LA RAPPRESENTANZA E IL CONFLITTO
Sindacati, partiti e movimenti nella crisi - Convegno DIGIUR SPI CGIL, Urbino 24-25 ottobre 2013
Relazione di Riccardo Terzi pubblicata su “Inchiesta”. Rispetto alla bozza (record D3) manca la Postilla scritta dopo il convegno
Parlare della rappresentanza vuol dire parlare di noi stessi, delle nostre contraddizioni e del nostro destino, e questo lavoro di auto-osservazione, si tratti di persone singole o di soggetti collettivi, è un’impresa ardua, perché dobbiamo liberarci delle tante rappresentazioni giustificatorie e consolatorie che ci tengono in vita, e dobbiamo conquistare la freddezza di uno sguardo oggettivo. In vista del prossimo Congresso della CGIL, mi sembra indispensabile questo lavoro preliminare di chiarificazione sulle condizioni attuali della rappresentanza, per capire il senso e la portata della crisi nella quale siamo tuttora immersi, e tutto l’intreccio complesso tra crisi istituzionale e crisi sociale.
È un problema non solo nostro, ma di tutte le grandi organizzazioni, che devono tutte riposizionarsi di fronte ai grandi mutamenti del nostro tempo contemporaneo, nel quale agisce in profondità un processo di corrosione di tutte le identità collettive e di tutte le istituzioni in cui quelle identità hanno preso forma. L’esempio più sorprendente e più avvincente è il nuovo corso della Chiesa cattolica, con Papa Francesco, dove tutto il tradizionale apparato dottrinario viene rimesso in discussione, non per rincorrere i miti della modernità, ma per riscoprire le origini del messaggio cristiano, con una critica durissima all’attuale dominio del denaro e alla perdita di dignità delle persone, nel lavoro e nella vita. La Chiesa tenta così di ricostruire una relazione con il vissuto concreto delle persone, con le loro domande e con le loro sofferenze, presentandosi non come la potenza che giudica, ma come la forza che accoglie. C’è dunque un investimento non sulla dottrina, ma sulle relazioni umane, non sui “valori non negoziabili”, ma sullo spirito di solidarietà che può tenere insieme un’umanità sofferente.
Anche la religione rientra in questo nostro discorso sulla rappresentanza, perché si tratta, nei diversi campi, di costruire una relazione, un rapporto di fiducia, un sistema di valori nel quale ci si riconosce. E questa relazione funziona fin quando c’è un movimento nelle due direzioni, dall’alto e dal basso, ed entra in crisi quando viene meno questa circolarità del processo. Ciò può avvenire da un lato o dall’altro, per un gesto di rottura del rappresentante o del rappresentato. E probabilmente, nella crisi attuale, ci sono entrambi questi movimenti. C’è una classe dirigente, debole e senza prestigio, che proprio per questo difende con tutti i mezzi il suo ruolo, la sua funzione di comando, nel nome del “primato” della politica, e c’è, sull’altro lato, una società civile sempre più insofferente e diffidente, che cerca di sottrarsi alle mediazioni della politica, alle sue procedure troppo complesse e tortuose.
Non credo che possiamo cavarcela, nell’interpretazione di questo processo, con le troppo facili categorie dell’antipolitica e del populismo, le quali a loro volta andrebbero specificate e interpretate. Quando un fenomeno esce fuori dai nostri parametri di valutazione, e si presenta perciò con i tratti inquietanti dell’irrazionalità, la prima istintiva nostra reazione è quella di un giudizio liquidatorio, senza compiere il necessario lavoro di analisi e di comprensione, deviati dalla falsa idea che comprendere vuol dire giustificare. E così ci si ferma all’invettiva, alla denuncia moralistica. E nel grande contenitore del populismo rientra, all’ingrosso, tutto ciò che suscita la nostra avversione o inquietudine: Berlusconi, la Lega, il movimento di Grillo. Antipolitica? O non sono piuttosto, ciascuna di esse, operazioni politiche che costruiscono nuove forme di appartenenza collettiva, nuove identità? L’impolitico, quando si solleva oltre l’immediatezza del sentimento e rende esplicite e argomentate le proprie ragioni, non è che una variante del politico. Prendiamo l’esempio delle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann, che sono in realtà uno straordinario e provocatorio manifesto a sostegno di una politica conservatrice e antidemocratica. Occorre dunque una percezione chiara di queste diverse manifestazioni dello spirito pubblico per intervenire nei loro punti di debolezza e nelle loro interne contraddizioni.
