[LA RIFORMA FEDERALE]

di Riccardo Terzi, scritto per “Quaderni di Rassegna Sindacale”

La legislatura si chiude con l’approvazione definitiva della riforma costituzionale che modifica il titolo V della seconda parte della Costituzione, avviando, con un atto assai rilevante e impegnativo, la trasformazione dello Stato verso un modello di tipo federalista.

Si è molto discusso sull’opportunità politica di una decisione, in materia costituzionale, presa dalla sola maggioranza di governo, senza un accordo con l’opposizione. E molti hanno contestato non la legittimità formale, che è fuori discussione, ma la saggezza politica di una prova di forza che può rappresentare un pericoloso precedente, esponendo tutta la politica costituzionale alla variabilità delle maggioranze parlamentari.

L’obiezione ha un fondamento, essendo certamente vero che in linea di principio le riforme istituzionali dovrebbero essere sottratte al normale e fisiologico conflitto tra governo e opposizione e dovrebbero pertanto essere costruite sulla base di un largo accordo politico e parlamentare.

Ma occorre, in questo caso, valutare attentamente la linea di condotta scelta dal centro-destra, la quale non lasciava nessun margine possibile per un accordo, avendo un intento solo ostruzionistico e negativo. La linea del Polo era del tutto chiara, nella sua rozzezza provocatoria: la riforma federalista la realizzeremo noi dopo la vittoria elettorale, e intanto lanciamo un’offensiva propagandistica con i referendum nelle regioni del Nord sulla cosiddetta devolution, tenendo aperto il conflitto politico e istituzionale con il governo centrale. Nessun accordo, quindi, prima delle elezioni, ma l’uso tutto strumentale di una acutizzazione dello scontro, per tenere inchiodata la sinistra in una posizione di impotenza.

Lo schema ideologico è assai semplice: la sinistra incarna in sé le ragioni del vecchio centralismo statale, e quindi la riforma dello Stato può essere fatta solo con un cambiamento di regime politico, cacciando la sinistra all’opposizione.

È allora evidente la pregiudiziale ostilità politica del centro-destra a qualsiasi riforma nella fase conclusiva della legislatura. Non c’erano mediazioni possibili, compromessi politici ragionevoli, ma c’era solo la possibilità di cedere al ricatto. Per la destra era essenziale confermare, di fronte al Paese, la sua rappresentazione ideologica, l’immagine di una sinistra conservatrice e di una destra come unica forza di cambiamento, per poter affrontare così nelle condizioni migliori la prova elettorale. L’ideologia è sempre un atto di violenza sulla realtà, l’imposizione di un modello, di uno schema interpretativo, al quale la realtà dovrebbe adattarsi. E la lotta politica continua ad essere, nonostante le disquisizioni intellettualistiche sulla fine delle ideologie, una lotta impregnata di ideologia, in cui vince chi riesce ad affermare come senso comune il proprio universo simbolico.

La violenza ideologica è tuttora una componente essenziale dello scontro politico. E chi non si attrezza anche su questo terreno finisce per combattere disarmato.

Accettare il terreno della destra, la sua pretesa di bloccare e rinviare qualsiasi decisione, avrebbe dunque significato non una ragionevole pausa di riflessione per affrontare in condizioni migliori e più costruttive tutto il problema istituzionale nella prossima legislatura, ma entrare in una trappola e restarne schiacciati.

Si sarebbe avvalorata la tesi dell’incapacità strutturale della sinistra a promuovere il cambiamento. Ora, questo gioco è stato rotto. E credo che alla fine, valutandone tutte le implicazioni, si sia compiuta una scelta politicamente accorta. Con l’approvazione della riforma costituzionale, i referendum regionali sono del tutto svuotati. Al di là del problema della loro ammissibilità, è ormai evidente e scoperto il loro significato solo agitatorio e propagandistico, perché chiedono un trasferimento di poteri che è già stato regolato dalla nuova normativa costituzionale, la quale appunto ridefinisce il campo delle competenze e dei poteri tra Stato centrale e autonomie regionali. Il referendum è ormai un’arma spuntata. Le Regioni non devono chiedere poteri, ma saper gestire lo spazio di autonomia che è loro assegnato. E tutta la rappresentazione ideologica della destra interprete delle istanze dell’autonomia contro la sinistra statalista e centralista è ormai priva di qualsiasi fondamento. Siamo ora di fronte ad una atto concreto di riforma dello Stato, ad una decisione impegnativa del Parlamento, e quindi tutta la discussione deve ripartire da qui, dalle nuove condizioni istituzionali che si sono realizzate e di cui dobbiamo saper valutare e gestire i concreti effetti operativi. La discussione quindi si sposta, e ciascuno deve misurarsi con la corposità di un processo di riforma in atto. È un risultato non disprezzabile, perché costringe tutti, da ora in poi, ad affrontare i problemi istituzionali nella loro concretezza, essendo ormai conclusa la fase dell’agitazione propagandistica, del federalismo usato strumentalmente come bandiera di partito. Certo, una nuova maggioranza parlamentare può teoricamente revocare i risultati raggiunti, può riaprire su nuove basi politiche il discorso della riforma costituzionale. Ma questo è un rischio che è insito nella stessa norma di revisione prevista dall’art. 138 della Costituzione, che fissa come unico requisito la maggioranza assoluta delle due Camere, con la garanzia di un possibile ricorso ad un referendum oppositivo. Si vedrà, dopo le elezioni, in quale nuovo scenario politico ci troveremo ad agire. In ogni caso non partiamo da zero, ma da un primo risultato, da un disegno istituzionale che ha cominciato a prendere corpo e che già da oggi produrrà i suoi effetti operativi nella vita concreta delle istituzioni e nel rapporto tra Stato centrale e autonomie territoriali. Se la destra deciderà sui temi istituzionali di riaprire una linea di scontro, a questo scontro dobbiamo essere predisposti, e lo possiamo affrontare in una condizione di maggiore forza e credibilità proprio perché non abbiamo prodotto solo generiche dichiarazioni, ma atti concreti e vincoli costituzionali che sono già oggi operanti.

