LA SEZIONE ITALIANA DEL PSE

di Giulio Aguiari, Vittorio Angiolini, Aldo Aniasi, Stefano Bazzini, Edoardo Borruso, Gianni Bombaci, Gian Primo Cella, Gianni Cozzi, Giorgio Lunghini, Francesco Maffioli, Andrea Margheri, Giorgio Marinucci, Alceo Riosa, Riccardo Terzi, Sergio Vaccà

Il voto del 13 maggio è una grave sconfitta politica per la sinistra italiana. Non può essere in nessun modo condiviso il tentativo di sdrammatizzare o di minimizzare la portata di questo risultato. Si sono create le basi, politiche e parlamentari, per una stabilizzazione del centro destra come forza di governo. L’idea diffusa è che la transizione italiana si è completata e che ora c’è finalmente un governo legittimato dal consenso popolare.

Anche il Presidente della Repubblica si è affrettato a dire che la democrazia italiana è salda e che il bipolarismo funziona. E la parola d’ordine ricorrente è: ora finalmente stabilità. Dal Vaticano alla Confindustria, dalla Banca d’Italia ai grandi organi di informazione, si scommette su un lungo periodo di stabilità politica, e ciascuno presenta al nuovo governo il conto delle sue particolari aspettative e rivendicazioni. La sinistra ha compiuto il risanamento e ha ancorato l’Italia nella nuova realtà europea. Ora, completata questa missione necessaria e dolorosa, della sinistra si può fare a meno e può cominciare la restaurazione conservatrice, può cominciare cioè un processo politico che ricostruisce in forma nuova, un blocco di potere conservativo. Alla fine della transizione non c’è un nuovo equilibrio, ma la rivincita delle vecchie classi dirigenti. Berlusconi è, in questo senso, non il garante dell’innovazione, ma al contrario è l’artefice di una colossale restaurazione politico-ideologica.

Che tutto ciò sia, allo stato delle cose, solo una tendenza e non ancora un sistema di potere consolidato, che in questo processo ci siano, come sempre, contraddizioni su cui lavorare e possibili varchi verso una diversa prospettiva, è una ovvia verità. Essa ci ricorda che in politica non ci sono mai situazioni chiuse e bloccate, ma ciò non sminuisce per nulla la necessaria nettezza del giudizio sulle elezioni e sul quadro politico che ne è scaturito. Dobbiamo fare i conti non solo con una sconfitta elettorale, ma con un processo di stabilizzazione conservatrice. Questi sono i dati della politica, e serve a poco, di fronte alla corposità di questo processo, il calcolo dei flussi elettorali, il confronto con il ‘96, l’osservazione empirica di un Ulivo che perde ma aumenta i voti, che perde ma avrebbe potuto vincere.

La vicenda politica va interpretata nel quadro delle regole istituzionali vigenti. E le regole attuali sanciscono un risultato politico non equivoco, non suscettibile di troppo sofisticate interpretazioni. Due fattori sono risultati decisivi, al di là del calcolo proporzionalistico dei voti. Il primo dato è l’effetto del maggioritario sulla rappresentanza politica. Il maggioritario è un sistema che si propone di assegnare al vincitore tutti gli strumenti per un governo di lunga durata. Ma esso può funzionare con diverse modalità, con un sistema più o meno efficace di garanzie, e sono note sotto questo profilo le gravi disfunzioni dell’attuale legge elettorale.

Le due possibili soluzioni alternative al sistema vigente, il proporzionale con premio di maggioranza o il maggioritario a doppio turno, non sono mai divenute oggetto di una vera ed incisiva battaglia politica. Sul fronte delle regole, quindi, c’è stata, di fatto, una rinuncia, un’adesione passiva ad un modello istituzionale che sacrifica la rappresentanza politica e la forza dentro una competizione estremamente semplificata e personalizzata.

Non è qui in discussione la riorganizzazione del sistema politico nella direzione del bipolarismo, ma sono in discussione i modi e le forme di tale processo. Ciò che è avvenuto è un processo di destrutturazione delle rappresentanze politiche nel quale conta ormai solo l’offerta sul mercato politico di un progetto di leadership. Ciò è estremamente pericoloso anche là dove si vince, perché si sfalda il tessuto connettivo e ideale della sinistra e su questo vuoto si affermano oligarchie e poteri personali.

L’attuale fragilità della sinistra è anche l’effetto di questi meccanismi, di questa idea della modernità come superamento delle identità collettive e della politica, come competizione personalistica giocata tutta non sul terreno delle idee, ma su quello dell’affidabilità personale. In effetti, in questo contesto, la sinistra non ha più nessuna autonoma ragion d’essere. Occorre quindi riorganizzare il bipolarismo politico su basi più solide, con un sistema elettorale e istituzionale più equilibrato, non per tornare alle vecchie regole, ma per impedire un processo di dissoluzione del pluralismo politico.