Tutto ciò può essere analizzato con il metro della rappresentanza come relazione. Se le relazioni primarie, in quanto concreto e reale tessuto connettivo della società, entrano in crisi, intervengono allora dei surrogati, delle mitologie, delle proiezioni simboliche, dando luogo a forme di identificazione passiva e subalterna. L’esempio più vistoso è quello dell’idolatria del capo, sul quale si proiettano tutte le nostre frustrazioni. Ma ciò avviene, nelle diverse tipologie politiche, lungo delle traiettorie specifiche, e non tutto è solo mito e apparenza, perché in qualche forma, più o meno densa e strutturata, si determina anche la costruzione di uno spazio collettivo. Quando abbiamo a che fare con fenomeni di massa, c’è sempre una miscela complessa di motivazioni, e non si tratta mai solo di manipolazione, di asservimento mediatico. Del tutto particolare è poi il caso del Movimento 5 Stelle, che ha la sua forza non nella passività, ma nel tentativo di costruire una nuova rete di relazioni, una rete virtuale, mediata dalla tecnologia informatica, che crea comunque uno spazio comune, aperto allo scambio intersoggettivo.
La linea di demarcazione tra il politico e l’impolitico non è affatto chiara, e forse c’è dove meno ce la immaginiamo, perché, a ben guardare, è proprio dall’interno delle organizzazioni politiche tradizionali che stanno prendendo forza processi di sradicamento, di svuotamento dell’identità, di individualizzazione, per cui è proprio in questo campo, là dove la politica continua a vantare il suo primato, che essa appare in una condizione di maggiore sofferenza. Le reti relazionali si sono del tutto sfilacciate e snervate, e il partito politico sopravvive a se stesso come una maschera che non riesce più a coprire il vuoto della sua vita reale, e quindi accade che alla democrazia fondata sulle rappresentanze subentra la politica come mercato, come competizione di potentati e di oligarchie, essendosi ormai spezzato il rapporto con la dinamica reale della società. Non c’è, dunque, una fortezza politica assediata dai populismi, ma c’è un processo corrosivo che investe tutte le forze politiche, nessuna esclusa, e per questo tutto l’edificio istituzionale si trova in un equilibrio precario. Fine dei partiti? Si può dire: fine di un ciclo politico, e situazione aperta, arrischiata, in cui agiscono insieme, e talora si sovrappongono, spinte democratiche e spinte eversive.
Proprio perché siamo nel mezzo di una “crisi di sistema”, non funziona più lo schema politologico per cui la strategia vincente sta nella capacità di occupare e di rappresentare il centro moderato, perché questo centro è in via di dissoluzione e tutta la situazione si è radicalizzata. E non funziona il tentativo di ricondurre tutta la dialettica politica dentro la formula rassicurante e semplificata del bipolarismo. La crisi non si lascia racchiudere in nessuno schema precostituito, e la stessa distinzione tra destra e sinistra si presenta in forme del tutto nuove, con un gioco di scavalcamenti e di trasformismi che rende tutto il quadro politico assai meno decifrabile.
