LAVORO, INNOVAZIONE, SINDACATO
Dibattito organizzato dalla Casa editrice Costa & Nolan in occasione della presentazione a Bologna del libro di Francesco Garibaldo “Lavoro, innovazione, sindacato”. Relatori Riccardo Terzi, Pietro Ingrao, Claudio Sabattini, Francesco Garibaldo.
La Camera del Lavoro di Bologna e la Libreria “Tempi Moderni” pubblicano, in questo quaderno, i testi di un dibattito che si è tenuto a Bologna nel novembre 1988 per la presentazione del libro di F. Garibaldo “Lavoro, innovazione, sindacato”. Gli interventi di Terzi, Ingrao, Sabattini contribuiscono a mettere a fuoco, nell’immediatezza del confronto, i nodi e i punti cruciali della ricerca di F. Garibaldo, collegandoli subito con i temi e gli interrogativi di fondo che si propongono oggi nella pratica, nella cultura, e nella elaborazione teorica, del sindacato e della sinistra. Viene, anche da un confronto come questo, la individuazione e la sollecitazione dei temi della nuova ricerca, di progetto e di programma, nella quale oggi è impegnata la CGIL.
Nella CGIL e nel sindacato, c’è un grande bisogno di far nascere di nuovo la passione per il dibattito, per la riflessione, per il confronto delle idee, per l’analisi della realtà.
A questa esigenza la libreria “Tempi Moderni” intende dare un piccolo contributo, avviando, a partire da questa pubblicazione, un lavoro di produzione e di circolazione di materiali “immediati”, di dibattito e di ricerca, che possono esprimere le esperienze reali di iniziativa e di riflessione della CGIL di Bologna e dell’Emilia Romagna.
Riccardo Terzi
Ringrazio anzitutto Francesco Garibaldo per questa occasione che ci viene data, di una riflessione a partire dal suo libro per discutere della crisi e delle prospettive del movimento sindacale; questo, in un momento che è particolarmente complesso, particolarmente delicato per il movimento sindacale in generale, e per la CGIL in modo più specifico, non solo per la complessità della discussione che si è aperta dentro la CGIL, ma perché siamo in presenza, a me pare, di una campagna politica che tende a chiedere al movimento sindacale, e alla CGIL, di tagliare le proprie radici, di considerare ormai come un residuo non più utilizzabile la propria storia, i propri valori, di abbandonare ogni pretesa di analisi critica e di azione critica nei confronti della realtà sociale, così come si è venuta organizzando in questi anni.
Si tratta quindi di una richiesta di omologazione del sindacato al quadro del rapporti politici e dei rapporti di forza, così come si sono venuti consolidando.
Il senso delle numerose dichiarazioni e interviste di questi giorni è che la CGIL ha un ritardo storico da superare: mentre gli altri stanno camminando velocemente verso la modernità, noi siamo un treno in ritardo, appesantito dai vecchi ideologismi, da una zavorra di cui dobbiamo liberarci. Per questo è importante una discussione sul futuro e sul presente del sindacato. Il libro di Garibaldo non è soltanto un pretesto: un’occasione ma ci offre un contributo anche di merito e di analisi, un contributo di cui io personalmente condivido l’ispirazione di fondo, e poi tornerò su alcuni aspetti più particolari.
Vorrei porre anzitutto la questione delle radici, delle ragioni di fondo della crisi che è di tutto il movimento sindacale, e non solo della CGIL; credo che sia profondamente sbagliata una lettura delle cose per cui c’è un travaglio della CGIL, e ci sono altre organizzazioni sindacali che hanno già trovato una risposta. I processi sociali e politici che sono avvenuti in questi anni hanno messo in difficoltà l’intero movimento sindacale; si tratta, appunto, di riorganizzazione del potere capitalistico, di concentrazione via via più marcata del potere decisionale, in sedi sempre più ristrette, sottratte al controllo democratico, al controllo sociale, e questo è avvenuto e sta avvenendo tuttora, sia sotto il profilo economico, sia sotto il profilo politico. Potremmo dire in estrema sintesi, che siamo in presenza di un processo di tipo oligarchico, di un processo per cui le sedi decisionali si trovano sempre più sottratte al controllo, alla verifica democratica e stanno nelle mani di gruppi estremamente ristretti.
Attraverso i processi di internazionalizzazione dell’economia, avviene che lo stesso potere politico nazionale si trova ad essere in difficoltà a guidare la nuova dimensione dell’economia mondiale; avviene quindi contestualmente uno svuotamento delle istituzioni democratiche, una difficoltà crescente del potere democratico a guidare, a controllare questi processi: si vanno configurando, quindi, una serie di poteri separati, nel campo dell’economia, come nel campo dell’informazione, nel campo della cultura, fino ad arrivare ai poteri separati che sono legati alla criminalità organizzata. Ora, in questo contesto, il movimento sindacale si trova ad essere spiazzato, ad essere messo fuori gioco; questo, comunque, è l’obiettivo, è il tentativo delle forze dominanti; questo è il senso della tendenza, che c’è stata in questi anni, che non siamo riusciti a contrastare a sufficienza, verso una centralizzazione delle relazioni sindacali, della tendenza a considerare l’azione sindacale come un’azione marginale, residuale, a tagliare fuori dalla contrattazione tutta una serie di aspetti che sono decisivi nella vita economica e nella vita sociale.
La politica delle grandi imprese, cioè, è una politica che tende, da un lato, a centralizzare le relazioni, e quindi a indebolire il potere contrattuale del sindacato nei luoghi di lavoro, e dall’altro, a sottrarre alla contrattazione gli aspetti strategici, i processi di innovazione tecnologica, le scelte strategiche dell’impresa. Allora, se questo è il quadro, dobbiamo porci la domanda se è possibile, se è praticabile, se è realistico pensare a una risposta alternativa a questa situazione, se è possibile una linea che non si riduca all’adattamento a queste tendenze in atto; cioè, se il sindacato non ha soltanto, come unica possibilità, quella di stare dentro queste rigide compatibilità del sistema, limitandosi ad un ruolo subordinato di tipo corporativo. Questo mi pare sia l’interrogativo di fondo che abbiamo davanti in questo momento.
Il problema non è soltanto sindacale, è in problema politico di più ampia dimensione. È in questione, non soltanto l’azione del sindacato, la strategia del sindacato, è in questione l’orizzonte politico e teorico della sinistra. Si tratta qui di una crisi che ha dimensioni più ampie: è la crisi della sinistra, è la crisi che ha attraversato il Partito Comunista in questi anni.
La sconfitta politica subita dal Partito Comunista non è un fatto congiunturale, e non è una crisi da cui si esce soltanto con degli aggiustamenti di carattere tattico, con una manovra politica più accorta. Credo che dobbiamo fare i conti con un processo sociale molto profondo che ha intaccato le nostre radici, che ha messo in discussione la ragione d’essere della sinistra e del movimento operaio. A me sembra che da questo punto di vista cominci ad esserci nella sinistra una riflessione, che cerca di stare all’altezza di questo problema.
È in preparazione un importante congresso del Partito Comunista, abbiamo finora visto i primi materiali, una prima bozza di tesi. C’è in questi documenti un filo conduttore, una linea di ricerca, che cerca di fare i conti con questo complesso di problemi, e che si può riassumere così: una concezione della democrazia che va oltre gli aspetti formali, oltre una difesa dell’ordinamento costituzionale, e che tende a realizzare un’analisi critica della struttura materiale del potere in tutte le sue diverse manifestazioni, e che si riassume nella formula della democrazia come via del socialismo.
Quindi, una concezione dinamica e per certi aspetti anche radicale della democrazia, che ci induce ad affrontare alle radici l’attuale struttura del potere.
In questo contesto particolare rilievo ha per il movimento sindacale la questione della democrazia economica: come noi riusciamo ad individuare le forme, gli strumenti, gli obiettivi per raggiungere dei risultati nella direzione di una democratizzazione del potere economico, che finora è sfuggito a qualunque controllo; come ridiamo concretezza ad un’idea di controllo sociale sui processi di trasformazione che stanno avvenendo. Il sindacato, quindi, dentro questa visione trova un suo spazio, una ragione d’essere; diventa un fattore essenziale, decisivo di questo processo di democratizzazione con un suo particolare ruolo politico, autonomo, distinto da quello delle forze politiche.
Io credo che questa questione dell’autonomia del sindacato sia una questione cruciale; e non la risolviamo con delle dichiarazioni di principio o con degli atti di buona volontà. Un approccio a questo problema che sia soltanto di tipo soggettivistico è un approccio molto limitato, in quanto pone la questione dell’autonomia come se dipendesse solo dal fatto di avere una giusta linea, un giusto atteggiamento, una giusta posizione soggettiva, mentre, mi pare, l’autonomia del sindacato è stata messa in crisi da processi oggettivi materiali, e non ne usciamo soltanto con una lotta politica contro posizioni di tipo subalterno, ne usciamo se abbiamo la capacità di risposta ai problemi, ai processi reali che il sindacato ha di fronte, che la società nel suo insieme ha di fronte, con un progetto.
La crisi dell’autonomia del sindacato sta in questo deficit di progettualità, in questa difficoltà che il sindacato ha avuto di fronteggiare i processi sociali che sono avvenuti, con una propria autonoma capacità di analisi, di risposta e di progetto. Allora, anche da questo punto di vista, la stessa questione dell’unità sindacale va considerata in modo nuovo: resta, io credo, un obiettivo strategico essenziale per il sindacato, però non basta, non serve più, rischia di essere puramente un fatto retorico la ripetizione dell’unità come valore, se non riusciamo ad individuare un terreno su cui si ricostruisce un movimento reale, un processo unitario che abbia la forza di dare delle risposte nuove, in avanti. Altrimenti restiamo fermi ad un’idea dell’unità astratta e velleitaria. Per realizzare questa impostazione politica che mette al centro il problema della democratizzazione dei poteri, dobbiamo partire dall’analisi dei processi reali, dalla concretezza del lavoro e dell’impresa. Questo mi pare che sia lo sforzo che fa anche Garibaldo nel suo libro: partire dalle contraddizioni reali, dalle contraddizioni sociali così come si presentano oggi.
È evidente il fatto che le contraddizioni sociali si presentano oggi in modo più complesso, più differenziato, non c’è soltanto la tradizionale contraddizione capitale – lavoro, ma ci sono altre fondamentali contraddizioni che intervengono nella realtà sociale: quella dell’ambiente anzitutto. Ma io credo che noi non riusciamo a comprendere, a inquadrare correttamente questa complessità delle contraddizioni, se perdiamo di vista la centralità del lavoro, se non riusciamo, cioè, a vedere l’intreccio che c’è tra questi diversi aspetti, se non vediamo come al fondo della crisi nostra, della sinistra, del sindacato, dell’idea di trasformazione, c’è una crisi del lavoro, una perdita di senso del lavoro, come dice anche Garibaldo nel libro.
