuota. Sono piuttosto cruciali due aspetti: la multilateralità, il superamento cioè di un dominio affidato alle grandi potenze, e la democratizzazione di tutti gli organismi internazionali. In ogni caso, è del tutto evidente che abbiamo bisogno oggi di uno sguardo globale, perché questa è la dimensione obbligata per affrontare i problemi concreti della nostra vita. La crisi della democrazia dipende essenzialmente da questo scarto, tra la globalizzazione della vita economica e la dimensione della politica ancora concentrata nello spazio nazionale. Il problema, nuovo e urgente, è quello di organizzare una democrazia dei grandi spazi. L’enciclica ci offre, in questa direzione, un contributo di alto livello che può stimolare la nostra riflessione.