Il risultato conseguito -dobbiamo esserne consapevoli -è solo parziale, e dovrà essere completato nella prossima legislatura, sperando che, dopo la contrapposizione frontale di questa convulsa vigilia elettorale, si possano riaprire le condizioni per un confronto più costruttivo. In ogni caso, il tema istituzionale sarà centrale anche dopo le elezioni e dovrà impegnare seriamente il prossimo Parlamento.

Una compiuta riforma federalista dello Stato comporta una trasformazione strutturale del regime parlamentare con l’istituzione di una seconda Camera che sia rappresentativa delle autonomie territoriali e che funzioni quindi come luogo di raccordo tra legislazione nazionale e legislazione regionale. Nel dibattito politico è questo un obiettivo ora largamente condiviso, anche se restano diverse possibili opzioni circa la composizione e le modalità elettive di questo organismo. Il modello più convincente resta, a mio giudizio, quello del Bundesrat tedesco, che affida direttamente ai governi regionali la rappresentanza politica dei territori federati, corresponsabilizzandoli così in modo stringente nella definizione delle politiche nazionali. Un allargamento della seconda Camera ai Comuni e alle Province può meglio rappresentare, nella sua complessa articolazione, l’intero sistema delle autonomie, ma rischia di rendere l’organismo troppo composito e poco efficiente, privo di una sua razionalità, mettendo insieme livelli istituzionali che hanno funzioni legislative e livelli che hanno un carattere solo amministrativo. E, d’altra parte, l’ipotesi, da molti caldeggiata, di un Senato federale di tipo elettivo, sul modello americano, può risolversi in via di fatto in un cambiamento solo nominale, apparente, in quando sarebbero riprodotte le logiche dell’appartenenza politica ai grandi partiti nazionali e verrebbe meno il raccordo tra istituzioni nazionali e istituzioni regionali.

La seconda Camera ha una sua funzione distinta, un suo diverso criterio costitutivo e una sua autonoma legittimazione, proprio in quanto non è la duplicazione della rappresentanza politica generale, ma è la rappresentanza delle istituzioni regionali e il luogo della loro responsabilizzazione e del loro coinvolgimento nella politica nazionale, e quindi, proprio per questa sua particolare struttura e composizione, diviene l’elemento di garanzia del carattere unitario e solidale del nuovo ordinamento federalista dello Stato.

Analogamente, risulterebbe coerente con questo disegno istituzionale una nuova composizione della Corte Costituzionale, che in quanto organo supremo di garanzia deve saper rappresentare la nuova pluralità istituzionale dello Stato federale, il che può essere agevolmente realizzato affidando alla seconda Camera, rappresentativa delle Regioni, la nomina di una determinata quota di membri della Corte.

Alla nuova legislatura, quindi, compete il completamento del nuovo disegno istituzionale ed essa assume pertanto, in questo senso, una funzione costituente. Non c’è bisogno di ricorrere allo strumento straordinario di una Assemblea Costituente. È questa un’ipotesi che viene periodicamente rilanciata, con una disinvolta interpretazione delle norme costituzionali, da parte di forze politiche o di singoli esponenti che pensano così di ottenere un risultato di immagine, in quanto più determinati e coraggiosi nell’azione di riforma dello Stato. Anche a sinistra sono spesso affiorate tentazioni di questo genere, con diverse motivazioni, e non è tuttora chiaro quale sia la posizione programmatica del centro-sinistra per le prossime elezioni. Resta una posizione di ambiguità che deve essere al più presto chiarita.