Quello che è andato avanti in questi anni è un uso capitalistico delle nuove tecnologie, un processo profondo di trasformazione, di rivoluzionamento delle modalità del lavoro, un accentramento delle decisioni, una restrizione progressiva degli spazi di autonomia nel lavoro, una subordinazione crescente del lavoro umano alla macchina, alla tecnica. Ma questo non è il portato inevitabile del progresso tecnico, non c’è nessun determinismo da questo punto di vista; c’è una scelta politica, una scelta di classe. C’è un processo inevitabile, per cui resta soltanto la possibilità di una realizzazione di sé fuori del lavoro, resta soltanto la possibilità di battersi per ridurre l’orario di lavoro, per modificare il rapporto – come si dice – tra tempo lavoro e tempo di vita.
Io credo che abbia ancora un senso una battaglia politica dentro il processo lavorativo, per cambiarne le finalità, i significati, il senso, vedendo anche le contraddizioni che si pongono dentro la realtà delle imprese. C’è una contraddizione che si apre tra l’esigenza, da un lato, di controllo gerarchico sul lavoro e l’esigenza, dall’altro lato, di consenso di cui l’impresa sempre più ha bisogno in presenza delle nuove tecnologie, la contraddizione tra il vecchio modello tayloristico e le nuove esigenze di flessibilità nel funzionamento e nell’organizzazione dell’impresa.
Io qui vedo un campo di intervento nuovo, fondamentale per il movimento sindacale, dentro contraddizioni reali, in un rapporto diretto con i lavoratori, con la loro situazione soggettiva. In questo senso diventa acuto, diventa attuale tutto il problema della democrazia per il sindacato, cioè la esigenza di ricostruire un circuito democratico vero nel rapporto tra sindacato e lavoratori.
In questo senso si pone per il sindacato l’esigenza, che poi è la chiave dell’analisi che fa il libro di Francesco, di passare da una vecchia cultura di tipo rivendicativo tradizionale, a una linea che assume i problemi della gestione dell’impresa, del funzionamento dell’impresa, l’esigenza, cioè, di avere un progetto politico che parte dal lavoro e che restituisce al lavoro, ai lavoratori, alla loro vita collettiva, un senso, un significato. Questo apre una serie di questioni più strettamente di politica sindacale: che tipo di modello pensiamo per le relazioni sindacali, per superare le tendenze alla centralizzazione?
C’è una discussione aperta, ci sono delle proposte, recentemente è stata avanzata una proposta che a me pare interessante da parte della FIOM, una proposta che punta a spostare il baricentro della contrattazione sul livello dell’impresa, e tende ad allargare l’area di intervento del sindacato, rifiutando la tendenza delle controparti a sottrarre al sindacato tutta una serie di aspetti, ad avere un governo unilaterale dei processi di innovazione e di trasformazione.
Questi mi sembrano i problemi, i problemi di cui stiamo discutendo; c’è una lettura della discussione nostra, nella CGIL, per molti aspetti distorta, come se la discussione fosse soltanto sui gruppi dirigenti, sugli organigrammi: certo, c’è anche questo, come sempre, c’è un intreccio tra politica e capacità dei gruppi dirigenti di fare delle scelte. Io vedo, se questa analisi è corretta, se siamo in presenza di processi che hanno questa ampiezza, se è così radicalmente messo in discussione il ruolo autonomo del sindacato, l’esigenza e la necessità per la CGIL di un salto in avanti, di una sperimentazione di nuove esperienze sindacali, di misurarci al livello più alto possibile con l’impresa, con le sue scelte strategiche, l’esigenza di costruire una nuova cultura sindacale: questo è il punto.
Non è una discussione meschina, quindi, che riguardi assetti di potere, equilibri interni: siamo a un punto vero di svolta che deve essere compiuto, altrimenti, se non facciamo questo, c’è il galleggiamento, c’è una linea puramente pragmatica in cui di volta in volta si cercano, si trovano le mediazioni possibili, ma senza parametri politici forti, e quindi in un’ottica che finisce per essere inevitabilmente un’ottica di subalternità del sindacato alle esigenze in atto.
Questa è il senso politico della crisi del sindacato e della discussione che è aperta oggi nella CGIL.
Pietro Ingrao
Voglio dire alcune cose essenzialmente sul libro, molto interessante, di Garibaldo.
Il primo punto, che mi pare giusto sottolineare, è l’impianto analitico e insieme il soggetto, che sta al centro della ricerca e della proposta contenuta in questo libro: l’impresa capitalistica come si presenta oggi, dopo quella che Garibaldo non esita a chiamare una “nuova rivoluzione industriale”. Condivido questa tematizzazione, anche perché essa rifiuta una lettura neutra, ambigua, e in fondo opaca, dell’accaduto, e spesso nascosta sotto il termine generico di “modernizzazione”.
Mi sembra che il libro di Garibaldo sviluppi una analisi concreta dei mutamenti intervenuti nell’attore fondamentale di quella ristrutturazione dei poteri che si è realizzata da noi ed altrove in questi anni – ne parlava adesso Terzi – e permettere anche di capire meglio quelle sconfitte del mondo del lavoro, che hanno portato, sul terreno sociale e politico, a nuove forme oligarchiche. Mi pare che Garibaldo sviluppi la sua ricerca muovendo da due punti: prima di tutto esamina le nuove forme della contraddizione tra capitale e lavoro (non so se così gli rendo un cattivo servigio, perché a volte sembra che sottolineare questo nodo delle società moderne stia diventando un peccato). Per definire il posto che dentro questa contraddizione ha il lavoro industriale, Garibaldo ricorre a un aggettivo “paradigmatico”, per sottolineare – mi sembra -il carattere emblematico, che nella situazione sociale del nostro tempo, il lavoro industriale ancora possiede.
Certo, quando Garibaldo parla della contraddizione capitale – lavoro, la presenta come una contraddizione non esaustiva, ma che non può essere marginalizzata. Il libro – ed ecco la sua concretezza, e anche il suo rifiuto molto netto di vuoti ideologismi – è tutto orientato a leggere come si presenta oggi e come impronta di sé l’insieme sociale, appunto tale contraddizione, dopo la grande ristrutturazione neoconservatrice e le sconfitte che ne sono derivate per il movimento operaio nel nostro Paese, e non solo nel nostro Paese.
Garibaldo sviluppa un’analisi, che rifiuta sia una interpretazione puramente economistica del nuovo dominio della grande impresa e delle culture che l’hanno sostenuta, e ancor più quelle letture che assumono la tecnologia quasi come un fatto oggettivo, e quindi neutro, per non dire addirittura come fatto “naturale”.
Il libro, anzi, rifiutando una lettura delle vicende di questi anni, in chiave di determinismo tecnologico, in alcune pagine molto interessanti, compie un’analisi delle teorie e delle stesse pratiche che sgorgano dalla sponda capitalistica, a proposito dell’organizzazione moderna della grande impresa. E documenta come queste pratiche e queste culture guardino oltre l’orizzonte tayloristico; e in fondo vengano teorizzando e costruendo un tipo di primato della grande impresa capitalistica, che sa molto bene quanta parte del suo dominio deve continuamente intrecciare quel processo materiale (che ieri era macchinismo, e oggi è informatizzazione “flessibile”) con le tecniche della “persuasione”, del consenso, cioè con un forte grado di controllo “culturale” sui lavoratori, sul terreno persino emotivo.
Da questo ricco tessuto analitico, che guarda sia ai mutamenti grandi nei processi produttivi, sia alle culture che li hanno accompagnati, il libro ricava una riflessione documentata sulle nuove forme di alienazione del lavoratore e della lavoratrice, che poggia su ricerche aggiornate di grande interesse. Io vedo in questa riflessione aggiornata un importante arricchimento di orizzonte. Ragionare così, saggiando e riproponendo con un’analisi concreta il tema della estraneazione, e assumendolo come un punto focale di ciò che è accaduto; ragionare così sull’assetto sociale che si è realizzato nel nostro e in altri paesi, significa riprendere e sviluppare un grande tema critico, rispetto allo sviluppo e alle forme del capitalismo; un tema critico che non sta solo in certe pagine di Marx (e mi pare che Garibaldo ragioni sul pensiero di Marx e anche sulle sue diverse formulazioni, fuori da qualsiasi vecchia lettura dogmatica e determinista), ma anche in correnti importanti della cultura contemporanea: anche in tutta un’ala dello stesso pensiero religioso.
Vorrei che in questa discussione ci domandassimo se nel momento in cui Garibaldo ripropone, attraverso un’analisi concreta dei cambiamenti in atto, questa categoria dell’alienazione, compie un’operazione feconda oppure no. Difatti sappiamo quanto, in questi anni, abbiano agito correnti culturali che sostengono l’infondatezza di questa angolazione critica. Insisto a sottolineare che questo testo di Garibaldo non fa un ragionamento generico sull’alienazione nel sistema capitalistico.
Mi pare che in altra occasione, proprio a Bologna, parlammo delle analisi concrete compiute in questi anni da studiosi su esperienze significative di lavoratrici e di lavoratori. Esperienze che davano uno spaccato impressionante delle condizioni di solitudine, di perdita di sé, di sentirsi “cosa”, che emergevano dal racconto di lavoratori, presenti peraltro in settori produttivi ad alta informatizzazione.
Io ho sottolineato prima che Garibaldo rifiuta ogni lettura di determinismo tecnologico, e anche di riduzione delle innovazioni industriale in atto a pura tecnica della organizzazione materiale della produzione. Il libro scommette sulle potenzialità di un altro uso dell’innovazione. E tuttavia non possiamo dimenticare che la chiave critica, contenuta in questo libro, in questi anni non solo è stata messa in soffitta, ma è stata largamente vilipesa da quella che io chiamo l’apologia dell’esistente; oppure è stata considerata, se non arcaica, un fatto del tutto residuale. E l’influenza di questa apologetica, secondo me, si è fatta sentire, in qualche modo, anche nell’agire sociale concreto, anche nelle piattaforme rivendicative, nelle culture praticate sia da soggetti sindacali, sia da soggetti politici della sinistra. E credo che anche tra i comunisti vi sia stato, su questo punto, qualche cosa che io definisco un oscuramento.
L’aspetto concreto di questo incontro di stasera non possiamo nasconderlo: siamo qui anche per interrogarci sulle prospettive della sinistra. Esse stanno solo in operazioni di redistribuzione del reddito (di cui non contesto affatto il significato) o anche in politiche di Welfare, di allargamento dei diritti di cittadinanza universale, o in politiche, essenziali, (ci tengo a sottolinearlo) di occupazione? Oppure riteniamo che insieme e oltre questi terreni rivendicativi pure così importanti ci sia altro: ci sia un problema – ecco il punto che mi preme – cruciale, che riguarda il rapporto tra essere umano e lavoro, e quindi il grande tema del senso del lavoro? E riteniamo o no che in ciò sia un tema essenziale, non solo per l’azione del sindacato, ma per la libertà dei moderni, per la libertà del nostro tempo?