La rappresentanza, abbiamo detto, è un sistema di relazioni. Ma molto dipende dal perimetro entro il quale la relazione viene costruita. Esistono relazioni strette, dirette, dove non c’è distanza tra il rappresentante e il rappresentato, ma c’è una comunanza di vita e di esperienza. Il caso più tipico di questa forma di rappresentanza è quello del delegato sindacale nel luogo di lavoro, scelto come il portavoce di un gruppo omogeneo al quale risponde quotidianamente di tutte le sue iniziative. È a questo modello che dovrebbe tendere ad avvicinarsi il più possibile la rappresentanza sociale, la quale può essere riconosciuta proprio in quanto non è separata, non è burocratizzata, ma è solo un’articolazione funzionale al servizio della causa comune. Ma questo rapporto di vicinanza non può più funzionare quando si tratta di agire su una scala più vasta, e questo problema si pone sia per il partito politico sia per le grandi organizzazioni sindacali. Come agire nei grandi spazi della politica nazionale, o sovranazionale, senza perdere il contatto vivente con le persone che vogliamo rappresentare? Il problema dello spazio è il grande nodo di tutta la costruzione politica moderna, del suo sempre più difficile equilibrio tra il locale e il globale.
Se guardiamo alla passata esperienza storica delle grandi organizzazioni del movimento operaio, possiamo dire che questo scarto dimensionale è stato risolto con le risorse dell’ideologia. La relazione funziona, anche a distanza, perché c’è un comune bagaglio ideologico che tiene insieme i diversi punti del movimento. La crisi si apre nel momento in cui si sfalda questa compattezza ideologica, e si fa sempre più problematico ricondurre a una visione di insieme tutta l’estrema variabilità degli interessi e delle passioni. Non è, necessariamente, la fine della rappresentanza, ma è la fine dell’appartenenza, o della militanza, di quella configurazione della politica modellata secondo uno schema di tipo militare, con le sue gerarchie e con i suoi vincoli di fedeltà e di obbedienza.
Dalla politica militarizzata si è passati alla politica-spettacolo, tutta giocata sul terreno mediatico, e alla militanza subentra il fanatismo delle tifoserie contrapposte, o il disincanto di chi non ne può più di questa grottesca messinscena. Il passaggio che, a questo punto, andrebbe compiuto è quello della costruzione di un spazio democratico aperto, dove ha voce il cittadino consapevole e informato, che prende posizione su tutti i temi in discussione, dove c’è ascolto, approfondimento, elaborazione collettiva. È la “mobilitazione cognitiva” di cui parla il documento di Fabrizio Barca. Ma per giungere a questo risultato occorre compiere una lunga e durissima azione di bonifica dell’attuale sistema politico, il quale produce, sistematicamente, passività e disaffezione, essendo tutto costruito intorno al delirio narcisistico dei suoi leader, reali o potenziali.
La democratizzazione, dunque, è la più efficace risposta alla crisi, in quanto promuove quella “cittadinanza attiva” che sta al centro della nostra Costituzione, su basi di eguaglianza e di pari dignità. Non si tratta solo di porre mano alle procedure decisionali, ma alla sostanza stessa del nostro ordinamento, intendendo la democrazia come il processo che incide su tutte le strutture di potere, politiche ed economiche, riportandole sotto il controllo della volontà popolare e mettendo in campo strumenti effettivi di partecipazione alle decisioni e di controllo dal basso sulla gestione. In questo senso, l’idea democratica ha in sé una forza ideologica, che può colmare il vuoto desolante dell’attuale dibattito politico. Non è solo un insieme di regole, ma è un programma di trasformazione sociale.
Nel discorso sulla rappresentanza è certo possibile e necessario distinguere tra la sfera politica e quella sociale, ma questa distinzione è sempre relativa, perché i due campi si influiscono reciprocamente, nel bene e nel male. Vale poco, a mio giudizio, la formula “a ciascuno il suo mestiere”, come se fosse possibile tracciare una netta linea divisoria tra il sociale e il politico, mentre è chiaro che tutto è intrecciato, che la politica non può essere socialmente neutra, né il sociale può essere indifferente agli esiti e ai conflitti della politica. Le due rappresentanze vivono della loro reciproca autonomia, ma stanno dentro un comune processo, e sono destinate ad affermarsi o a declinare insieme. Ciò appare del tutto chiaro nella situazione attuale, dove la fragilità della politica lascia anche le rappresentanze sociali in una condizione di indeterminatezza, oscillando tra le due opposte vie di fuga del corporativismo subalterno e della mobilitazione politicizzata, senza riuscire a presidiare il proprio specifico e autonomo campo di azione.
