LE PARZIALITÀ DEL CENTRALISMO DEMOCRATICO

di Riccardo Terzi

Sembrano passate in secondo piano le ragioni politiche che hanno portato alla decisione impegnativa di convocare il congresso anticipato dei PCI.

Nell’impostazione delle tesi e nel dibattito che si è avviato c’è una sorta di rimozione, e non si avverte l’esigenza drammatica di uscire fuori da una spirale negativa che rischia di rinchiudere il partito in se stesso e di non farlo pesare sulla scena politica. C’è un’opera nostra di ricostruzione unitaria che deve essere compiuta, c’è l’esigenza di una svolta nel modo di essere e di operare del partito.

Di fronte a ciò, perde di significato la tradizionale opposizione tra una sinistra movimentista e una destra governativa. Non si tratta certo di rifare l’XI Congresso.

Il pericolo del “movimentismo” non costituisce oggi, per il PCI, un rischio reale, incombente: si potrebbe al contrario sostenere che vi sia, in questa fase critica della storia dei PCI, una tendenza alla cristallizzazione, all’immobilismo, e un divario crescente tra la dinamica del partito e la dinamica della società. Ciò che è mancato è proprio la capacità di costruire una linea “di movimento”, che sapesse utilizzare e dinamizzare tutti gli elementi di novità presenti nella situazione sociale e in quella politica.

D’altra parte, l’obiettivo di conquistare un ruolo di governo non può essere di per sé sufficiente a definire una strategia politica, ma richiede uno spostamento nei rapporti di potere e una capacità di mobilitazione e di aggregazione di forze sociali, e in assenza di ciò il “carattere di governo” del PCI resta una dichiarazione senza effetto.

Se vogliamo partire da un’analisi dei processi reali che sono avvenuti negli ultimi anni, occorre anzitutto ricordare che si sono modificati i rapporti di potere, che la crisi del PCI è l’effetto di tendenze di fondo avvenute su scala nazionale e mondiale, che hanno investito i rapporti sociali a partire dai luoghi di lavoro, e anche, più in generale, i rapporti democratici tra lo stato e i cittadini.

Si tratta di una crisi che nasce da processi oggettivi, profondi, da uno spostamento nei rapporti di forza, ed essa quindi non può essere affrontata solo con correzioni di ordine tattico, con una maggiore duttilità e capacità di manovra nei rapporti politici. Ci sono stati sì errori e tendenze all’arroccamento, ma essi sono stati il riflesso di un’offensiva conservatrice che ha investito i punti di forza e le stesse motivazioni ideali della sinistra.

Per questo, è oggi un errore tenere disgiunte la questione del governo e la questione del movimento, ma al contrario è urgente ricomporre una visione d’insieme che restituisce, all’azione del PCI e della sinistra capacità di incidere nei fatti politici come nei rapporti sociali.

Il punto possibile di congiunzione sta nell’idea di “alternativa”, nell’obiettivo cioè di un processo politico e sociale che sbocchi nella costruzione di un assetto di potere alternativo a quello egemonizzato dalla Democrazia Cristiana.

Nelle tesi per il congresso del PCI l’alternativa convive con un’altra indicazione politica, quella del “governo di programma”. Non c’è formalmente contraddizione in quanto la seconda formula è indicata come tappa intermedia e come fase preparatoria per avvicinare i tempi dell’alternativa.

Ma non è detto che le formule apparentemente più realistiche siano davvero tali, nei loro effetti pratici. Avviene spesso che gli obiettivi intermedi siano i più illusori, in quanto offuscano l’obiettivo strategico senza riuscire davvero a mettere la situazione in movimento. Io terno che sia così per il governo di programma.

Può sorgere l’illusione che basti una certa capacità di manovra, che basti sgombrare il campo da errori soggettivi di massimalismo, che basti riportare il confronto tra le forze politiche sulle cose concrete da fare.

Ma il campo delle cose concrete è segnato da antagonismi e da contrapposizioni reali. Mettere l’accento sul programma significa porre in primo piano la necessita di una lotta politica finalizzata a una redistribuzione democratica dei potere, nel campo economico come in quello politico.

La priorità data al programma, se non è un artificio per giungere a un qualsiasi compromesso, non allenta i rapporti politici, ma li irrigidisce, e mette ancor più in evidenza la necessità per la sinistra di costruire un proprio schieramento alternativo.

In sostanza, l’idea di alternativa resta più realistica rispetto ad altre ipotesi subordinate o intermedie, più realistica in quanto non elude la portata e l’asprezza dello scontro, in quanto parte dal problema reale di un necessario spostamento nei rapporti di potere.

Resta, ovviamente, un’esigenza di duttilità nella gestione tattica, nell’adeguamento agli sviluppi concreti e contingenti della situazione politica. Ma ciò non può essere aprioristicamente definito in una piattaforma congressuale che ha necessariamente un orizzonte più vasto.

E, soprattutto, per rimettere in movimento la situazione, per riattivare tutte le energie potenziali presenti nella società, c’è bisogno di una ridefinizione dei fini, delle mete strategiche.

È la strategia che anima la tattica, e non viceversa.

In questo contesto, la definizione di un programma fa tutt’uno con la capacità di ricostruire un fronte di lotta, sindacale, sociale, politico, culturale.

Il fatto singolare del dibattito nel PCI è che tutte le posizioni finiscono per convergere nella ricerca di possibili accordi di governo con l’intero arco delle forze democratiche, tra le quali si esclude di poter individuare un qualche rapporto privilegiato. La stessa proposta avanzata da Ingrao di un “governo costituente” è solo una variante, anche se più strettamente correlata a una prospettiva di alternativa.

Credo che abbia pesato, in questo esito, il meccanismo della “mediazione” unitaria, abbia pesato quel complesso di valori e di regole che si riassume nella formula, tuttora in vigore, del centralismo democratico.

Si stemperano e si indeboliscono così la ricchezza e la complessità del dibattito interno. Non si va oltre un punto d’approdo parziale, contingente, che elude le questioni di prospettiva. Per rivitalizzare il partito, per ritrovare motivazioni all’azione politica, per uscire fuori da una lunga fase di incertezza e di disorientamento non possono non essere innovate le regole della democrazia di partito.

E soprattutto occorre che l’esigenza della democrazia si imponga come parte integrante di una linea politica che metta al centro i problemi della democratizzazione della società: l’organizzazione dello Stato, la riforma delle istituzioni, il governo dei processi economici, il controllo democratico sui processi di produzione e sull’uso delle risorse.

Su questi terreni, iniziativa politica e di massa si debbono congiungere. Su questi terreni il confronto con le altre forze politiche, e con il PSI in primo luogo, può farsi proficuo, ai di là dei tatticismi del momento.

E il confronto con il PSI è parte di un confronto più ampio con le forze della sinistra europea, con le loro elaborazioni, con le loro esperienze. La scelta del PCI di collocarsi come “parte integrante” della sinistra europea, superando schemi e pregiudizi ideologici del passato, ha senso in quanto apre la ricerca di nuovi traguardi riformatori, e se non si riduce alla ricerca di una legittimazione politica, per entrare, in qualche modo, nel gioco politico quotidiano.


Numero progressivo: H95
Busta: 8
Estremi cronologici: 1986, 7 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Foglio quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Il Manifesto”, 7 febbraio 1986