E mi sembra significativa la critica, che il libro muove al determinismo sociale, anche di stampo marxista (di cattivo marxismo, in verità, in questo caso), cioè a uno schema evoluzionistico che vede maturare la liberazione dell’uomo dall’evoluzione del meccanismo produttivo; che è critica anche al “giacobinismo” politico – Garibaldo lo chiama così, con termine classico – : cioè a quella strategia che crede – adesso lo dico a modo mio – di “saltare” con lo strumento dello “statalismo” il problema della subordinazione, dell’alienazione del lavoratore nel luogo di lavoro, e che perciò cerca in fondo la risposta “liberatrice” fuori dal momento lavorativo.
Perciò il libro fa discendere da questa visione critica, una risposta che vuole agire e riportare prima di tutto il conflitto e l’iniziativa proprio nel luogo di produzione: per mettere in movimento, un processo, un protagonismo, che Garibaldo chiama addirittura – in senso lato – “autogestito”; e per ritrovare su questo terreno le forze e l’iniziativa necessaria per uscire dalle sconfitte, che abbiamo subito.
Garibaldo concentra la sua attenzione su quella che viene chiamata, con termine tipico della letteratura sull’industria e sulla moderna impresa, la “pianificazione strategica dell’impresa”. Propone la strada di una capacità dei lavoratori di esprimere una forza progettuale sul terreno della “pianificazione strategica di impresa”, misurandosi con l’antagonista padronale a questo livello.
Il libro insiste molto sul fatto che di questa nuova capacità progettuale si può fare l’asse di un rilancio del volto stesso del sindacato; secondo la convinzione che al di sotto di questo livello e di questa sede non si supera l’atomizzazione dei lavoratori, non si evita la sconfitta, e non si fanno i conti reali con i nuovi orizzonti, appunto, di organizzazione strategica e di flessibilità che sono propri oggi dei processi produttivi.
C’è in ciò – dobbiamo dirlo – una critica di fondo ai limiti che ha avuto l’azione sindacale. Mi sembra anche che si veda su questo terreno lo spazio per riaggregare soggettività individuali e differenze, che altrimenti tendono a sfociare nella frantumazione.
Garibaldo dice: il sindacato deve dimostrare nei processi produttivi di sapere realizzare un utilizzo pieno e creativo di tutte le potenzialità presenti in questa nuova rivoluzione industriale; assumendosi, dalla sua angolazione, “l’onere della prova”: misurandosi con i vincoli dell’impresa e “gestendo” (questo è un termine sul quale vorrei avere poi un chiarimento) da questa collocazione ipotesi di trasformazione.
Vedo bene che così, si cerca di dislocare il confronto e il conflitto su punti di decisione reale. Naturalmente qui sorgono le domande. L’autore fa un’analisi che distingue tra “strategia” di impresa (io dirò più rozzamente fini strategici dell’impresa) e “pianificazione strategica” dell’impresa stessa; e sostiene che l’iniziativa dei lavoratori deve muoversi sul terreno della “pianificazione strategica”.
Ecco la mia domanda: la strategia dell’impresa, nel suo senso più generale, contiene o no anche una scelta di fini e previsioni che riguarda l’agire ampio dell’impresa e che, quindi, può diventare un vincolo anche per l’organizzazione e la pianificazione strategica, oltre che per tutto il suo sistema di alleanze politiche e sociali? E quindi, la strategia dell’impresa non può diventare un limite oggettivo per quel nuovo soggetto sindacale, che voglia avviarsi verso quella strada che nel libro viene chiamata di “codeterminazione”.
In questo cammino, di cui vedo tutto l’interesse, questo soggetto collettivo, espressione dei lavoratori, non può forse trovarsi di fronte a scelte produttive, ad un calcolo delle risorse (sia riguardanti l’impresa, sia riguardanti gli spazi nazionali e sovranazionali) che rendono difficile poi misurarsi sul terreno della pianificazione strategica, cioè dell’attuazione di una determinata strategia, visto che i nessi tra le strategie generali e conseguente pianificazione strategica sono notevolmente stringenti? Basta pensare ai processi di finanziarizzazione, alle tendenze al monopolio dell’informazione, ai modi di influire sulle politiche fiscali, all’incidenza sull’organizzazione generale del sapere, e alle dimensioni ormai sovranazionali di alcune di queste tendenze. Tutti fatti che possono incidere fortemente sugli spazi della “pianificazione strategica”, sui processi produttivi concreti.
Dico insomma a Garibaldo: ti proponi di incidere in una sfera senza dubbio importante; ma l’incidere in questa sfera non viene a scontrarsi con la sfera – come dire? – “generale” della strategia dell’impresa stessa?
Il libro cita un brano interessante di un altro interlocutore che è a questo tavolo: Claudio Sabattini. È un brano che sottolinea l’elemento del conflitto e del confronto progettuale con l’impresa e del momento di mediazione, che poi si risolve in quello che viene chiamato un processo di codeterminazione (naturalmente da una posizione autonoma della rappresentanza collettiva dei lavoratori). Dati, però, certi vincoli strategici, come si può “condeterminare” le tappe della pianificazione strategica, senza che le varianti che ci possono essere nei fini della strategia mettano continuamente in forse anche il rapporto di codeterminazione? Anche a livello della soggettività collettiva sindacale, non dobbiamo porci il problema di lotte, che permettano almeno di valutare i nessi tra “strategia” e “pianificazione strategica”?
Qui non voglio tanto chiedere a Garibaldo dov’è il confine, dov’è la soglia a cui arriva il confronto sulla “pianificazione strategica” e la conseguente mediazione, perché probabilmente sarà un confine mobile. Ma come e dove stabiliamo il nesso tra questi due ordini di problemi? E non lo dico per alzare utopisticamente il tiro, ma perché se ci misuriamo sul campo decisivo della produzione, lo spostamento, però, di risorse e di culture e la questione di alleanze indispensabili si presenta necessario, per sostenere una battaglia così avanzata di autonomia nella produzione, di progettualità nella “pianificazione di impresa”.
Infine Garibaldo analizza le nuove forme di agire del lavoro che hanno colpito le vecchie forme di aggregazione dei lavoratori: per esempio la crisi del “gruppo omogeneo” e di certe forme di esperienza collettiva di base.
C’è una distanza, allora, che dobbiamo colmare tra l’istanza di progettualità e lo stato delle esperienze singole. Se poi vogliamo scartare una lettura della ipotesi di “pianificazione strategica condeterminata” che sia una lettura “manageriale” (cioè come un incontro e un confronto solo fra due “competenze”), allora mi sembrano molto importanti – qui torna la tematica che evocava Terzi – i processi anche parziali, le aggregazioni anche progressive che radicano nel vissuto dei lavoratori quella costruzione di una progettualità gestionale: per reggere, appunto, quell’ipotesi di una possibile “codeterminazione”, che non sia solo verticistica (fra “competenze”).
Ecco perché io vedo come un problema centrale la crisi attuale della contrattazione articolata; e considero grave l’arretramento, che si è registrato su questo terreno. E vedo, la ripresa di una lotta sul terreno della contrattazione articolata, come un elemento necessario, anche per ricominciare a misurarsi con quei traguardi, che il libro di Garibaldo indica. Ecco perché la vicenda Fiat mi è apparsa pesante ed emblematica: non solo per quello che ha significato per quegli specifici lavoratori; ma perché mi pare esprimesse una precisa volontà padronale (non contestata, purtroppo, dalla CISL e dalla UIL) di impedire proprio quelle nuove esperienze di aggregazione dal basso, che sono oggi decisive per fare crescere tale nuova progettualità.
Ci sono, allora, due nessi, due legami che mi sembrano essenziali per l’ipotesi contenuta nel libro: da una parte il nesso con la questione delle “strategie”, delle grandi scelte strategiche, e quindi con i processi sociali e politici generali; e quindi anche con il problema: in che misura il sindacato è o non è o deve essere anche “soggetto politico”. E poi, l’altro nesso con le esperienze autonome, con il “vissuto” dei lavoratori anche su terreni parziali.
Ci sono nel libro pagine molto belle sulla “sofferenza”, sulla difficoltà di misurare ciò che “sporge” – Garibaldo riprende qui un termine di un libro di Pietro Barcellona che abbiamo discusso tempo fa proprio a Bologna, ed io credo che oggi questo termine viene ad esprimere in un modo nuovo la coscienza che noi abbiamo di una soggettività individuale in qualche modo non tutta misurabile. C’è sempre qualche cosa nel “sofferto” del lavoratore, in quella sua esperienza, che non può essere rinchiusa in un calcolo quantitativo e può essere “normata” solo fino a un certo punto.
Che cosa intende dire? Il “fatto” che poi la donna, l’uomo che vuole entrare a fare parte di un’esperienza collettiva, si portano dentro di sé qualcosa di così specifico e irriducibile; e le politiche sociali che noi realizzeremo, e le aggregazioni che riusciremo a costruire, forse non potranno mai esprimerlo compiutamente. C’è qualcosa che resta sempre “fuori”. lo credo, però, che questo non sia un danno: sia la vita che va oltre anche i programmi, oltre anche le politiche realizzate, e che esprime sempre “un di più” che poi feconda l’avvenire.
Claudio Sabattini
Io userò un linguaggio fondamentalmente polemico anche perché, per natura ed atteggiamento, riesco in questo modo a chiarire meglio come penso di affrontare determinati problemi. Tralascio, per un istante, il riferimento immediato al libro di Francesco perché lo condivido e anche condivido molte delle interpretazioni che adesso ne ha dato Ingrao. Vorrei sforzarmi di cogliere un elemento che io considero singolarmente oscurato non solo nella discussione teorica o strategica, ma anche nella discussione più banalmente giornalistica, in quella di tutti i giorni.
Io credo che gli anni Settanta siano stati un grande processo di rivitalizzazione del movimento di massa, a partire dalle fabbriche, e siano stati, quindi, una grande fase della storia della forza lavoro.
L’organizzazione operaia all’interno delle fabbriche, non ha coinvolto solamente gli operai, ma ha coinvolto tecnici, impiegati, e nella sua fase più alta ha coinvolto parti sostanziali della società e, perché no, intellettuali che sentivano un rapporto diretto con i movimenti di massa e con i lavoratori. Purtroppo molti di loro hanno poi cambiato opinione nel corso degli anni. Gli aumenti uguali per tutti, i processi egualitari che in una certa misura si sono proposti come scontro diretto nell’impresa nei confronti della direzione manageriale, nei confronti della direzione padronale, hanno costruito forme di gestione dei processi produttivi, a partire dalle condizioni di lavoro, fino ad arrivare a fasi vere e proprie di potere inteso ad annullare il potere imprenditoriale o comunque, sulla base di questo, a contrattare nuove condizioni e nuove possibilità per la forza lavoro.