Il secondo dato è l’incapacità di costruire, nel quadro di un sistema maggioritario e bipolare, un sistema efficace di alleanze elettorali. Ma anche questo non è un destino, ma è il frutto di un determinato corso politico. La rottura con Rifondazione comunista è stata la conseguenza della teorizzazione “ideologica” delle due sinistre, con la fissazione cioè di un discrimine di principio tra sinistra di governo e sinistra di alternativa sociale; rompendo così quell’unità dialettica di critica sociale e di realismo politico che è stata sempre, in Italia e in Europa, la forza del movimento socialista. Non si possono scaricare solo su Bertinotti le responsabilità di questa rottura, perché molti hanno pensato che essa fosse funzionale alla conquista del centro moderato, all’affermazione della sinistra come forza di governo. In realtà, non c’è stato nessun serio lavoro politico di ricostruzione di un quadro, anche minimo, di intesa a sinistra. E, sempre in questa logica, si è deciso l’uso delle liste civetta, le quali hanno rappresentato una operazione del tutto truffaldina, contro lo spirito della legge, a danno delle formazioni minori. In sostanza, il mancato accordo elettorale a sinistra è il risultato di una linea politica.

E anche nel rapporto con il movimento politico di Di Pietro c’è stata sottovalutazione e leggerezza, e si è data l’impressione di una linea oscillante e incerta sul grande nodo politico della legalità e della giustizia. La capacità di costruire alleanze, nelle diverse direzioni, è uno dei requisiti indispensabili della politica. Ed è su questo terreno che abbiamo fallito. Il tema delle alleanze si ripresenta dunque, per il prossimo futuro, come un tema cruciale. Già da ora, nell’opposizione al governo di centro-destra, occorre cominciare a costruire una nuova rete di relazioni, sociali e politiche, con i diversi settori della società italiana, sapendo che abbiamo davanti a noi un lungo lavoro di ricostruzione e di ridefinizione di una strategia politica. E in questa direzione sarà determinante il coinvolgimento della società civile, nelle sue diverse espressioni, superando ogni forma di chiusura burocratica e di autoreferenzialità dei gruppi dirigenti.

All’interno di una dato elettorale complessivamente negativo per il centro-sinistra, va particolarmente messo a fuoco il risultato dei Ds, che segna un punto drammatico di arretramento e di crisi. Siamo di fronte ad un vero e proprio cedimento strutturale, il quale può configurare per il prossimo futuro, se non intervengono fatti politici nuovi, una prospettiva di marginalizzazione. Siamo chiamati, a questo punto, ad una scelta di grande chiarezza sulle sorti della sinistra italiana, sulla possibilità o meno di ridefinizione di uno spazio autonomo della sinistra, dotato di un proprio riconoscibile asse culturale e sociale.

Questo è il tema del prossimo congresso: l’autonomia della sinistra o la sua dissoluzione, la riconquista di una identità culturale e programmatica, o viceversa la prospettiva di un generale rimescolamento delle identità storiche e delle culture politiche verso una aggregazione genericamente democratica e riformista. In questi anni il gruppo dirigente del partito ha cercato di eludere questa scelta, lasciando convivere insieme entrambe queste possibili traiettorie e accontentandosi di vuote formule conciliatorie.

Oggi, nel nuovo quadro determinato dall’esito elettorale, con le sue stringenti domande di chiarificazione strategica per tutte le forze politi che, continuare nell’equivoco e nella indeterminate a delle formule sarebbe certamente la scelta più negativa. In questo senso sono superati i risultati del congresso di Torino e la nuova maggioranza si deve costituire sulla base di una scelta di chiarezza.

La scelta dell’autonomia della sinistra, che noi riteniamo essere l’orizzonte strategico necessario per un rilancio non solo dei Ds ma del l’intero campo di forze della sinistra italiana, richiede un lavoro assai complesso e impegnativo di rielaborazione, e certo non sono sufficienti enunciazioni astratte e formule generiche. L’autonomia non è la difesa di qualcosa che c’è, di un patrimonio consolidato, di una tradizione, per il semplice fatto che questo patrimonio si è dissolto, sia per gli errori di un troppo disinvolto revisionismo storico, sia soprattutto per i cambiamenti materiali che sono intervenuti nella società italiana, per la complessiva trasformazione, culturale, istituzionale e sociale, nella quale ci troviamo ad agire, la quale non consente più di utilizzare con efficacia gli strumenti interpretativi del passato.