Venendo ora ai dilemmi che dovrà affrontare il sindacato nel prossimo futuro, il primo passo è sicuramente quello di affermare con più decisione la propria autonomia, potremmo anche dire, con una formula più forte, la propria alterità rispetto al sistema politico. Ma in cosa consiste questa alterità? Consiste nel fatto che il sindacato è lo strumento che è al servizio dell’autonomia del soggetto sociale, che dunque deve poter funzionare una rappresentanza diretta, ravvicinata, nella quale il baricentro, a differenza di quanto accade nel campo della politica, è decisamente spostato verso il basso, per cui rappresentare vuol dire accompagnare e sostenere il processo di auto-organizzazione dei lavoratori.
L’insidia, per il sindacato, non è tanto quella di subire un condizionamento partitico, ma è piuttosto quella di uno “slittamento nel politico”, per cui il suo modo di essere e di operare finisce per riprodurre le forme e le procedure della politica. E a me sembra che questo slittamento in gran parte si sia verificato. Struttura centralizzata, negoziazione di vertice, comunicazione per via televisiva, convegnistica, carriera interna tutta ascendente dalla periferia verso il centro, frequenti passaggi da ruoli sindacali a ruoli politici, impegno diretto nelle campagne elettorali, tutto ciò crea l’immagine di un sindacato che è parte del sistema politico, e lascia troppo scoperta la sua funzione di presidio democratico del territorio. Non è casuale che tutte le decisioni per una riforma organizzativa che sposti l’asse verso il territorio sono rimaste largamente inapplicate. E da troppo tempo manca uno sforzo di analisi delle trasformazioni del lavoro, dei nuovi sistemi di organizzazione dell’impresa, dell’impatto delle innovazioni tecnologiche, senza aver tentato di rimettere con i piedi per terra il grande tema della democrazia economica. Si produce così un effetto di spiazzamento e di perdita di efficacia, perché la macchina organizzativa funziona come salvaguardia dell’esistente, e non come promozione di una nuova sperimentazione, funziona come garanzia dell’unità interna, e delle relazioni di tipo gerarchico, non come spinta al rinnovamento.
È una situazione classica di impasse burocratica, dove il mezzo finisce per mettere in ombra il fine. Dovremo anche noi, come sta facendo la Chiesa, tornare alle origini, alla costruzione concreta di una rete di solidarietà, e fare un grande investimento sull’autonomia e sulla responsabilità delle persone, allargando tutti gli spazi di partecipazione, ed entrando in comunicazione con tutto ciò che sta fuori dal nostro perimetro organizzato. Questo può fare il sindacato, nella sua autonomia, con uno sforzo serio di autoriforma.
Ma tutto ciò non potrà essere sufficiente, se non si riesce a sbloccare il sistema politico. Dove sta il blocco? Sta nel fatto che tutta la politica è guidata solo dal tema della governabilità, della stabilità, della manutenzione tecnica del sistema. Ogni alternativa è esclusa, ogni conflitto deve essere neutralizzato, e tutto il pluralismo deve alla fine ricompattarsi nella grande palude dell’interesse nazionale, sotto la rigorosa sorveglianza del Presidente della Repubblica. Si è determinata così una vera e propria sospensione della democrazia, perché l’agenda politica è già scritta e si possono discutere solo i dettagli, ma anche questi con uno spirito di moderazione e di compromesso. La nuova legislatura si è aperta così, con un governo che è politico nella forma e tecnico nella sostanza.