L’esperienza del movimento sindacale e del movimento operaio, tutta concentrata su questo rilancio della forza lavoro e della sua valorizzazione mercantile, il salario, si è scontrata con la rivoluzione industriale – anche io uso questo termine – che ha messo in discussione l’insieme dei poteri e, prima di tutto, il potere essenziale che doveva combattere all’interno della impresa e che era, appunto, il potere dei lavoratori.
Io devo dire con grande amarezza, questo sì, che in quel momento si è pensato che si potesse passare pacificamente, quasi per destino, ad una fase in cui i lavoratori da forza lavoro diventano semplicemente costo del lavoro, uno degli elementi del costo di produzione. Ricordate tutta la fase in cui tutte le responsabilità della grande crescita del capitalismo internazionale, venivano individuate nel costo del lavoro.
Bisognava abbassare il costo del lavoro. Di fronte a questa offensiva capitalistica la risposta del sindacato è stata sostanzialmente inesistente: abbiamo contrattato al ribasso una serie di condizioni. E molti intellettuali della sinistra, a partire dagli intellettuali che fanno parte tuttora del Partito Comunista, hanno teorizzato che, tutto sommato, bastava abbassare il livello del costo del lavoro per poter riprendere, con più forza di prima, lo sviluppo. È successo, invece, ancora di più. È successo che il lavoratore, che non è più forza lavoro, non è neanche più costo del lavoro. Il lavoratore diventa un elemento aggiuntivo, completamente dominato dal mercato: le imprese non vogliono nemmeno più pagare la forza lavoro e la sua prestazione.
La discussione avvenuta sull’accordo Fiat non è tanto grave per le vicende, un po’ rocambolesche, che hanno contrassegnato questo accordo – non accordo. La cosa più forte è il fatto che si potesse discutere di una gratifica di bilancio della Fiat, generosamente data, si fa per dire generosamente, come di un fatto salariale. Non si discute più della prestazione del lavoro: tu non sei più pagato per quello che fai; sei pagato se l’impresa va bene, se non va bene niente. È paradossale, ma diventa più forte il rischio del salario che il rischio di impresa e quindi, da questo punto di vista, si può andare avanti come si può andare indietro.
Se ci pensate attentamente, dietro questo involucro apparentemente banale c’è, però, un elemento sostanziale: i lavoratori sono uno dei tanti fattori produttivi e, come tutti gli altri fattori produttivi, sono pagati e remunerati se l’azienda, nel mercato ed attraverso il mercato, vende, non sono pagati se l’azienda, attraverso il mercato, non vende.
Ora io capisco che molti di noi, o alcuni di noi che dicono queste cose, siano considerati demodé, massimalisti, perfino sandinisti – ma questa è una vocazione internazionale che io considero un grande complimento – la cosa che mi colpisce, però, è come sia possibile non accorgersi che questo sta succedendo sotto i nostri occhi.
Io non dico nemmeno che bisognava avere, come dice spesso il compagno Ingrao, un atteggiamento critico, che mi pare naturale nei confronti del capitalismo, almeno, ammettere che questo succede nel capitalismo; poi magari uno è contento di essere pagato come un bullone. Ma ammettere che è così e se questo significa essere massimalista, va benissimo. Sono particolarmente contento, anche perché forse rimane qualche luce che permette ancora di capire ciò che succede, perché io penso che chi non si avvede di queste cose non capisce praticamente nulla.
Ora di fronte ad una rivoluzione così generale ed epocale che ci rimette in discussione tutta la tradizione dei valori del sindacato, che rimette in discussione le stesse fondamenta e le finalità generali del sindacato, è così straordinario che la CGIL discuta e si divida?
Io trovo che sarebbe stata davvero una tragedia se non avesse discusso e, non trovandosi d’accordo, non si fosse divisa. È così straordinario che la CGIL, che il sindacato che in bene o in male nella sua storia ha sempre considerato i lavoratori, iscritti e non iscritti, occupati e non occupati, il punto di riferimento della propria azione, di fronte ad un processo di frantumazione di tutto il suo corpo sociale si interroghi sulle proprie prospettive?
Ma è così strano che la CGIL si divida? Aprire questa discussione, dibatterla apertamente, cercare di rintracciare un senso, una possibilità nuova per il sindacato è un’opera retrò, oppure un’opera avanzata e la possibilità stessa della vita del sindacato?
Io capisco che quando la Fiat chiede molti rispondono positivamente. Non mi stupisco che molti rispondano. Scrittori e giornalisti, che non hanno mai visto una fabbrica, improvvisamente diventano più sapienti dei lavoratori stessi. Sanno individuare meglio, consigliano come bisogna fare, dicono che bisogna avere una attenzione, cautela, ragionevolezza perché l’interesse generale preme. Bisogna tenere conto di tutto questo, insisto, però direi che queste cose non ci aiutano, così come non aiutano le caricature sciocche ed inutili che vengono fatte.
Io credo che ci sia bisogno oggi di un grande progetto di innovazione, come diceva Terzi. C’è bisogno di essere effettivamente all’altezza della sfida avanzata quotidianamente dalla grande impresa capitalistica transnazionale. In una fase in cui pensare all‘Europa del 1992 vuol dire andare verso una prospettiva di grande integrazione dei poteri capitalistici, dominata dai processi di finanziarizzazione e di integrazione delle imprese. Ora, perché tanto accanimento nel libro di Garibaldo e da parte di alcuni di noi, che poi non sono solo alcuni, nel rintracciare le fondamenta del sindacato? Davvero oggi di fronte a questa redistribuzione dei poteri, di fronte a questa modificazione radicale, sia delle istituzioni politiche che debbono essere trasformate e sia della concentrazione dei poteri capitalistici, davvero un sindacato non dico di classe, semplicemente sindacato, può pensare seriamente di contestare questi processi sul piano della redistribuzione e cioè sul piano della contrattazione salariale? Quando per avere la possibilità di contrattare il salario, l’impresa ti chiede di assumerti anche la responsabilità dell’impresa stessa sul mercato?
Io credo che questo non sia più possibile. Non che non bisogna più contrattare il salario, non che non bisogna più discutere la riduzione di orario, ma io credo che il sindacato puramente redistributivo, che in qualche modo tenta di correggere le storture della distribuzione della ricchezza, un sindacato così non è in grado oggi di essere all’altezza della situazione.
Questo è il nodo che noi abbiamo di fronte, ed è su questo nodo che è andato in crisi non solo il sindacato italiano, ma tutto il sindacato europeo, proprio di fronte ai grandi processi di integrazione capitalistica.
Bisogna, però, trovare sempre un punto da cui ripartire per riannodare tutte le questioni. lo sono d’accordo che il punto da cui ripartire è il lavoro. Ma in che senso è il lavoro? Non il lavoro nel senso di forza lavoro, io parlo proprio del lavoro, della qualità del lavoro, certo anche della sua quantità.
Non c’è dubbio che noi non possiamo che avere come punto di riferimento la piena occupazione. Ma la piena occupazione, di per sé tra l’altro chimera in questa fase capitalistica, ha pur bisogno di misurarsi anche con i problemi della sua qualità, con il rapporto lavoro – uomo – lavoro – donna, con la possibilità, quindi, di capirne le differenze e attraverso la comprensione di differenze di riuscire anche a riqualificare, a riplasmare lo stesso lavoro.
Perché io dico lavoro e senso del lavoro, e qui credo di riferirmi direttamente al libro di Francesco, per una ragione molto semplice. Perché – e mi riferisco alle domande di Ingrao – il senso del lavoro non vuol dire solo la prestazione, l’autonomia all’interno della impresa, l’autodeterminazione nel proprio lavoro, non vuol dire solo qualità di prestazione. Siccome il lavoro è l’unica condizione e possibilità, io insisto su questo, che permette un rapporto di trasformazione con la natura, senza il lavoro noi non avremmo nessuna qualità d’intervento sulla natura, il senso del lavoro vuol dire non solo come produrre, ma vuol dire anche cosa produrre. Inerisce alla strategia della impresa, cioè a ciò che occorre produrre, che è giusto produrre o che non è giusto produrre. Voglio dire che il senso del lavoro è una valutazione complessa che da significato a ciò che si fa non solo all’interno dell’impresa, cioè nel nucleo, nel centro essenziale del processo trasformativo, ma nei rapporti tra il processo trasformativo e gli uomini e le donne, e quindi nei rapporti di ricambio, direbbe Marx” tra uomo e natura.
Questo è il punto essenziale del ragionamento sul senso del lavoro. Sapere o non sapere se dentro l’impresa si è qualificati solamente per avere questa qualifica più alta o più bassa o battersi per passare dalla qualifica più bassa a quella più alta, oppure ritrovare la propria centralità nel processo produttivo che permette, acquistando potere, di potere anche condizionare le scelte strategiche dell’impresa sul cosa fare. E sul cosa fare è bene fare due osservazioni. A differenza di quello che pensavano i nostri padri rivoluzionari, perché, per fortuna, noi qualche padre rivoluzionario lo abbiamo pur avuto, e cioè che il progresso tecnologico significasse progresso sociale ed, al limite, abbondanza dei beni e quindi felicità, in realtà questo non è vero.
Non c’è dubbio che l’Occidente capitalistico sia l’area più sviluppata del mondo, però, differentemente da ciò che si pensava, non c’è dubbio che il modello capitalistico occidentale non è più un modello, per esempio, per i paesi del terzo mondo.
Se il terzo mondo ripercorresse la stessa strada con le stesse tecnologie, con le stesse impostazioni dell’Occidente capitalistico, il mondo non reggerebbe a questa trasformazione.
Se i nostri ambientalisti si preoccupassero solamente, non ce l’ho ovviamente con gli ambientalisti, di sapere come difendere la Foresta Nera e perché ci sono le piogge acide, non tenendo conto che nell’istante in cui mangiamo in realtà espropriamo il terzo mondo delle sue risorse, l’ambientalismo diventa semplicemente una condizione di qualità della vita dell’Occidente, a scapito del terzo mondo. Questo significa non comprendere ciò che sta succedendo, perché la risposta del terzo mondo potrebbe essere catastrofica in termini ambientali e di risorse.
Ora io credo che, tutto sommato, vi è una verifica storica di che cosa sia il capitalismo: il capitalismo non può riprodursi all’infinito così com’è, perché porta alla catastrofe ed ha distrutto di più di ciò che ha prodotto.
Questo lo dice perfino un ministro socialista, quindi ci si può credere.