Questo deve essere del tutto chiaro: l’autonomia non è il ripiegamento in una tradizione svuotata, ma è la messa in moto di uno straordinario lavoro di ricerca e di innovazione culturale, è lo sviluppo del carattere pluralista e aperto che deve avere il partito politico della sinistra, come luogo di incontro delle diverse tendenze del riformismo italiano. Al contrario, la prospettiva di una graduale dissoluzione della sinistra non richiede nessun particolare sforzo di pensiero, ma richiede solo di lasciar maturare il tempo di un processo che è già in atto. I fatti finora danno ragione alle tesi uliviste, perché, in effetti, ciò che è avvenuto in questi anni è un movimento di omologazione delle forze politiche, di caduta delle identità, di offuscamento della sinistra come autonoma cultura politica. Se non intervengono fatti nuovi, questo sarà l’esito necessario del processo politico. Nessuno oggi ha bisogno di proporre il partito democratico, il partito unico dell’Ulivo, perché non c’è nessuna necessità di forzare i tempi, basta lasciare libero corso alle tendenze in atto che vanno comunque in quella direzione. La stessa vicenda elettorale rappresenta una tappa importante di questo percorso, con la leadership di Rutelli, con il riequilibrio delle forze nel centro-sinistra, con la crisi dei Ds, con l’Ulivo che sempre più tende a soppiantare, nella coscienza collettiva, le identità specifiche dei partiti.

Il progetto ulivista non è quindi una scommessa azzardata, ma è un’operazione di realismo politico. In questa prospettiva, la sinistra è destinata ad essere svuotata e riassorbita in un più vasto contenitore, senza una propria autonoma progettualità. Non ci sarà nessuna “grande sinistra in un grande Ulivo”, ma una nuova egemonia liberal-democratica che soppianta il pensiero socialista, relegato nell’ambito storico dei conflitti sociali del Novecento e ormai incapace di interpretare la nuova realtà.

Dunque, contrariamente ad una certa diffusa rappresentazione della nostra dialettica interna, la spinta all’innovazione nasce sul terreno dell’autonomia culturale della sinistra e del rinnovamento del pensiero socialista, mentre sull’altro versante c’è solo l’adesione passiva ai processi in atto e l’adozione di una posizione di puro pragmatismo. La collocazione nel quadro del socialismo europeo è una condizione essenziale, ma è solo una condizione di partenza, non ancora una risposta ai problemi attuali. La scelta socialista si configura cioè non come l’adesione ad un modello politico già compiutamente strutturato, perché in tutta Europa c’è una ricerca in corso e si confrontano ipotesi diverse, ma come una premessa storico-politica, in quanto la ricerca e l’innovazione non avvengono nel vuoto e nella indeterminatezza culturale, ma si innestano su una storia, su un’esperienza politica reale, la quale appunto è data dalla realtà del movimento socialista nelle sue diverse articolazioni e dalla sua fondamentale ispirazione riformista, e oggi necessariamente si sviluppano nel contesto europeo, nel quadro del sistema politico europeo e delle sue rappresentanze. Non ci sarà quindi un futuro per l’Italia senza una sinistra che abbia questo respiro e questo radicamento. Ecco perché il congresso sarà un momento essenziale di un più generale processo di riorganizzazione della sinistra italiana.

Per ridefinire le basi di una possibile autonomia della sinistra, occorre una teoria politica che risponda alle domande fondamentali: quale interpretazione della realtà, quale blocco sociale di riferimento, quale organizzazione e quale pratica democratica concreta. Il congresso dei Ds può essere quindi un passaggio fecondo a due essenziali condizioni: che venga compiuta con nettezza la scelta socialista, ponendo fine all’ambivalenza e all’ondeggiamento degli ultimi anni, costituendo quindi su questa base un gruppo dirigente consapevole e determinato ad affrontare tutte le difficoltà di questa scelta e che nel contempo non ci si fermi a questo enunciato generale e preliminare, ma si avvii da subito tutto il necessario lavoro di rielaborazione di una teoria politica adeguata alla fase attuale e al suo interno processo di trasformazione.

Occorre chiarire, sulla base di questa impostazione, il rapporto tra partito e coalizione. Il tema della coalizione resta, infatti, cruciale, non solo perché si è affermata una struttura bipolare del nostro sistema politico, ma perché in ogni caso, indipendentemente dai sistemi elettorali, la sinistra è vitalmente interessata ad un rapporto di collaborazione e di alleanza politica con altri settori democratici e ciò è particolarmente vero in Italia, data la forza della tradizione cattolico-democratica e di altre correnti di democrazia laica. La scelta dell’autonomia della sinistra non è la scelta di un integralismo di partito o una pretesa di autosufficienza. Sarebbe una pura sciocchezza.