Un’Assemblea Costituente può essere solo il risultato di una rottura dell’ordinamento costituzionale, di un cambio traumatico di regime politico, e proprio per ciò questa ipotesi è del tutto inaccettabile, perché significherebbe la negazione del processo storico che si è compiuto con la fondazione della nuova Repubblica e che ha visto realizzarsi un punto alto di convergenza e di sintesi delle grandi tradizioni politiche e culturali dell’antifascismo. Una nuova Costituente rappresenterebbe per sé stessa, indipendentemente dai suoi possibili esiti, una rivincita storica del vecchio blocco reazionario, una riscrittura della storia d’Italia e un nuovo atto fondativo in cui si perde il significato costituente della lotta antifascista.

Certo, non ci sono oggi le condizioni per un ritorno al passato, e la destra attuale, per quanto possa essere attraversata da ambigue suggestioni autoritarie e populistiche, non rappresenta una diretta minaccia alle istituzioni democratiche. Ma sappiamo che nella vicenda politica sono essenziali gli elementi simbolici, nei quali si riassume il senso profondo di tutta una vicenda storica, e in questo senso una rottura costituzionale può aprire la strada ad ogni sorta di possibili avventure, facendo venir meno il tessuto connettivo, di ordine etico prima ancora che politico, che ha tenuto insieme la nostra storia nazionale del dopoguerra e che ha vincolato tutte le forze politiche ad agire, anche nel conflitto più aperto, dentro un preciso sistema democratico di regole e di garanzie.

La piena salvaguardia dell’impianto fondamentale della nostra Costituzione è una condizione essenziale anche ai fini di una riforma federalista che sia socialmente ed eticamente accettabile. L’autonomia territoriale, il riconoscimento e la valorizzazione delle differenze, non devono infatti intaccare i diritti fondamentali di una comune cittadinanza politica. Il federalismo deve essere inteso come un’articolazione degli strumenti di governo per ottenere migliori risultati in termini di efficienza, di aderenza ai diversi contesti sociali, di flessibilità organizzativa, di rapporto più diretto e più trasparente con le diverse domande sociali e territoriali, ma dentro un quadro comune e vincolante di principi e di diritti costituzionali. La cittadinanza resta unitaria, mentre si differenziano gli strumenti, le politiche, le soluzioni organizzative, le modalità di gestione. Gli Statuti regionali non sono quindi atti fondativi di una cittadinanza regionale. Non c’è una Costituzione del Veneto, come avventatamente dice il progetto di Cacciari, né ci può essere, nel rapporto tra Stato e Regioni, una logica di tipo contrattualistico, la quale suppone che solo la convenienza reciproca può tenere insieme in un ordinamento unitario i diversi territori, per cui, se viene meno questa convenienza, ritornano necessariamente in gioco ipotesi di separazione.

La questione della secessione, in realtà, non è stata ancora superata, ma è stata provvisoriamente accantonata, ammorbidita, per ragioni di prudenza tattica, ma resta potenzialmente aperta. C’è una secessione strisciante, la quale consiste in un’idea del federalismo come patto convenzionale e sempre revocabile tra le diverse comunità regionali. E l’accordo tra la destra e la Lega si regge esattamente su questo tipo di concezione.

Ora, l’approvazione della riforma costituzionale da parte del Parlamento ha il merito, oltre alle ragioni politiche di cui si è detto, di costringere tutto il nuovo processo di elaborazione degli Statuti regionali dentro una cornice costituzionale che fissa in modo preciso i confini dell’autonomia territoriale e definisce i rispettivi ambiti di competenza tra Stato centrale e Regioni. I pericoli di eversione e di separatismo strisciante sono dunque bloccati, almeno sul terreno dell’ordinamento giuridico, e anche questa è una ragione forte a sostegno della decisione di procedere comunque, anche con una maggioranza risicata, per evitare che si potesse determinare una situazione di totale arbitrarietà e ingovernabilità, aperta a tutti i possibili esiti imprevedibili di un conflitto istituzionale non regolato tra Stato e Regioni.