Se siamo di fronte ad un processo di questa levatura, la ricostruzione del potere sindacale in fabbrica significa forse riprendere daccapo ciò che avevamo fatto? Ricominciare semplicemente a riprodurre gli stessi fenomeni rivendicativi che pure ci hanno portato ad una storia così alta negli anni Settanta? Oppure è necessario ripensare tutto questo modello? Ma ripensare questo modello significa fare cose che mai noi abbiamo fatto, significa confrontarsi da un lato con le scelte strategiche dell’impresa, cioè su che cosa produrre e dove produrre, e dall’altro lato, però, significa anche intervenire sulle modalità di produzione nell’impresa e, su questa base, dare forza alla qualità del lavoro, all’autodeterminazione dei lavoratori, al loro livello di coscienza, come condizione per poter intervenire sulle decisioni strategiche dell’impresa. Perché un lavoratore frustrato, distrutto nel suo lavoro, che fa un lavoro ripetitivo, un lavoratore che è considerato pezzo di una macchina, rischia di diventare pezzo di una macchina se non riapre quella fase di coscienza critica della sua condizione e, quindi, di potere che gli permette di intervenire sulle strategie di impresa a partire dalle condizioni di lavoro. Senza questo anello non è possibile fare nulla: questa è la congiunzione necessaria per poter determinare una qualità di coscienza e, permettetemi, di esigenze che in qualche modo intervengano nel mercato e indirizzino la stessa produzione.
La cosa fondamentale che ha detto Marx è che viene prima la produzione del consumo. Adesso si dice che viene prima il consumo della produzione, ma questo va benissimo per gli spot televisivi. Rimane il fatto che, in definitiva, ciò che si produce diventa l’elemento essenziale. Se non si interviene su questo punto non si riesce ad intervenire su nessuna delle scelte strategiche che vengono fatte e allora le multinazionali diventano come dei fantasmi onnipotenti, che coinvolgono il mondo e ne trasformano le finalità, senza che gli stati abbiano alcuna possibilità di intervenire.
Io rimango della opinione che il sindacato, non solo italiano ma europeo, possa essere un soggetto fondamentale di questo processo di trasformazione, lo dico esplicitamente, a sinistra. Assumendo, quindi, il potere del capitale, la sua organizzazione, come antagonistici agli interessi e alle finalità che i lavoratori costruiscono, maturano e possono determinare all’interno dell’impresa.
Senza una correzione politica dell’attuale direzione dello sviluppo capitalistico, noi andiamo inevitabilmente verso la catastrofe. L’alienazione non è solo estraneazione nel processo produttivo, ma diventa coscienza della propria inutilità e del proprio portarsi verso la catastrofe, oltre che essere impediti a qualsiasi possibilità di solidarietà, non solo fra gli emarginati dell’Occidente, ma con i diseredati del terzo mondo, che non appaiono nemmeno sullo sfondo di un ragionamento di questo genere. lo penso che il sindacato deve rinnovarsi radicalmente.
Un Segretario generale di un sindacato importante in Italia ha detto che deve rifondarsi. Appunto deve rifondarsi. Rifondarsi, però, perché se la parola rifondazione deve significare semplicemente quello che faceva prima, con minor fracasso, io non trovo grandi risultati. Non mi riferisco a nessuno in particolare, quindi lo dico in termini puramente generali, come avrete capito.
Ora, proprio per questo, la discussione è molto importante ed io sono colpito, probabilmente in modo ingeneroso, da quelle organizzazioni sindacali che problemi non ne hanno nemmeno. Direi che in certe situazioni non c’è nemmeno più l’oligarchia, possiamo parlare di presidenzialismo. Ma se ci sono Organizzazioni sindacali che sono tranquille, che non hanno questi problemi, che non li sentono, che pensano che queste questioni non siano importanti, io penso che probabilmente non si avvedono di ciò che sta succedendo, o, altre speculano semplicemente su ciò che sta succedendo. Io sono orgoglioso di fare parte di questa Organizzazione sindacale che discute con accanimento problemi di questo genere; sono orgoglioso di sapere che questa Organizzazione è anche disposta a rompersi pur di trovare una via di risposta a questi problemi. Sono orgoglioso di una Organizzazione sindacale che non ha bisogno di leader carismatici, capace di ritrovare il suo senso di collegialità e di rapporto collettivo con i lavoratori. È per questo che questo libro mi interessa; è per questo che questa battaglia mi interessa.
Francesco Garibaldo
Credo, a questo punto di essere debitore di alcune risposte.
Voglio comunque ringraziare i compagni per il fatto che attraverso una serie di osservazioni, come quelle che faceva Ingrao, mettono in luce punti del mio ragionamento che, se ha una qualche utilità, sta nel suo essere una riflessione del tutto incompiuta.
Mi riferisco a strategia e pianificazione ed a come si codetermina. Se ho ben compreso l’osservazione di Ingrao, che condivido pienamente, c’è nel mio ragionamento una artificiosità nella distinzione tra strategia delle imprese e pianificazione strategica dell’impresa. Il punto critico consiste non tanto nel valutare dove si situa il limite, ma nel valutare se c’è o no un nesso organico tra i due aspetti: quello della pianificazione e quello della scelta strategica.
Condivido l’osservazione critica di Ingrao; la distinzione da me enfatizzata, se ha una utilità, consiste nell’essere introduttiva ad un tema ben presente nella discussione politica interna alla CGIL e anche questa sera: è possibile ed in che misura per il sindacato essere un soggetto politico?
È mia opinione che se non vogliamo, come sindacato, ripercorrere strade già battute, di pura declamazione della nostra iniziativa, ma vogliamo praticare, come dicevano Terzi e Claudio, un movimento reale, dobbiamo paradossalmente riscoprire la nostra parzialità. A fronte di una riorganizzazione dei poteri della società non essere declamatori vuol dire modificare quei poteri e produrre dei nuovi equilibri; ciò è possibile solo se il sindacato sa di essere una parzialità, cioè non onnicomprensivo, autosufficiente rispetto all’orizzonte che ha di fronte. La distinzione da me introdotta quindi può avere una utilità in questa direzione; non si tratta di rompere il nesso tra pianificazione e strategia, che Ingrao sottolineava con grande forza, cosa impossibile se non a prezzo di una grande cecità nella valutazione di quello che accade, ma di distinguere i due livelli diversi nella azione del sindacato.
Il primo che oggi deve essere primariamente recuperato è quello della produzione e di come si svolge il lavoro, quello che io chiamo il livello della pianificazione strategica dell’impresa. A questo livello ci sono sostanzialmente due forze che si confrontano: da una parte i lavoratori e la loro possibilità di organizzarsi, dall’altra parte il management e la proprietà dell’impresa. Quindi, a livello dell’organizzazione dell’impresa, a livello della pianificazione strategica il ruolo che il sindacato può reclamare è un ruolo che è, se vogliamo usare questa espressione, la metà del tutto, nel senso che è un ruolo di pari confronto con l’interlocutore, l’avversario o l’antagonista che ha di fronte. L’altro riguarda la strategia dell’impresa.
In una situazione di mondializzazione e finanziarizzazione dell’economia si determinano una serie di intrecci sulle scelte fondamentali che l’impresa sta facendo; a questo livello il ruolo del sindacato rimane un ruolo importante, fondamentale e quindi il sindacato non può ritrarsi da questo livello. Ciò che è importante è che il sindacato sia consapevole del fatto che in quel momento non è più uno dei due interlocutori, ma uno dei molti interlocutori. A quel livello il sindacato accanto alla sua scelta ha una pluralità di orientamenti e poteri; anzi uno dei problemi specifici che il sindacato si deve porre è come questa sua parzialità si raccorda con questa pluralità di poteri. Così posto il problema è evidente il nesso con quanto diceva Terzi riferendosi alla riorganizzazione dei poteri ed ai problemi di democratizzazione.
Vi è poi un rapporto più intimo tra questi due livelli; rapporto che Ingrao introduceva. Mi riferisco alla distanza tra l’esigenza di una dimensione progettuale del sindacato e la concreta condizione di esperienza del lavoratore.
A tal punto questo nesso è problematico che in questi anni abbiamo verificato il fatto che non è vero che si determinano delle aggregazioni tra i lavoratori in modo spontaneo.
Anche questo è un modo di rinviare al problema tra i fini più generali dell’azione del sindacato e la sua capacità di aggregazione. Io credo che sia assolutamente giusta l’indicazione che veniva dalla riflessione che faceva ad alta voce Ingrao, cioè quella delle aggregazioni parziali, del radicamento. È la stessa riflessione che Claudio con grande efficacia faceva poco fa; il sindacato se vuole essere un soggetto di trasformazione, non puramente a parole, cioè vuole radicarsi in un processo materiale e quindi produrre delle trasformazioni effettive, non può non affrontare questo come un problema cruciale. Il sindacato non può essere un esercito con dei capitani, ma un movimento di persone che hanno la piena consapevolezza e il pieno governo di dove vanno; tutto ciò è fuori dalla nostra esperienza storica, ed è proprio per questa ragioni che questo problema diventa il problema fondamentale.
Un sindacato siffatto deve indicare degli orizzonti, dei fini, deve indicare una prima trama di un progetto di trasformazione. Dentro questa trama ci deve essere il radicamento nella situazione concreta, nella quale i lavoratori e le lavoratrici vivono la loro condizione di lavoro.
Il nesso tra progetto ed esperienza è possibile solo se il sindacato muove a partire dal problema del lavoro, dalla centralità del lavoro, perché questo permette di connettere i due livelli e, forse, di sperimentare un movimento con una forte connotazione democratica e partecipativa. Un movimento cioè che consente un continuo scambio tra le esigenze di progetto, di indicazione di un orizzonte e le condizioni concrete di esperienza che la gente fa. Solo così il progetto si nutre delle esperienze concrete di trasformazione che i lavoratori e le lavoratrici compiono nel tentativo di realizzare la prima trama che è stata indicata e progressivamente lo rendono un fatto concreto.
È anche dentro questo orizzonte che io credo – ed è l’ultima osservazione che faceva Ingrao – che la sottolineatura che da parte di Ingrao viene fatta del ruolo della soggettività individuale come un fatto che non è, alla fine, del tutto misurabile, racchiudibile, normabile acquista il suo senso di fondo, ed è anche, io credo, uno dei punti di radicamento possibile di una riflessione sul movimento sindacale. In fondo, noi oggi di fronte a che cosa siamo?
Siamo di fronte ad una crisi drammatica del movimento sindacale in tutto il mondo. Questa rivoluzione industriale, mettendo in discussione le radici e l’esperienza originaria di una fase del movimento sindacale, provoca uno sconquasso, cioè costringe a ripensare come ridare radici al movimento sindacale.
È quindi necessaria una riflessione da parte del movimento sindacale, tesa a recuperare come fondamento della propria iniziativa, le esperienze e la condizione concreta di vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Solo in questo caso il movimento sindacale si predispone ad imparare attraverso l’esperienza, ammettendo di non avere un progetto compiuto, elaborato che deve trasmettere come comando. Il movimento sindacale si deve quindi porre nella condizione di chi in un processo partecipato e democratico, percorre un’esperienza che è di progettazione e di apprendimento.
Solo così ci si può rapportare a questa crisi in modo nuovo e diverso, altrimenti vi è la risposta alla domanda di Claudio: come è possibile che ci siano delle organizzazioni sindacali immuni dalla crisi? Si può essere immuni dalla crisi, quando la crisi è così profonda, negando che la crisi esista.