La coalizione è una unità di diversi, è il luogo in cui forze politiche distinte sanciscono una loro stabile alleanza, di valore strategico, per il governo del Paese o per una comune battaglia di opposizione. In questo senso è necessario che la coalizione si organizzi con proprie strutture, con propri organi decisionali, in modo che tutte le scelte che competono alla coalizione e non ai singoli partiti avvengano secondo procedure certe e formalizzate, con quella necessaria trasparenza democratica che in troppi casi è mancata. Basti pensare alla scelta della leadership e alla selezione dei candidati nella quota maggioritaria. È quindi necessaria una struttura stabile dell’Ulivo, e la definizione di un sistema democratico di regole e di garanzie per le decisioni comuni.

Fin qui tutto può sembrare abbastanza semplice, e non dovrebbe essere difficile adottare soluzioni ragionevoli. Ma come si configura in sé la coalizione, e quale dinamica politica regola i rapporti tra le sue diverse componenti? Ci sono, su questo terreno, diverse risposte e diverse insidie. C’è anzitutto la tesi che l’Ulivo è la risorsa strategica per il futuro, mentre i partiti sono solo delle sopravvivenze storiche destinate ad essere superate. Anche se ora sembra prevalere una linea di maggiore prudenza e di realismo, senza eccessive forzature, è questo chiaramente lo sfondo, la prospettiva di riferimento per molti comportamenti politici. In questa ottica, l’Ulivo non è la coalizione, ma è il nuovo che soppianta il vecchio. È l’esatto rovescio della nostra tesi sul l’autonomia della sinistra.

Una seconda soluzione, oggi largamente diffusa, è quella delle “due gambe”. Dopo le elezioni ha preso nuova forza, perché comincia a prendere forma questa struttura duale dell’Ulivo, con due partiti, i Ds e la Margherita, di peso equivalente. Può sembrare la soluzione più logica del problema, e una garanzia di autonomia e di pari dignità per le due essenziali componenti della coalizione.

Ci possono però essere due diverse versioni di questa tesi, una statica e una dinamica. La prima configura due distinti campi di competenza e di rappresentanza sociale: una sinistra ancorata alla vecchia rappresentanza di classe, e il centro che occupa tutto lo spazio dell’innovazione e dell’arcipelago delle classi medie. Con un evidente e inevitabile corollario: la sinistra può partecipare alla coalizione, ma non può guidarla. Il luogo strategico è il centro, è qui che si giocano le prospettive. E quindi le gambe sono due, ma una ha solo una funzione di complemento. Si ritorna così al vecchio centro sinistra nella sua versione dorotea: aprire a sinistra solo quel tanto che è necessario per la stabilità del sistema. La versione dinamica, al contrario, pensa alla coalizione come ad un campo di forze nel quale non ci sono ruoli prefissati, ma c’è una libera competizione politica a tutto campo. Solo in questo quadro può essere garantita l’autonomia della sinistra, la possibilità cioè di un progetto che si rivolge all’intera società italiana e che si misura alla pari con altri progetti politici. Le due gambe non sono segmenti sociali, ripartizioni precostituite della rappresentanza, ma sono diverse culture politiche, per un verso affondate nel passato e per l’altro proiettate nel futuro, ciascuna delle quali intende interpretare globalmente le necessità della nazione, secondo una logica che è insieme di convergenza e di competizione. Deve essere naturalmente chiaro che ci riferiamo qui non solo ai Ds ma all’intero campo della sinistra e alla necessità di una sua ristrutturazione unitaria. D’altro canto vi è un problema aperto per l’Ulivo nel suo insieme, con la consapevolezza che all’unità programmatica e politica fino all’ingresso nell’euro è seguita una lunga e difficile fase caratterizzata da acute competizioni interne e conseguente offuscamento del profilo di governo.

Proviamo ora a delineare, per sommi capi, i temi cruciali sui quali va ricostruita l’identità politica della sinistra. Il primo decisivo riferimento non può che essere al tema del lavoro, perché è proprio qui, nello stretto rapporto di rispondenza tra politica e lavoro, l’identità storica e la peculiarità specifica della sinistra, la quale esiste proprio in quanto forza di rappresentanza politica e di organizzazione pratica di un determinato blocco sociale.

Nel momento in cui questo rapporto si offusca, come è avvenuto negli ultimi anni, e la sinistra diviene socialmente neutra, disancorata dal conflitto sociale, definita solo sotto il profilo dei valori astratti e non più secondo il metro degli interessi e delle condizioni materiali, essa perde il fondamento della sua autonomia. La premessa necessaria è quindi l’affermazione del lavoro come elemento costitutivo dell’identità.

