LA SFIDA DELLA QUALITÀ

Un nuovo terreno d’azione è aperto al movimento sindacale dalla crisi del modello fordista classico d’impresa

”Dal sociale al politico”, rubrica di Riccardo Terzi

La crisi dell’impresa capitalistica “classica”, di tipo fordista, con la sua struttura gerarchico-autoritaria, con i suoi meccanismi di decisione fortemente centralizzati e burocratizzati, è giunta a un punto tale da costringere anche Cesare Romiti, che più di ogni altro ha incarnato quel modello autoritario, a dichiarare la necessità di una vera e propria “rivoluzione culturale”. Naturalmente le dichiarazioni di Romiti vanno prese con le pinze, perché c’è molto fumo ideologico e molta retorica. E c’è ancora, inconfondibile, il suo piglio militaresco.

Non possiamo però sottovalutare o ignorare la novità. Il programma della “qualità totale” rimette in discussione i vecchi meccanismi, e tenta di rispondere alle concrete e materiali contraddizioni della moderna impresa capitalistica. Ora anche la Fiat giunge a questo appuntamento, e si interroga sul proprio futuro.

Un’azienda “triste”, “frustrata”, “in ritardo”, in cui si viene insinuando una psicologia da azienda perdente, un gruppo dirigente che non ha la capacità di evitare il sopravvento della burocrazia, che non sa delegare e responsabilizzare, che non ha elaborato una politica efficace di valorizzazione delle risorse umane, che ha perso lo slancio e la fiducia dei primi anni 80: è un quadro non solo critico, ma di vero e proprio allarme, e questi nuovi recenti casi, lontani dal trionfalismo degli anni passati, indicano in modo inequivocabile un generale cambiamento di scenario.

È la conferma, clamorosa perché viene dai massimi dirigenti della Fiat, delle analisi che hanno messo l’accento sulle nuove contraddizioni determinate dal processo di innovazione tecnologica. Le nuove tecnologie possono esprimere pienamente le loro potenzialità solo nel quadro di relazioni sociali “aperte” e non burocratizzate, mentre all’opposto il mantenimento di una struttura di potere fondata sulla trasmissione del comando dall’alto verso il basso restringe gli spazi di autonomia e di responsabilità per tutti i lavoratori, anche per quelli di più elevata professionalità, e determina così una forza d’inerzia burocratica che entra in conflitto con le esigenze dell’innovazione.

Ancora una volta l’illusione tecnocratica non funziona, perché essa prescinde dall’analisi dei rapporti sociali. E l’impresa è essenzialmente un fatto sociale. Potremmo quindi dire, con Marx, che entrano in conflitto le forze produttive e i rapporti di produzione: che le esigenze politiche, di potere, di controllo centralizzato, costituiscono ormai un freno, e che per questo è posta all’ordine del giorno la ricerca di un nuovo modello. Romiti pensa di poter ancora affrontare questa contraddizione nel quadro di un modello autoritario, attivando un’identificazione “ideologica” dei lavoratori con gli obiettivi dell’impresa, ed evitando così di introdurre elementi reali di democratizzazione. È il modello giapponese. Ma c’è da dubitare che esso riesca a funzionare in una situazione che ha tutt’altre tradizioni politiche e culturali.

Se il problema è la qualità, la prima condizione è una nuova qualità dell’organizzazione del lavoro, basata sulla socializzazione di tutte le informazioni, sullo sviluppo dei rapporti “orizzontali” tra le diverse funzioni, sull’attivazione di risorse professionali che siano messe in grado di autoregolare il proprio lavoro. L’esatto contrario di ciò che la Fiat è stata nella sua storia. Si vuole voltare pagina? L’impressione è che la dichiarata “rivoluzione culturale” sia per ora rigidamente limitata all’area dei dirigenti e dei quadri, ai quali si promette una più ampia delega di responsabilità, mentre nulla cambia per la grande massa dei lavoratori “esecutivi”. Ma anche questa è una politica vecchia, che ha il respiro corto.

Per i lavoratori e per il sindacato non ci sarà dunque, è chiaro, nessun automatico miglioramento delle loro relazioni con l’impresa. C’è qualche segnale di fumo, non di più. Il sindacato non è riconosciuto come interlocutore privilegiato, come soggetto rappresentativo dei lavoratori, come portatore di legittime istanze conflittuali. Ciò significherebbe accettare la sfida della democratizzazione.

E tuttavia questa crisi del modello classico di impresa apre al movimento sindacale un nuovo terreno d’azione. Acquista nuova forza tutta la battaglia politica per una nuova organizzazione del lavoro, per un nuovo equilibrio dei poteri, per un processo democratico reale che allarghi gli spazi di autonomia, di partecipazione, di controllo sociale.

La democrazia economica si può affermare su questo terreno, nel vivo di uno scontro sociale che coinvolge attivamente i lavoratori e ne trasforma le condizioni reali di lavoro. È illusorio affidarsi a qualche ipotesi astratta di ingegneria istituzionale. Il sindacato, senza rifiutare aprioristicamente nessuna delle ipotesi istituzionali, deve in primo luogo mobilitare le proprie risorse, e la prima risorsa necessaria è la ricostruzione di un rapporto democratico e trasparente con i lavoratori. E occorre, soprattutto, un salto di cultura sindacale.

Non si colgono le nuove opportunità, non ci si inserisce con efficacia nelle contraddizioni che sono aperte nel sistema delle imprese, se non si conquistano gli strumenti culturali necessari per affrontare, in tutta la loro complessità, i problemi di gestione dell’impresa moderna. La sfida della qualità pone anche al movimento sindacale un’esigenza acutissima ed urgente di qualità della sua elaborazione e del suo progetto.



Numero progressivo: H114
Busta: 8
Estremi cronologici: 1990, 24 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Riflessioni politiche - Scritti Sindacali -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 20, 24 giugno 1990, p. 35