Nel momento in cui tu neghi che la crisi esista, e con un estremo sforzo di volontarismo, di attivismo, di indicazione giorno per giorno di un obiettivo che poi si consuma il giorno dopo, ne inventi di continuo degli altri, ad un certo punto inevitabilmente giungi ad una tale distanza dalla possibilità di comprendere quello che accade, che sei in una situazione catastrofica.
Claudio Sabattini – 2o intervento
Siccome ho appena finito di parlare, farò delle brevissime annotazioni. Vorrei fare queste osservazioni partendo da una valutazione positiva.
Io non sono per nulla pessimista rispetto al processo che stiamo attraversando; credo, invece, che noi siamo già in una fase in cui problemi e situazioni, che abbiamo considerato e che per certi versi sono difficili da interpretare, li abbiamo sotto gli occhi e quindi vi sono possibilità maggiori di poter intervenire in questi processi.
La polemica fondamentale, che poi è l’elemento discriminante di tutto il nostro ragionamento, è questa: io difendo fino in fondo, come valore inestimabile della propria collocazione di classe, il fatto che il sindacato sia in grado di avere delle forme di rappresentanza e delle capacità di rappresentare tutto lo spettro del lavoro dipendente.
Penso, cioè che la visione mitica di classe, basata sulla visione dell’operaio senza contraddizioni, deve essere davvero e rapidamente superata, lasciando il posto ad una pluralità di soggetti che si confrontano liberamente e definiscono collettivamente il loro interesse.
Non posso che essere d’accordo sul fatto, come diceva Francesco, che il sindacato deve riconquistare la sua parzialità; deve cioè essere consapevole di rappresentare interessi definiti, di una parte della società, ma deve aspirare assieme ad altre forze a definire un disegno, – e in questo e in quanto tale il sindacato può essere soggetto politico – un sistema di alleanze capace di affrontare le grandi questioni generali che sono oggi sul tappeto e che riguardano l’insieme delle comunità umane.
Lo sforzo che io penso si debba fare è quello di superare, quindi, radicalmente una posizione che pensa che oggi la pura contestazione sia risolutiva dei problemi.
Da questo punto di vista, non c’è dubbio che di fronte ad una innovazione di grandissimo rilievo all’interno della impresa, come nella società, bisogna essere in grado di individuare e di costruire delle risposte, la contestazione deve essere in funzione della proposizione. E, a fronte di risposte, bisogna essere in grado di dare altre risposte. E, quindi, il gioco è quello di una conquista di egemonia rispetto all’insieme della società, cioè di saper individuare quali sono le proposte positive che permettono di affrontare e risolvere i problemi diversamente da altre risposte e da altre indicazioni. Da un certo punto di vista il sindacato, nel suo interrogarsi, non può essere continuamente in grado di prospettare alternative rispetto alla logica che le classi dominanti determinano nella soluzione dei problemi per sé e per la società.
Questo è un salto culturale molto importante. Sapere cioè che la protesta pure necessaria, la contestazione assolutamente necessaria, devono avere come sbocco la proposta positiva e, quindi, una capacità di egemonia e di costruzioni di alleanze, sapere questo significa avere un intreccio totalmente diverso tra sindacato ed imprese e, quindi, cimentarsi sulle questioni che si presentano sapendo continuamente elaborare le proposte di soluzione.
Come diceva Francesco; bisogna avere un progetto, non delle proposte e delle soluzioni a breve termine, quello che in modo ripetitivo si dice avere delle proposte, per così dire, pragmatiche. In realtà le proposte possono essere a breve termine alla condizione che siano all’interno di un progetto strategico, che dia significato anche alla immediatezza delle risposte che si danno.
Ora, proprio perché io penso che il confronto sia sempre un confronto tra i poteri nella società capitalista, questo confronto determina gli spostamenti dei rapporti di forza, perché è in grado di mobilitare i soggetti in funzione di determinati progetti e quindi capace di intervenire sui poteri, credo che per questa ragione non c’è dubbio che noi dobbiamo essere molto umili rispetto alla prospettiva. Infatti, una soluzione di questo genere non si costruisce in qualche giorno. Siamo di fronte ad un grande processo di innovazione che riguarda una trasformazione radicale di tutto il sindacato, delle sue finalità e delle sue risposte.
Ci si domanda: all’interno della CGIL ci sono forze diverse che si confrontano, la CGIL poi deve confrontarsi con CISL e UIL. lo credo che nessuno di noi pensi seriamente che una soluzione settaria risolva questi problemi. Nessuno di noi.
Tutti noi pensiamo che solamente con una CGIL unita ed unitaria, con un rapporto di unità con CISL e UIL, sia possibile affrontare questi problemi. Nessuno di noi pensa che la soluzione isolata e settaria, che considera la propria verità come una fede, possa davvero affrontare le grandi questioni che ci stanno di fronte. Non solo perché non abbiamo forza autarchica, ma perché il confronto con gli altri è necessario per la costruzione del progetto.
Bisogna riaprire questa discussione, non liquidando la prospettiva unitaria, anzi rafforzandola, ma sapendo che questa prospettiva unitaria va costruita giorno per giorno senza accontentarsi semplicemente della unità di risposta sui singoli problemi immediati. L’unità va ricostruita strategicamente, sapendo portare la discussione proprio al livello della progettazione, cioè a livello del senso che il sindacato vuol dare al suo intervento nella società, dei fini che il sindacato vuol perseguire, delle tappe intermedie che il sindacato intende proporre. Se così non fosse, se non fossimo capaci di rifondare all’interno della CGIL un nuovo rapporto politico e programmatico con le altre componenti, se non fossimo in grado di progettare un nuovo rapporto politico e programmatico con le altre Confederazioni sindacali, inevitabilmente la frantumazione sociale sommergerebbe anche lo stesso sindacato. Inevitabilmente, le Organizzazioni si difenderebbero, difendendo solamente gli iscritti, difendendo solamente gli occupati, cioè diventando anche esse oligarchie rispetto alla grande frantumazione sociale.
Io credo che il pericolo peggiore sia proprio questo: non quello voglio essere preciso, di dimenticare gli altri, i disoccupati, i diseredati, ma quello di non capire che non si può costruire nessun disegno strategico senza che anche essi siano protagonisti di questo processo. Perché un sindacato che rappresenta solamente gli occupati, o peggio un sindacato che rappresenta solamente gli iscritti, inevitabilmente è portato a diventare un lobby, inevitabilmente è portato a frantumare anche esso la società già frantumata dalla esplosione della iniziativa capitalistica.
È questo che cerchiamo di far capire. La possibilità di determinare questo nuovo processo unitario all’interno della CGIL, la possibilità di determinare questo processo unitario con le altre Organizzazioni, deriva proprio dall’indicare quali siano le tematiche e i terreni su cui discutere, uscendo da qualsiasi prospettiva corporativa e ricostruendo un disegno per la società, dal punto di vista della forza lavoro, dei lavoratori, cioè dal punto di vista della parzialità del lavoro dipendente.
Del resto, lo sappiamo bene, nel 1972 l’unità organica non crollò perché un singolo dirigente sindacale non era d’accordo. Si è dato addirittura la colpa ad un repubblicano, a causa del quale non si sarebbe fatta l’unità sindacale.
La verità è che l’unità sindacale non si è fatta perché il processo di trasformazione e di movimento, che non aveva nessun precedente nel passato, nessun feed-back, quindi era completamente nuovo, non riuscì a trasformare le strutture del sindacato e quindi le differenze strategiche alla fine rimasero inalterate, in un processo di centralizzazione in cui le forze sindacali stavano assieme solo perché gestivano dall’alto i processi sociali.
Io credo che tutto questo, quindi, debba essere modificato; la ricostruzione di una strategia, assieme ai lavoratori, con i lavoratori, è vitale; è l’unica condizione per avere l’unità. lo mi permetto di dire che molto spesso, e del resto ci sono i fatti che lo dimostrano, le unità di azione nelle esperienze che stiamo facendo sono scarse e gracili. Io non sono contro l’unità d’azione, sono contro questo livello di unità d’azione, questa sua scarsa qualità, questo suo incepparsi continuamente, perché la riflessione strategica non è stata portata ad un livello tale da poter permettere un processo unitario. Se rimaniamo nella frantumazione dei problemi immediati, non sarà possibile mai costruire una unità vera, e nemmeno l’unità d’azione, ed è in questa direzione che noi spingiamo, pensando che in questo modo si possa costruire davvero una prospettiva.
Infine, io credo sinceramente che, siccome non abbiamo davanti paradisi, non abbiamo davanti ideologie risolutrici, una cosa pure dovremo farla. I comportamenti sono molto importanti, quelli che si chiamano i valori, cioè i comportamenti collettivi, sono molto importanti. Ma davvero noi pensiamo di conquistare le nuove generazioni, prospettando a questi giovani, a queste donne e a questi uomini, semplicemente un migliore reddito, prospettando semplicemente una progressione della loro attuale condizione? Sapendo che la loro attuale condizione è a tal punto frustrata sul piano del lavoro, sul piano della collocazione sociale, e a tal punto divisa e frantumata rispetto a fini possibili e a tal punto rinunciataria rispetto alla definizione dei fini della società, che rischia davvero una introiezione esplosiva. Si rischia quindi, poi, di determinare depressioni, frustrazioni generali, di determinare, cioè, quella che si chiama apatia e, quindi, una situazione di impotenza politica e sociale proprio nel momento in cui i potentati politici e sociali determinano le loro strategie.
Un sistema di valori per un sindacato è necessario: non esiste nessun sindacato senza un sistema di valori che abbia al centro la libertà, la solidarietà e la democrazia. Credo che anche questo faccia parte di quel processo che noi chiamiamo la ridefinizione di un nuovo sindacato di classe.
Pietro Ingrao – 2o intervento
Testardamente consentitemi di tornare sul nodo dell’alienazione; perché al momento in cui – da quella angolazione – andiamo ad indagare qual‘è oggi la condizione del lavoratore nel luogo di produzione, affermiamo meglio che cosa sono le “dinastie” dominanti nel nostro Paese, e anche la portata dell’attacco che si è sviluppato nell’ultimo decennio.
Lasciate che io vada col ricordo ad un’epoca lontana ed assai diversa dalla nostra. Ricordate quel film “Tempi moderni”, di Chaplin? È un film in un certo modo impressionante: dei primi anni Trenta; e già c’era dentro una rappresentazione bruciante del Taylorismo: proprio in quell’immagine dell’omino Charlot (l’espressione umana ridotta alla sua scarna immediatezza) che veniva costretto o “adattato” alla catena di montaggio; ed anche oltre la catena di montaggio. (Ricordate al famosa scena della macchina automatica che gli dà da mangiare e impazzisce?) Già lì c’era chiara l’indicazione della proiezione di un dominio che non si fermava nemmeno più al momento strettamente lavorativo, ma tendeva a invadere altri momenti, altri aspetti della vita del lavoratore.