Ma questa affermazione di principio, tanto più necessaria oggi perché non si presenta affatto come una premessa scontata, e viene, anzi, da molti apertamente rifiutata in via teorica e ancor più in via pratica, deve essere ulteriormente specificata e concretizzata nel quadro dei cambiamenti sociali che si stanno organizzando. In primo luogo, occorre distinguere con chiarezza il piano della rappresentanza sindacale e quello della rappresentanza politica, che rispondono a logiche differenziate e che non possono essere sovrapposte. In questo senso, la scelta dell’autonomia sindacale non deve essere rimessa in discussione, e va anzi rilanciata anche come condizione per un nuovo progetto di unità del movimento sindacale. La differenza concettuale sta nel fatto che il sindacato rappresenta in termini immediati gli interessi del lavoro dipendente, e assume quindi necessariamente un punto di vista parziale, mentre per il partito politico la centralità del lavoro ha il significato più generale di una riorganizzazione della società che valorizzi l’insieme delle forze produttive, delle risorse professionali, in una visione allargata del tema del lavoro. Il partito non esce dalla sua crisi trasformandosi in una sorta di braccio politico del sindacato. Ciò sarebbe dannoso sia per il partito, rinchiuso in una dimensione troppo angusta, sia per il sindacato, costretto ad un’azione di fiancheggiamento che ne limiterebbe l’autonomia e la sua forza specifica di rappresentanza sociale.

Declinare in termini politici il tema del lavoro significa avere un progetto di organizzazione sociale e di sviluppo che si rivolga all’intera società, alle diverse forme del lavoro, dipendente o autonomo, e che affronti il tema del lavoro nel suo necessario rapporto con l’impresa, con il sapere, con il territorio e l’ambiente, con tutti i fattori che determinano la qualità dello sviluppo.

In secondo luogo, occorre analizzare i processi di differenziazione e di frammentazione del lavoro, tipici della nuova economia post-fordista. In questo processo ci sono nuove opportunità, ma c’è soprattutto il rischio di una generale precarizzazione e insicurezza, con la formazione di una nuova classe sociale di lavoratori senza tutele, senza protezione, lasciati a se stessi dentro un meccanismo di competizione individuale che schiaccia i loro spazi vitali, non solo per chi è destinato alla sconfitta, ma anche per chi ottiene il successo al prezzo di una deformazione abnorme dei propri ritmi di vita. Questa nuova galassia di lavoro, autonomo o parasubordinato, precario o semiprofessionale, non ha oggi rappresentanza politica e rischia di fornire la base di massa per una cultura di destra che alimenta il mito del successo e della competizione secondo una concezione individualistica della società. Qui sono decisivi i temi della formazione, della qualificazione professionale, per mettere in grado i lavoratori di padroneggiare il loro futuro, e i temi del Welfare, di un sistema rinnovato di garanzie e di protezioni che consenta ai lavoratori, soprattutto a quelli più esposti alla precarietà, di affrontare le incertezze del mercato con un bagaglio di diritti, con alcune certezze che sono comunque garantite (in materia previdenziale, sanitaria, e anche di reddito) da un intervento pubblico che sia finalizzato a precisi obiettivi di coesione sociale e di eguaglianza dei diritti. Altrettanto decisivo è l’impegno alla rottura dei blocchi corporativi, a partire dalla riforma degli ordini professionali, per favorire la mobilità sociale, in particolare per le giovani generazioni, e per costruire una società più aperta.

L’obiettivo di una forza di sinistra è quello di valorizzare il lavoro in tutte le sue forme, di creare cioè il necessario contesto sociale e istituzionale per una nuova qualità del lavoro. È inaccettabile, quindi, la linea che punta ad una mera espansione quantitativa dell’occupazione, al prezzo di un peggioramento delle condizioni di lavoro, in termini di diritti, di sicurezza, di salario, di forza contrattuale. A questo esito puntano decisamente alcuni settori imprenditoriali, con l’appoggio della destra politica e della cultura neo liberista. È un terreno di scontro decisivo e di immediata attualità. La sinistra deve rendere estremamente chiara la sua collocazione in questo conflitto sociale, che già è aperto, e che già ha prodotto in molti casi un grave arretramento delle condizioni di lavoro. Scegliere il lavoro come fondamento dell’identità politica ha quindi un preciso e concreto significato, ed è la condizione necessaria per recuperare il consenso sociale che in questi anni si è perduto.