È cambiato qualcosa con le ultime contorsioni parlamentari, con la crisi minacciata e poi rientrata? Si, il mutamento c’è, e sta nel fatto che una compagine governativa nata sotto il segno della provvisorietà e dell’emergenza ora si presenta come una stabile alleanza politica, e dunque i vincoli di questo regime tecnocratico si sono fatti ancora più stretti. C’è una sinistra che canta vittoria perché è stato sconfitto Berlusconi, e che ha l’avventatezza di parlare della fine di un’epoca, e non si accorge di essere ancora più intrappolata in un meccanismo che le toglie qualsiasi autonomia. E tutto ancora ruota, con un parossismo ormai patologico, intorno al destino personale di Berlusconi. Continua la drammatica illusione che Berlusconi sia l’unica palla al piede per l’Italia, senza vedere come si stia giocando in tutta Europa una decisiva partita politica, con una nuova forza aggressiva delle correnti conservatrici, con un attacco concentrico ai valori e alle istituzioni dell’Europa sociale. A questo attacco non c’è risposta, non c’è l’organizzazione di un conflitto politico e culturale che sia all’altezza della sfida.
Se questo è il quadro, le rappresentanze, sia politiche che sociali, non hanno aria per respirare, perché la rappresentanza si costituisce nel conflitto, nello scontro tra opzioni alternative, e questo è il cuore della democrazia. Il conflitto, a sua volta, può essere regolato, mediato, ma in prima istanza deve essere riconosciuto e legittimato come l’espressione di una diversità, di interessi, di valori, di progetti, che costituisce la trama profonda di una società plurale e complessa. La negazione del conflitto è lo svuotamento della democrazia, e si torna all’antica idea aristocratica che decidono gli esperti, i competenti, mettendo così finalmente sotto controllo le turbolenze e le emotività del popolo sovrano. Anche il linguaggio politico segna questo passaggio, in quanto alla legittimazione democratica del governo si sostituisce la neutralità della governance che è, come dice Carlo Galli, «l’addio alla trasparenza razionale della rappresentanza, è la politica opaca dei poteri forti». È su questo punto che occorre una rottura, una discontinuità, uno spostamento di tutto il dibattito politico corrente. Ed è con questa bussola che vanno valutate tutte le ipotesi di riforma istituzionale, se il loro obbiettivo è quello di rafforzare o di imbrigliare il tessuto della rappresentanza e della partecipazione.
C’è un popolo di sinistra, tramortito dalle sconfitte subite e disorientato sul suo possibile futuro, per il quale conta ormai solo l’ossessione di vincere, non importa come, nell’indifferenza totale per i contenuti programmatici. Ed è pronto a consegnarsi nelle mani di un leader carismatico che sappia promettere questa vittoria. Ma, con ciò, siamo ancora prigionieri dell’universo ideologico e simbolico di questa lunga stagione di svuotamento della politica, dove l’apparenza distrugge la sostanza. E la vittoria, pagata a questo prezzo, può essere non l’uscita dalla crisi, ma il suo punto culminante. C’è un possibile cammino alternativo? Io credo di sì, ma i tempi sono inevitabilmente lunghi, e il percorso tortuoso. Nell’opacità della politica, molto dipende da noi, dai soggetti sociali, dal dinamismo della società civile. Il cambiamento può venire da qui, da un movimento che nasce dal basso e riesce ad imporre una diversa agenda politica. Per questo, dobbiamo lavorare sulla nostra funzione di rappresentanza e renderla vitale, efficace, condivisa, in un rapporto con la vita reale delle perone e con le loro domande di identità.
E questo lavoro potrà essere produttivo solo se si supera ogni forma di prudenza e di sudditanza rispetto al sistema politico, se si assume, in tutta la sua pregnanza, il tema della crisi della democrazia. È nelle situazioni di crisi che bisogna avere il coraggio di percorrere nuove strade, e la rappresentanza può essere il detonatore che fa saltare gli equilibri paralizzanti dell’attuale sistema.
Busta: 4
Estremi cronologici: 2013, 24-25 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa pagina web
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: I record D3 e D3bis sono uguali, il primo però contiene una postilla
Pubblicazione: “Inchiesta”, ottobre-dicembre 2013. Ripubblicato in “Inchiesta” online, 30 aprile 2014