C’è anche un‘altra osservazione molto bella: ricordate la scena che segue? L’omino impazzito esce dalla fabbrica e ha in mano la chiave che serve per stringere i bulloni. Continua a ripetere meccanicamente il gesto dello stringere; c’è una bella ragazza che ha i bottoni sull’anca e lui corre dietro la bella ragazza per “stringere”: con una curiosa combinazione fra l’attrazione sessuale, amorosa, e la distorsione prodotta in lui dall’adattamento alla macchina. Dunque: una manipolazione dell’uomo che dal momento del lavoro e dal luogo del lavoro si proietta “fuori”: nell’ambiente vitale. E anche in ciò, Chaplin coglieva, da allora, un elemento originale.
Tante cose sono cambiate enormemente rispetto alla vicenda produttiva, vissuta e descritta da Charlot. Allora erano gli anni Trenta. Oggi siamo alle soglie del Duemila. Ma la questione di un processo di dominio, che dal momento produttivo tende ad estendersi nella sfera della vita, è tutt’altro che cancellata. Perché? Perché c’è una forte coscienza, anche in questi signori dell’Italia d’oggi, in queste nuove “dinastie”, di un “problema” che sempre più va oltre lo stretto momento lavorativo; e che perciò bisogna in qualche modo conquistare o regolamentare o modulare anche la psiche; perché altrimenti resta, può restare un elemento irriducibile che fa ostacolo alla “razionalità” della grande impresa del nostro tempo. Del resto tutta una serie di teorie – Garibaldo le ricorda nel suo libro – (che partono addirittura da Ford e dal fordismo) danno un’interpretazione del management dell’impresa, come di “soggetto” che è anche forgiatore di coscienze (anzi è un “artista”, diceva Ford).
Noi dobbiamo rendere chiaro come ciò investa punti costitutivi anche della nostra prospettiva. Io sento un grande uso della parola “democrazia”. Anche nei nostri documenti. E ciò avviene – dobbiamo saperlo – in un momento che è di “crisi della democrazia”: anche della democrazia rappresentativa nel senso più tradizionale.
Persino uno che non può essere accusato di essere ostile alla democrazia, nelle forme classiche sperimentate in Occidente, come Norberto Bobbio, la prima cosa che ti dice è: certo, questa democrazia ci ha dato molte delusioni, ma che volete? Forse non c’è di meglio.
E poi altri ti spiegano che il massimo che puoi pensare è di scegliere quelli che decideranno, senza sapere bene quello che decideranno, quindi con una crisi anche nel concetto di “rappresentanza”. E difatti se vogliamo che il concetto di rappresentanza abbia un contenuto reale, io, elettore, devo poter esprimere un qualche cosa; e tu che mi rappresenti devi in qualche modo rapportarti a quella mia espressione di volontà: altrimenti restiamo separati; e il rapporto di rappresentanza, fosse pure il più esile e il più mediato, sfuma. Ma quante sono oggi le decisioni dei “rappresentanti” che non solo sono prese a sé, a prescindere dal “mandato” ricevuto dai rappresentanti, ma che addirittura restano oscure, e a volte non si sa nemmeno bene chi le ha prese e quando?
Guardiamo anche alle recenti elezioni americane. L’ho letto sui giornali borghesi che era difficile distinguere bene tra l’uno e l’altro candidato; quindi che cosa rappresentava l’uno e che cosa rappresentava l’altro.
E guardiamo in casa nostra: la storia del voto segreto che cos’è? Non si è trattato solo di stabilire un po’ più di voto segreto o di voto palese. La vera questione in palio era un’altra: se e in che modo era da riconoscere un qualche elemento di intervento (sai pure relativo) del Parlamento in materia legislativa. Anche questo potere residuale dava fastidio; e fastidio, perché noi stiamo camminando verso un altro tipo di regime politico; e ci sono oligarchie che ormai hanno bisogno di allargare i loro spazi d’intervento e di controllo: dati i contenuti e i tempi che stanno assumendo certe decisioni.
Io penso che in una situazione di questo genere, diventa decisivo il modo con cui si difende una autonomia, una capacità di autonomia, nel luogo stesso di produzione: non solo per garantire determinati diritti dentro la fabbrica, ma perché ci troviamo di fronte a un processo nella società e nello Stato, che tende a imporre nuove forme di “sovranità”. Anche certi uomini politici, non è che sono “cattivi” oppure hanno in testa non so quale volontà di strapotere. In quanto accettano di limitarsi ad una gestione dell’esistente, devono ormai trame le conseguenze sul terreno dello Stato e dei meccanismi istituzionali.
Ma se è così il vero problema è quello dei poteri: dei diritti sì, ma dei diritti-poteri. È importante dichiarare, e anche formulare, determinati nuovi diritti di cittadinanza. È una conquista. È importante che le cose affermate diventino leggi. Ma è decisivo che alle leggi corrispondano poteri reali, forze reali che fanno vivere i diritti – poteri.
E d’altra parte dobbiamo essere chiari. Se acquistano determinati poteri quei tali lavoratori della fabbrica di cui ho discusso, ci sono altri “soggetti”, nel processo produttivo e nella società, che perdono una parte del loro attuale potere. E se acquistate più potere voi che state in questa sala, qualcuno ci rimette in Italia, nel nostro Paese. Quindi tutto il discorso sulla libertà e sulla democrazia non diventa reale, se non si misura con la grande questione di che cosa sono diventati e come sono organizzati i poteri del nostro Paese.
È qui, allora, dove il discorso della solitudine che si crea dentro una zona decisiva, come il luogo di lavoro, diventa di grande importanza: proprio per una lotta più generale dov’è in discussione chi comanda. E del resto, è proprio vero, è esatto, che questa solitudine e perdita di senso si produce oggi solo nella fabbrica? Oppure quello è un luogo emblematico di processi più generali? La domanda è da porre.
Leggo oggi che ci sono tanti che lanciano l’allarme sulla questione della droga. Ma il flagello della droga da che cosa scaturisce? C’è l’organizzazione criminale dello spaccio, mai veramente affrontata. Ma perché la vittima dello spaccio cede? Noi sappiamo che sono numerosi, tanti i casi in cui la tossicodipendenza scatta, perché si determina una condizione di solitudine, di perdita di senso: nel giovane, nella ragazza o nell’uomo o nella donna, che cercano in quella “cosa”, che è la droga, una ragione di vita, una risposta alla loro condizione ormai separata, che non riesce più a comunicare con gli altri, con il mondo.
Sono rimasto sbalordito, allora, quando ho visto avanzare la proposta di ricorrere ancora una volta a forme di “punizione” addirittura a forme di “carcerazione” verso il tossicodipendente; e come se non bastasse il carcere, vi è stato che, “a fin di bene”, ha proposto l’istituzione dentro il carcere di un reparto speciale per i drogati; come per dire a chi patisce già una forma terribile di isolamento: guarda, tu non sei uguale nemmeno agli altri carcerati! Senza sospettare minimamente che questo vorrebbe dire spingerlo ancor di più verso una resecazione, verso una mortale chiusura in se stesso. Da dove nasce ciò se non da una incomprensione dei motivi profondi dei nuovi processi di estraneazione, dei drammi psichici che stanno producendosi in questa società? Ecco perché dobbiamo cercare nuove categorie interpretative, nuovi strumenti, per leggere in una società, che pure ha raggiunto, – perché non dirlo? – quei livelli di benessere e di consumo che conosciamo.
La discussione sul lavoro, sulla sua centralità, sulla sua significanza, mi interessa profondamente, anche e proprio per questo discorso più largo. Perciò vorrei dire una parola ancora sul nesso tra questa ed altre questioni: sui temi della contraddizione ambientale, e della contraddizione di sesso.
Io so bene che questa contraddizioni si manifestano, nel loro insieme, fuori dal luogo di produzione (anche se vivono anche dentro il luogo di produzione). Sono contraddizioni che hanno assunto diverse forme; sono passate attraverso diversi sistemi; e oggi trovano un alimento nuovo ed una formulazione nuova in rapporto – l’ha già detto benissimo Sabattini – all’attuale modello di sviluppo capitalistico.
Non vedo soluzioni e risposte a queste nuove contraddizioni, se appunto (qui torna però anche il problema del nesso tra “pianificazione strategica” e strategia) non si modificano poteri e strutture della moderna produzione capitalistica.
Parliamo qui a Bologna. Io ho partecipato ad una riunione del Comitato regionale del PCI, che affrontava la drammatica questione del Po. Ma la questione del Po ha due fonti ben precise: una riguarda il modo con cui è stata concepita l’industrializzazione nel nostro Paese e come essa poi si è “riversata”, attraverso il Po, nell’Adriatico; l’altra nel tipo di agricoltura certo innovativa, ma fondata su un tipo di tecnologie e di sapere, che sta incidendo fortemente sull’ambiente.
Io ho fatto un esempio che riguarda le vostre terre: Ma voi sapete che stiamo parlando di un tipo di sviluppo, rispetto al quale sembra assai dubbio che questo pianeta possa reggere nel millennio che si apre. E ancora, i dati ci dicono che entro dieci anni sulle coste del Mediterraneo, proprio a ridosso della Sicilia, ci saranno tra i 20 e i 30 milioni di lavoratori in più.
Questa “forza lavoro” o trova una risposta, nelle sue terre, (ma sappiamo già che non possiamo esportare questo nostro modello nelle loro terre, appunto perché il pianeta intero non è in grado di reggere questo sviluppo) oppure “tracimerà”, dico io, come già sta tracimando. E non è un caso che sta esplodendo in Europa il problema del razzismo: perché o tu trovi una soluzione progressista o vedremo venire avanti risposte reazionarie.
L’idea del recinto è già stata inventata con l’apartheid nel Sud Africa. “Recintiamoci” e proteggiamoci, ma dove ci porta un’ipotesi di questo genere? E allora se noi vogliamo affrontare la questione ambientale dobbiamo investire determinati poteri; e quei soggetti, che il libro di Garibaldo presenta come soggetti dominanti, devono essere colpiti nei loro poteri.
Potrei dire la stessa cosa per ciò che riguarda la questione femminile. Certo, esiste da millenni la subordinazione del mondo femminile.
E giustamente oggi le compagne ci dicono: per noi il problema non è diventare uguali al modello maschile; noi vogliamo essere donne, riconosciute nella nostra specificità di donne. Cioè: uguaglianza nella differenza. Ma se vogliamo affrontare questo tema della “differenza” femminile, allora dovremo misurarci con poteri, con modelli produttivi, con modi di organizzare il tempo di lavoro e il tempo di vita, che alimentano fortemente, e in modo nuovo e specifico, oggi, in questo mondo moderno, la soggezione femminile.