Un secondo tratto irrinunciabile della sinistra è la sua prospettiva universalistica, la sua dimensione mondiale, contro ogni chiusura nazionalistica o localistica. La globalizzazione in atto rappresenta l’occasione di un rilancio delle ragioni di fondo della sinistra, proprio perché è sempre più evidente che non ci sono, per tutti i problemi davvero rilevanti, soluzioni locali, ma solo soluzioni globali. Occorre distinguere concettualmente il movimento complessivo di integrazione mondiale e le forme che esso assume. La globalizzazione è il contesto necessario, è il terreno di lotta più avanzato sul quale occorre costruire politiche globali per i diritti, per il lavoro, per l’uguaglianza, il che comporta una fortissima critica dei modi in cui si organizza il mercato mondiale e delle strutture di potere che lo governano. Il processo in atto, in quanto è guidato da una logica di mercato senza una regolazione politica, e quindi da un dominio esclusivo dei poteri economici forti, porta con sé una crescita esponenziale delle contraddizioni e delle disuguaglianze su scala mondiale. La vocazione internazionale del movimento socialista si ripresenta oggi come necessità di un’azione consapevole e coordinata dei soggetti sociali, dei movimenti, delle comunità nazionali, delle istituzioni politiche, per fissare obiettivi comuni di giustizia, di affermazione dei diritti, di difesa ambientale. Lo sviluppo sostenibile è l’asse intorno al quale costruire idee e azioni di governo dell’economia e della produzione, guardando al futuro e al destino delle nuove generazioni. È questo oggi il campo di azione strategicamente più rilevante, per il quale però ancora non abbiamo costruito gli strumenti e le forme organizzative adeguate, col rischio quindi che ci sia solo una protesta, una contestazione fine a se stessa, che non sa costruire un percorso politico fatto di obiettivi, di risultati parziali, di mediazioni, di riforma delle istituzioni internazionali. L’azione della sinistra finora è stata debole, e spesso ci si è mossi dentro i vincoli e le direttive delle grandi agenzie internazionali che interpretano la globalizzazione solo come allargamento del merca to e imposizione a tutti i paesi della ricetta economica neoliberista.

È necessario invece considerare come inseparabili l’azione politica nel contesto nazionale e l’azione globale. La globalizzazione non è il nemico, ma il terreno su cui ricostruire forza politica, iniziativa, rappresentanza. Oggi c’è un movimento solo difensivo, contro il potere incontrollato delle grandi agenzie internazionali e contro i processi di omologazione e di distruzione delle diversità culturali, ma non c’è ancora una transnazionalità attiva e consapevole, decisa a occupare lo spazio globale con un proprio progetto politico. È questo il salto che necessariamente devono compiere le forze politiche e sociali per non essere travolte.

Un momento essenziale è la costruzione della dimensione politica dell’Europa, la sua riforma istituzionale verso una struttura di tipo federativo, il suo allargamento verso i paesi dell’Est, la sua trasformazione in una originale entità politica, con proprie regole democratiche, con una propria carta costituzionale, con un sistema unitario di diritti di cittadinanza. Il peso delle sinistre in Europa, il ruolo dei grandi partiti socialisti come forza di governo in alcuni dei maggiori paesi, può rappresentare una spinta decisiva in questa prospettiva, per una Europa che possa svolgere una propria autonoma funzione nel panorama internazionale.

Di fronte ai nuovi conflitti e alle nuove tensioni, nell’area dei Balcani e in Medio Oriente, è urgente una iniziativa politica dell’Italia e dell’Europa per una politica attiva di pace e per non ritrovarci nelle strette di un’azione di forza militare, come è avvenuto drammaticamente con l’intervento della Nato nel Kosovo. La guerra è sempre il risultato di un fallimento della politica, e segnatamente di un insuccesso della sinistra nel momento in cui essa è costretta a piegarsi alla logica della forza.

Ma oggi non si tratta più solo di politica estera, di solidarietà con i Paesi poveri, di prevenzione dei conflitti, ma è in causa il nostro modello di sviluppo e il rapporto tra politica ed economia. Il problema principale è il governo del mercato mondiale, e quindi la costruzione di efficaci istituzioni politiche sopranazionali.

Vanno riconsegnate alla volontà democratica, e quindi al controllo politico, le grandi scelte strategiche che riguardano la qualità dello sviluppo, superando la concezione di un ruolo solo arbitrale dello Stato e rifiutando l’idea funzionalista e tecnocratica che affida la regolazione solo ad organismi di carattere tecnico, inevitabilmente subalterni ai grandi poteri economici costituiti. Su tutto questo arco di questioni c’è dunque un vasto campo d’iniziativa, di elaborazione, di mobilitazione democratica, e ciò può essere fatto solo da un partito che sia fortemente ancorato in una dimensione internazionale, in quanto parte attiva della grande comunità dei partiti socialisti.

La sinistra si costruisce a partire dai valori dell’eguaglianza. È questo il valore primario che deve essere la nostra bussola fondamentale, soprattutto nel momento in cui l’offensiva liberista tende ad esaltare il modello di una società di sfrenata competizione che premia il successo ed emargina i perdenti. E, come si è visto, l’attuale forma della globalizzazione crea nuove drammatiche disuguaglianze, tra le nazioni e nelle singole nazioni. L’idea di archiviare il tema dell’eguaglianza come un tema ottocentesco ormai sorpassato equivale quindi ad una dichiarazione di morte delle ragioni della sinistra. Ma eguaglianza e libertà non sono termini antitetici, se la libertà è concepita come libertà per tutti, come libera realizzazione della persona, come possibilità di scegliere in autonomia il proprio progetto di vita. L’eguaglianza non può essere quindi il modello di una società standardizzata, ma al contrario va concepita come un processo profondo di liberazione della vita, di ciascuno e di tutti, dai vincoli imposti dall’esterno, dal dominio gerarchico, dalla violenza ideologica che è insita in ogni forma di integralismo.

La nostra idea di Stato laico è appunto questa totale apertura verso il pluralismo delle culture e dei modelli di vita, e il rifiuto quindi di qualsiasi morale imposta, di qualsiasi eticità positiva dello Stato, la cui funzione non è la trasmissione di un sistema morale, ma la costruzione di uno spazio pubblico che renda possibile il confronto e la convivenza competitiva delle culture. È una posizione di principio che non sempre abbiamo saputo tenere ferma. C’è nella società europea e in quella Italiana una nuova maturazione della coscienza civile sul terreno dei diritti, delle libertà individuali, del riconoscimento delle differenze, a partire dalla differenza femminile, un sentire comune che afferma i valori fondamentali della laicità dello Stato, e spesso, su questo terreno, l’opinione pubblica si dimostra più aperta e più consapevole delle forze politiche. Anche la sinistra non ha saputo rappresentare con coerenza questi orientamenti e dare loro valenza politica. È evidente che qui si gioca un confronto delicato con il mondo cattolico. Ma questo stesso confronto si svilisce se diviene uno scambio di favori, una rincorsa opportunistica al consenso delle gerarchie religiose, un compromesso sui principi. Ciò ha pesato sul lavoro della coalizione di centro sinistra, che su molti temi è stata esitante o ha cercato un accordo diplomatico di vertice, lasciando così un vuoto politico e culturale che oggi è urgente recuperare. La restaurazione politica del centro-destra può rappresentare, anche su questo terreno, un riemergere di posizioni clericali e un nuovo patto di potere tra Stato e integralismo religioso.

Ma qui non si tratta solo della religione, ma di un’idea sostanziale della libertà che vale in tutti i campi e di fronte a qualsiasi potere. Basti solo pensare ai temi cruciali della libertà della ricerca scientifica, dell’insegnamento, dell’informazione, della comunicazione politica, tutti temi che non richiedono solo l’assenza di vincoli, ma un’azione di promozione pubblica perché questi diritti possano essere effettivi e resi efficacemente disponibili.

La nostra società, analogamente ad altre società del mondo sviluppato, soffre di una carenza di vita democratica che può giungere rapidamente ad un vero e proprio punto di crisi. Caduta della partecipazione politica, astensionismo elettorale sempre più diffuso, degenerazione oligarchica del sistema politico, spostamento dei poteri decisionali verso organismi tecnocratici non controllati democraticamente, affermazione di logiche corporative e lobbystiche, riduzione drammatica degli spazi pubblici di partecipazione e di confronto, tutto ciò segnala una democrazia fortemente malata e distorta.

In tutta la discussione sulle riforme istituzionali questo problema della vitalità democratica del paese non è stato per nulla toccato, da parte di nessuno. Al contrario, ci si è preoccupati solo di rendere più efficaci i meccanismi decisionali, più forte l’autorità politica, considerando quindi che nel bilanciamento tra potere di rappresentanza e potere di decisione fosse necessario sacrificare il primo al secondo. Si è così preparata la strada per un modello di democrazia plebiscitaria, che stabilisce un meccanismo di investitura democratica diretta dal popolo al leader, il che svuota ulteriormente gli strumenti e le sedi di una partecipazione attiva. Occorre riesaminare e ripensare tutta la nostra politica istituzionale che non ha contrastato, ha anzi assecondato, un’evoluzione in senso oligarchico e verticistico del nostro sistema politico. In parte questa tendenza può essere corretta e bilanciata da una riforma federalista dello Stato. Ma il federalismo, che è uno strumento importante di redistribuzione dei poteri e delle risorse, non può in sé risolvere i problemi di fondo della vita democratica.

Il tema centrale è quello del partito politico, che è stato storicamente lo strumento principale di mediazione tra società e Stato e il luogo della partecipazione politica. Oggi non è più così, e sicuramente non è possibile ricostituire la forma storica del partito di massa, la quale si è formata in un determinato contesto politico e sociale. Ma è possibile e necessario riproporci oggi con grande forza il tema della democratizzazione della vita politica, anche utilizzando a questo fine tutti i nuovi strumenti di comunicazione. Al modello di partito leaderistico e verticalizzato, che oggi è stato universalmente adottato da tutti, a destra come a sinistra, è possibile contrapporre un progetto radicalmente alternativo, basato su una sistematica democratizzazione di tutto il processo decisionale: elezioni primarie per i candidati, referendum tra gli iscritti, sviluppo delle autonomie territoriali, struttura non verticalizzata ma a rete, forme organizzate di coinvolgimento degli elettori, avendo come obiettivo primario la costruzione di uno “spazio pubblico”, nel quale il singolo è un soggetto portatore di diritti e non uno spettatore o, peggio, una pedina da manovrare nel gioco di potere interno all’oligarchia di vertice.

Non ci sono mai soluzioni obbligate, e non è affatto vero che le forme della politica debbano necessariamente assumere, nel mondo contemporaneo, una curvatura di tipo autoritario. Va apertamente combattuta la rassegnazione di chi, per calcolo o per pavidità, si adatta ormai a con vivere con una politica svuotata della sua necessaria linfa democratica.

È un tema di grande difficoltà. Ma è la condizione necessaria per il rilancio della sinistra, perché in un modello istituzionale che riduce la politica ad un gioco tutto di vertice, le ragioni della sinistra non hanno la possibilità di farsi valere, perché esse sono fondamentalmente le ragioni di un autentico processo democratico. Questa atrofia del partito come struttura democratica non è l’ultima delle ragioni della nostra sconfitta.

Tutti questi temi precipitano nella realtà milanese e si presentano qui con una particolare drammaticità, perché qui è l’epicentro sia delle trasformazioni sociali sia dell’egemonia politica della destra. Il problema di Milano non è un specificità locale, da risolvere con qualche particolare adattamento, con espedienti organizzativi, ma è il tema della politica della sinistra in tutta la sua profondità. Non è una questione locale, e non è quindi neppure solo il problema del Nord. Milano rende del tutto evidente come il rischio di una dissoluzione della sinistra sia un’eventualità tutt’altro che teorica, rende evidente che siamo di fronte alla necessità urgente di scelte drastiche. Scelte politiche, strategiche, di cultura politica e di progetto sociale. La debolezza di Milano è una debolezza per tutto il partito e per tutta la sinistra. È anzi, più correttamente, la dimostrazione pratica di un deficit di politica nazionale. Qui è chiaro che occorre un vero processo di ricostruzione, il quale non può certo avvenire solo per la forza interna di una organizzazione ormai debilitata, ma richiede una linea di dialogo con la società, con le competenze, con le rappresentanze sociali.

A questo si intreccia anche il problema della crisi della direzione politica, che esiste e che dovrà essere affrontato, ma può essere affrontato seriamente solo sulla base di una effettiva chiarificazione politica. È questa chiarificazione di fondo che vogliamo sollecitare con questo nostro contributo, per costruire un congresso che non sia l’ennesima occasione perduta e che non si risolva in una fittizia unità che lascia tutti i nodi irrisolti. L’esigenza del momento non è l’unità del partito, ma la chiarezza delle proposte politiche.

L’unità potrà essere solo il risultato di un progetto politico chiaro, su cui costruire il consenso e la mobilitazione attiva. E noi pensiamo che la sfida per una sinistra autonoma, non subalterna, che ridefinisce e rilancia le sue ragioni di fondo, possa avere questa forza di mobilitazione e di adesione, superando l’attuale condizione di passività e l’indeterminatezza di una identità politica che si è venuta sempre più logorando. Ciò che è in gioco non è la difesa o l’equilibrio delle posizioni di potere, ma è il destino del partito e della sinistra. Per questo sentiamo il bisogno di una discussione ampia e partecipata, per arrivare a scelte condivise. A ciò vogliamo contribuire, a partire da queste riflessioni, creando una sede di discussione, di ricerca e di approfondimento aperta a tutto il partito e alle diverse energie della sinistra milanese.



Numero progressivo: H52
Busta: 8
Estremi cronologici: 2001, 12 luglio
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, 2001, pp. 12-24