Nel merito della legge costituzionale approvata a fine legislatura, la CGIL, come risulta chiaramente dagli atti del convegno di Torino, ha espresso una riserva di fondo sull’inclusione, tra le materie della legislazione concorrente, della tutela e sicurezza del lavoro e della previdenza complementare. Abbiamo chiesto con forza una modificazione, una correzione, ma non ci sono state le condizioni politiche, o la volontà politica, per un intervento nella direzione da noi sollecitata. Questa richiesta era sicuramente ragionevole e fondata, perché se il federalismo riguarda le politiche e non i diritti, gli strumenti e non i valori, non si può rischiare una differenziazione territoriale nel campo del diritto del lavoro. Tuttavia, oggi dobbiamo agire nel quadro delle norme costituzionali vigenti, e ha poca utilità pratica una posizione di tipo recriminatorio. Tutto il problema della legislazione concorrente richiederà un attento approfondimento. Se in via di principio ha una sua razionalità il fatto che, su molte materie, ci debba essere una responsabilità congiunta della legislazione nazionale e di quella regionale, non essendo possibile un’attribuzione esclusiva all’uno o all’altro livello, in via di fatto può essere questo un nodo assai delicato e un possibile terreno di conflitto tra i diversi livelli istituzionali, proprio perché non c’è una linea di confine chiaramente tracciata, ma c’è un confine mobile che può dare luogo a diverse possibili interpretazioni. Questo rischio di conflitto diviene più acuto in assenza di una riforma del Parlamento nel senso prima indicato, in assenza cioè di un organismo di armonizzazione e di coordinamento, su scala nazionale, che sia capace di inserire la legislazione regionale in un quadro di regole e di principi condivisi. È questo sicuramente il possibile punto debole della riforma, e sarebbe stata preferibile una scelta più selettiva, riducendo al minimo necessario il ricorso alla legislazione concorrente. La quale, è bene notare, non rappresenta solo un rischio di invadenza delle Regioni nel campo dei diritti fondamentali, ma anche un rischio di ricentralizzazione, perché il Parlamento nazionale può essere portato ad una legislazione di dettaglio anche là dove dovrebbe limitarsi ai principi generali.

Occorre dunque saper valutare bene nel merito i problemi che si pongono, nei diversi campi. Per quanto riguarda il tema del lavoro, non è affatto scontato o inevitabile un esito di smantellamento dell’unitarietà del diritto del lavoro. È un rischio, che dovrà vederci impegnati in una battaglia politica e in una forte azione preventiva. E il rischio non è solo sul versante dell’autonomia regionale, ma anche sul versante della politica nazionale, perché, come è evidente, un’eventuale maggioranza di centro-destra può decidere di riaprire il conflitto sociale su questo terreno, riprendendo i temi e le proposte che erano al centro dei referendum di iniziativa radicale. A ben guardare, dunque, la stessa attribuzione esclusiva in capo allo Stato centrale non sarebbe una garanzia sufficiente, perché una diversa maggioranza politica può radicalmente rimettere in discussione tutto il sistema dei diritti. Sarebbe un errore, quindi, per il sindacato approcciarsi al federalismo, al nuovo equilibrio dei poteri, vedendone solo le possibili incognite negative, gli azzardi, chiedendo, sui vari temi di carattere sociale, una protezione tutta centralistica. Occorre agire nella nuova dimensione regionale, e attrezzarsi per poterla affrontare con efficacia, vedendo nel regionalismo una nuova possibile risorsa, l’occasione per la costruzione di una nuova dimensione statale, più attenta a interpretare e cogliere le diverse domande sociali. Ma questo significa, per tutta la strategia contrattuale e rivendicativa del sindacato, un netto cambiamento di marcia, che finora non è avvenuto, e anzi è stato osteggiato, pretendendo di mantenere un rigido controllo centrale sull’iniziativa politica delle strutture territoriali. Ora, questo modello centralistico non è più efficace, non risponde più alle domande reali di una società fortemente differenziata, e rischia di indebolirci gravemente, tagliando ci fuori dalla fase costitutiva delle nuove istituzioni regionali. Si può aprire la strada, se noi saremo latitanti, ad un federalismo senza partecipazione sociale, senza concertazione, senza dialogo tra politica e società.

Non ha nessun senso logico essere federalisti sul piano politico-istituzionale e non esserlo anche sul terreno delle relazioni sociali. La conseguenza di questa scissione è che le istituzioni non incontrano le forze sociali e le forze sociali non hanno peso nei nuovi equilibri istituzionali. Insomma, tra la dimensione nazionale e quella regionale c’è tutto un nuovo equilibrio da costruire, e il sindacato è necessariamente coinvolto in questo processo. Questa sarà la sfida per i prossimi anni. E questo dovrebbe essere un tema cruciale per la riflessione congressuale della CGIL. Il convegno di Torino, di cui vengono qui pubblicati gli atti più significativi, è una tappa importante, perché viene acquisito, dopo anni di riflessione, di confronto, e spesso anche di incertezze e di contrasti, un orientamento chiaro per un indirizzo di politica istituzionale che assume con nettezza il nuovo orizzonte del federalismo. Ma ora, fatto questo passo, sono tutti da valutare e da decidere i passi successivi, per chiarire che cosa deve essere il sindacato e come si deve articolare la sua iniziativa nel nuovo quadro costituzionale.


Numero progressivo: C58
Busta: 3
Estremi cronologici: [2001?]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Quaderni di Rassegna Sindacale“?, s.d.