Dobbiamo farlo perché altrimenti queste nuove contraddizioni produrranno crisi nel nostro campo, o a noi vicino. Lo abbiamo visto bene nei casi della Farmoplant, oppure della Val Bormida. Ho discusso a Massa con operai della Farmoplant che mi parlavano in un modo sofferto di “quelli” che erano venuti fuori dalla fabbrica a protestare (secondo me per una ragione giusta), ma che a loro sembravano offendere la loro coscienza di produttori. Il punto enorme è che quando gli operai della Farmoplant hanno fatto un grande passo avanti ed hanno chiesto la chiusura della fabbrica (cioè – pensate – del loro posto di lavoro) essi si sono trovati di fronte a un governo, che ancora adesso non sa garantire nemmeno i soldi per assicurare a loro la cassa integrazione, che era stata promessa.
Lì c’è stata una spaccatura che era visibile. Ma c’è stata la spaccatura, anche perché il sindacato, e io dico anche il nostro Partito, sono arrivati tardi sulla questione dell’ambiente. Diciamolo chiaramente: non hanno saputo affrontare in tempo la contraddizione che stava dentro la loro antica cultura “industrialista” (e voi comprendete che cosa intendo dire con questo termine).
Ma tutto ciò ci dice anche che se il movimento dei lavoratori sa misurarsi con le nuove contraddizioni, che stanno toccando un livello così alto proprio in questo nostro tempo, allora lo schieramento delle forze per combattere l’attuale modello di sviluppo – quello stesso che alimenta nelle moderne “fabbriche” i fenomeni di estraneazione dei lavoratori e delle lavoratrici – può allargarsi e trovare nuovo slancio. Capire bene quello che succede, dunque serve non solo per la denuncia, ma per andare avanti.
Riccardo Terzi – 2o intervento
Credo che sia stata una serata molto utile, e che la discussione che abbiamo fatto questa sera sia stata di grande interesse politico.
Io ho solo il rammarico che, per ragioni di tempo, non abbiamo potuto verificare attraverso il dibattito, attraverso un confronto più diretto con i compagni presenti, se le cose su cui abbiamo ragionato hanno un senso, se c’è una sintonia, se c’è una corrispondenza tra questi ragionamenti e quelli che sono i problemi e le esigenze che ciascuno di noi sente.
Io credo che abbiamo toccato problemi veri e che sia non senza significato che, pur venendo ciascuno di noi da esperienze diverse, da storie diverse, ci siamo trovati a ragionare sulle stesse questioni, a vedere in questi problemi ed in questo tipo di analisi critica della società capitalistica di oggi le cose essenziali su cui ragionare e su cui intervenire per uscire dalle difficoltà, per superare la crisi della sinistra.
Io torno un momento sulle questioni del sindacato, che sono un pezzo importante di questo ragionamento.
È in atto da parte di varie forze, da parte delle forze politiche dominanti, dei centri di potere decisivi, un attacco al potere del sindacato, alla sua forza contrattuale, al suo ruolo nella impresa e nella società.
Io sono convinto che questo attacco al sindacato non è un fatto a sé, ma sta dentro un disegno politico generale. Se si vuole realizzare un certo tipo di dominio politico in Italia bisogna normalizzare il sindacato, bisogna eliminare una anomalia che storicamente ha caratterizzato la storia del nostro paese.
Bisogna ottenere che il movimento sindacale stia dentro certe compatibilità, certe regole, sia una specie di lobby, una delle tante corporazioni, che può avere una forza di pressione sui partiti politici, sul governo, può ottenere anche qualche risultato, ma non è portatrice di una esigenza più complessiva di trasformazione sociale.
Questo attacco oggi è molto forte, è un attacco che noi sentiamo direttamente nella nostra esperienza sindacale, nella contrattazione, nei luoghi di lavoro, ed è un attacco politico e culturale che è indirizzato particolarmente contro la CGIL.
Io credo che noi dobbiamo vedere le cose così, cioè sapere che si sta giocando una partita politica di prima grandezza. La crisi del sindacato, il modo in cui ora viene affrontata, la direzione che prenderà il movimento sindacale nei prossimi mesi, da tutto questo dipende l’equilibrio politico complessivo.
Per questo è importante che noi cerchiamo di ritrovare le nostre radici e di ragionare su come si presenta oggi il problema del conflitto sociale, del conflitto nel lavoro, nell’impresa, dei processi di estraneazione nel lavoro, di cui ha parlato Ingrao.
Spesso siamo accusati, quando ragioniamo sul lavoro, quando sentiamo un’analisi dei conflitti di classe, di essere fermi a vecchi modelli, a vecchi miti, ad ideologie del passato. Noi vogliamo analizzare il lavoro così com’è oggi, nelle trasformazioni profonde che si sono determinate sia dal punto di vista oggettivo, delle condizioni materiali, della organizzazione produttiva, sia dal punto di vista della coscienza, della soggettività. Non vogliamo riferirci ad una classe operaia mitica, ma ad una configurazione sociale concreta, mobile, che ha determinate e variegate caratteristiche, e il limite della sinistra è di avere troppo trascurato questa analisi corrente.
L’attenzione ai cambiamenti, l’attenzione ad una analisi di classe aggiornata, è stata molto episodica, molto marginale nella discussione politica e culturale che ha caratterizzato la sinistra in questi anni.
Una correzione di marcia in questo senso credo che sia necessaria: ripartire, appunto, dal lavoro, dalla impresa, vedere non soltanto le forme classiche di sfruttamento economico, ma le nuove forme di dominio che nella grande impresa si realizzano. Ma è necessario anche vedere più complessivamente i problemi della organizzazione sociale e della organizzazione politica. Nessuno qui propone un modello tutto chiuso nella fabbrica, che sarebbe un modello perdente. Si tratta allora di ritrovare il collegamento tra luogo di lavoro, organizzazione sociale, e Stato, perché i temi che qui abbiamo sollevato possono avere una risposta soltanto se c’è questa dimensione più ampia.
Ad esempio, il tema della democrazia economica, del controllo sociale, del controllo democratico sulle scelte strategiche dell’impresa: questo richiede un’azione dal basso, cioè una ripresa di protagonismo sociale dei lavoratori, ma richiede, poi, un complesso di interventi politici, un nuovo ruolo dello stato, una politica di programmazione democratica, per cui le questioni dello stato sono un pezzo essenziale, della riflessione strategica.
È importante allora chiarire in che modo, in che senso, in quale misura il sindacato è un soggetto politico. Noi diciamo che non vogliamo essere una corporazione, non vogliamo ridurci a un ruolo subalterno, che ci viene ritagliato dentro gli equilibri del potere. Dobbiamo però anche evitare una impostazione, che è stata propria della sinistra per un lungo periodo di tempo, secondo la quale il movimento operaio si identifica con l’interesse generale, in quanto è l’unica forza in grado di dare una risposta ai problemi generali dello sviluppo.
Nella realtà non è vero che senza la sinistra non c’è sviluppo, senza la sinistra c’è uno sviluppo iniquo, distorto, che ha dei costi sociali altissimi, ma c’è sviluppo, e non stagnazione. Per questa ragione il movimento operaio non è portatore dell’interesse generale, perché esiste un “interesse generale”, ma ci sono diverse possibili risposte, diverse opzioni politiche. L’essere soggetto politico ha dunque un senso se non perdiamo la nostra specificità, il nostro specifico retroterra sociale, se affrontiamo i problemi generali della società e dello sviluppo, secondo una determinata e parziale angolazione.
In questo modo il sindacato è soggetto politico, ma sta dentro una dialettica complessa, e mantiene intatta la sua radicale autonomia in quanto soggetto sociale.
Su tutte queste questioni è aperta una discussione. Anche io credo, come Sabattini, che si possa guardare alla situazione attuale senza avere un pessimismo catastrofico, che il travaglio della CGIL è anche un segno di vitalità. Spaventano piuttosto quelle situazioni in cui sembra che tutto sia tranquillo, e forse dietro questa apparenza di monolitismo un po’ burocratico, una discussione si sta riaprendo anche nelle altre Organizzazioni sindacali.
Il travaglio della CGIL vuol dire che la CGIL si interroga, non sta passiva non subisce acriticamente questi processi, ma cerca di trovare le risposte, in un confronto, e anche in uno scontro politico. Significa che ciascuno di noi si mette in discussione in questa ricerca. lo credo che davvero per tutti noi il pericolo maggiore sia quello della routine burocratica. Questo è il nemico da battere.
È la tendenza ad appiattire tutto, alla routine, all’inerzia burocratica, la falsa sicurezza di chi ritiene che, dato che qualche buon accordo pure riusciamo a farlo, allora vuol dire che non c’è la crisi, vuol dire che le risposte già ci sono e che basta soltanto realizzare una linea giusta che già sta scritta nei documenti, negli atti dei nostri Congressi. È il pericolo, appunto, di una gestione burocratica del sindacato.
Contro questo rischio dobbiamo reagire, ed aprire una discussione, dare senso alla parola d’ordine della rifondazione, riattivando tutte le energie democratiche che ci sono, forti, nel sindacato.
Il rapporto democratico con i lavoratori si è in qualche modo inceppato in tutti questi anni, ed ora va ripristinato, va ricostruito, perché non c‘è nessuna rifondazione senza una mobilitazione dal basso.
Anche la perestroika di Gorbaciov che non poteva che partire dall’alto, rischia di fallire i suoi obiettivi se non riesce a mettere in movimento delle energie democratiche, e per quanto può valere questo paragone, questo è vero anche per noi.
Io credo, poi, che abbiamo bisogno di uscire da una certa situazione di isolamento, su tutta una serie di temi che oggi sono cruciali. C’è bisogno di una battaglia non soltanto sindacale, ma politica e culturale, e buona a costruire un insieme di relazioni, di capacità di comunicazione, del movimento sindacale con la cultura di sinistra e con le competenze.
Sull’ambiente condivido pienamente le cose che diceva ora Ingrao.
Il sindacato non ce la fa da solo, non ce la fa se non entra in comunicazione con gli specialismi, con una cultura esterna che su questi temi può aiutarci a dare delle risposte. Se vogliamo evitare una posizione di sola denuncia, se non vogliamo ridurci ad una posizione minoritaria, e ci proponiamo di riconquistare il terreno perduto, di riconquistare momenti di egemonia del movimento operaio e della sinistra, c’è bisogno di questo sforzo di allargamento della battaglia politica e ideale, di un più ampio sistema di alleanze del movimento operaio con pezzi decisivi della società.
Io così vedo le cose, vedo la necessità di portare avanti con chiarezza e con determinazione la discussione politica, alzando il tiro, chiarendo bene a tutti, ai lavoratori anzitutto ed all’esterno, il senso politico della discussione che stiamo affrontando, dei traguardi strategici per i quali vogliamo lavorare.
Busta: 45
Estremi cronologici: 1988, 10 novembre
Autore: AA. VV.
Descrizione fisica: Opuscolo
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -