LA QUESTIONE SETTENTRIONALE E LA LEGA NORD

Analisi del Nord: territorio, identità, rappresentanza - Seminario SPI CGIL, Milano 23 marzo 2011

Relazione introduttiva di Riccardo Terzi – Segretario nazionale SPI CGIL

Parlare del Nord non vuol dire soltanto analizzare le concrete dinamiche che attraversano un determinato territorio, ma anche, necessariamente, misurarsi con una operazione politica che ha tentato di offrire al Nord una sorta di autorappresentazione ideologica, in un rapporto conflittuale col resto del Paese e con il centralismo statale. Entra così nel dibattito politico la «questione settentrionale», come questione di identità del Nord e come rivendicazione di autonomia, ricalcando tutti gli antichi stereotipi del Nord operoso e del Sud parassitario, per cui si tratta solo di dare via libera a questa operosità, al suo dinamismo, senza più essere frenati e appesantiti da tutti i vincoli di una legislazione e di una fiscalità opprimenti, e senza dover pagare un costoso quanto improduttivo tributo alla solidarietà nazionale.

Si è così rovesciata tutta una tradizione politica: non è il Mezzogiorno che paga il prezzo di uno sviluppo distorto e squilibrato, non è la disuguaglianza il grande tema nazionale, ma all’opposto è l’eccesso di uguaglianza, è un’unità nazionale tenuta in piedi forzosamente, a cui non corrisponde nulla di reale, perché ci sono diverse Italie, che hanno diversi ritmi, diverse culture, diversi modelli sociali. Possiamo anche trascurare le proclamazioni secessioniste, il mito della Padania indipendente, perché si può dire che questo apparato simbolico era solo uno strumento di agitazione propagandistica, e che nel corso del tempo si sono affermate posizioni più equilibrate, con il passaggio dalla secessione al federalismo. Ma, se guardiamo bene, l’idea di fondo è rimasta la stessa, perché non cambia la struttura concettuale, perché si continua a pensare che il Nord può costruire il suo futuro solo sulla base di una rottura di tutti i vincoli solidaristici, in una prospettiva che esclude il tema della coesione nazionale. Si tratta pur sempre di secessione: non politica, ma economica e sociale.

Il dubbio che può sorgere è se questa secessione non sia già nei fatti avvenuta, se questa operazione politica non abbia già raggiunto, nella sostanza, il suo obiettivo. Le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia potrebbero essere l’occasione per una verifica critica della nostra situazione nazionale, se non ci si ferma allo stadio della retorica patriottica. Bisognerebbe dire che il tema non è l’unità, ma l’unificazione, che tutta la nostra storia è un processo contrastato e accidentato di unificazione, di costruzione di una comune cittadinanza, superando via via le disparità economiche di partenza, i particolarismi, le chiusure culturali, le inefficienze di uno Stato burocratizzato che in molte situazioni non ha saputo rappresentare le diverse istanze sociali e territoriali. A questo lavoro di unificazione ha dato un grande impulso il movimento operaio organizzato, facendo uscire le grandi masse popolari dalla loro tradizionale passività e dalla loro diffidenza verso le istituzioni, ma è un compito tutt’altro che concluso, e anzi sembra oggi messo in crisi da varie tendenze centrifughe e da una nuova drammatica esplosione delle disuguaglianze.

L’obiettivo dell’unificazione vuol dire ricomporre le fratture sociali oggi esistenti: tra Nord e Sud, tra cittadini italiani e immigrati, tra garantiti e precari, tra rappresentanti e rappresentati, vuol dire cioè dare finalmente piena attuazione al nostro dettato costituzionale e al principio di eguaglianza su cui esso si regge. Ma questo lavoro dobbiamo saperlo svolgere nel vivo di uno scontro politico, perché il blocco di potere che si è affermato nel Nord agisce esplicitamente, e in modo consapevole, in una direzione del tutto contraria, e lavora quindi sull’idea di una società diseguale, perché, secondo i falsi principi di un liberismo estremizzato, sono le disuguaglianze il motore dello sviluppo.

Nel blocco di centrodestra convivono anime diverse, e anche diversi interessi sociali, ma c’è un comune humus culturale, il quale è dato appunto dall’adesione al modello di una società competitiva, dove ciascuno può affermarsi solo a scapito degli altri, dove l’identità si costruisce attraverso la negazione dell’altro. C’è quindi sempre bisogno di un nemico su cui scaricare le nostre frustrazioni, che può essere, di volta in volta, l’immigrato o la burocrazia statale, il Sud parassitario o i tecnocrati di Bruxelles, o il fantasma resuscitato del comunismo, e su questa base, su questa idea militarizzata della politica, è cresciuta una forma del tutto nuova di militanza, nuova perché per la prima volta lo spirito di intolleranza non viene tenuto sotto controllo, ma viene apertamente esibito come la propria bandiera. Si tratta quindi di un blocco politico che è per sua natura aggressivo, perché è nell’aggressività che sta la sua forza, nell’estremizzazione dei conflitti, nella divisione del mondo in amici e nemici. Nonostante le ricorrenti e spesso banali analisi politologiche, non è il centro moderato che guida la danza della politica, perché non è la moderazione il tratto distintivo della nostra epoca.

Il principale protagonista di questa operazione politica è sicuramente la Lega Nord, ma occorre vedere tutto l’intreccio che tiene unita la Lega al partito berlusconiano, in un rapporto che è insieme di competizione e di sovrapposizione, in quanto entrambi fanno leva sullo stesso sottofondo emotivo: impulsi egoistici, antipolitica, spirito di intolleranza e di rancore, voglia di affermazione e di rivincita con ogni mezzo, insofferenza per i vincoli della legalità. Non è molto realistica, quindi, una tattica politica che punti a fare esplodere le contraddizioni interne a questo blocco, perché esso è tenuto insieme da ragioni profonde. Il gioco tattico di lavorare sulle differenze è sempre possibile, ma non possiamo certo illuderci che sia sufficiente un’abile manovra tattica, perché anzi rischieremmo di restare noi stessi prigionieri di un gioco che ci è estraneo ed è lontano dai nostri valori di fondo. Questa tentazione di affidarsi a una tattica di tallonamento e di condizionamento torna periodicamente a riaffiorare, soprattutto nel rapporto con la Lega, in considerazione del suo radicamento popolare. Ma l’effetto è spesso il contrario di quello sperato, perché non è la Lega a essere scalfita nella sua identità e nella sua compattezza, ma è piuttosto l’opposizione che finisce per smarrire la sua ragion d’essere. L’impressione che viene allora data è che la differenziazione non verta sui principi ma solo sul modo, più o meno radicale di interpretarli. La Lega avrebbe solo la responsabilità di una radicalizzazione eccessiva, di una estremizzazione, mentre occorrerebbero posizioni più misurate e ragionevoli, ma il terreno di gioco resta il medesimo. Ora, questa idea di un “leghismo temperato” è del tutto fuori dalla realtà, perché ciò che deve essere messo in discussione non è la misura, il quanto, ma è la direzione di marcia.

Il fenomeno della Lega va preso estremamente sul serio, perché essa ha costruito una forte operazione politica e ideologica, ed è riuscita a tradurla in una pratica assai efficace di presenza nel territorio e di mobilitazione. All’inizio è apparsa a qualcuno come una meteora, come un episodio effimero di folklore locale. Ma ora è impressionante il fatto che si tratta ormai del partito di più antico insediamento, mentre tutti i partiti storici si sono dissolti e il loro processo di rinnovamento appare tutt’altro che assestato e stabilizzato. Nell’attuale panorama politico ancora incerto nei suoi contorni e nelle sue prospettive, la Lega è una forza che ha messo radici e ha occupato uno spazio via via crescente sia nella vita delle istituzioni sia nella coscienza collettiva. Non ce la caviamo con le furbizie, ma dobbiamo accettare il combattimento su tutti i terreni, da quello culturale a quello organizzativo. Toccherò solo tre punti, tra loro connessi: l’identità, la sicurezza, il territorio.

 

Con l’invenzione del mito della Padania, la Lega offre una risposta alla domanda di identità. E questa è una domanda complicata e inquietante, che attraversa tutte le nostre società più sviluppate, in cerca di un equilibrio e di un ancoraggio dopo il tramonto delle grandi identità ideologiche del passato. Non è un fenomeno solo italiano, ma c’è tutta una riscoperta di antiche radici etniche e culturali, che vengono mobilitate come forme di resistenza contro il mondo globalizzato. Le stesse radici cristiane dell’Europa vengono strumentalmente usate in questa chiave, ribaltando così quello che è stato il processo evolutivo della Chiesa cattolica, che a partire dal Concilio si è misurata con la modernità e con la cultura democratica. La religiosità viene così asservita a un calcolo di potere e diviene un rito pagano messo al servizio degli interessi terreni. La croce non è più il simbolo di una comune sofferenza umana, ma diviene un emblema politico, la bandiera di una nuova crociata contro tutto ciò che minaccia la sicurezza e l’arroganza della vecchia Europa.

L’operazione identitaria della Lega ci spinge indietro, verso l’idea della fortezza, della comunità chiusa, della difesa a oltranza di una tradizione contro tutto ciò che dall’esterno la può insidiare. È un operazione che può essere efficace sul piano del consenso, ma che non sa prospettare nessuna linea di sviluppo, perché ci condanna all’isolamento e alla difesa puramente simbolica di un mondo comunitario che è già tramontato. È un’identità morta, perché è tutta proiettata sul passato, su un passato idealizzato e mitizzato, e contiene in sé il rifiuto del pluralismo e del conflitto, secondo un modello autoritario. L’identità non consiste nel ripiegamento su una tradizione immaginaria, ma nella capacità di progettare il proprio futuro. Vale per la comunità ciò che vale anche per i singoli individui: la nostra vitalità sta nella capacità di connettere il passato al futuro, di non restare eternamente a guardare le nostre radici, ma di saperle mettere al servizio di un nuovo progetto.

E il nuovo progetto politico su cui scommettere è la costruzione di una democrazia nei grandi spazi della globalizzazione, a partire dalla grande impresa dell’Europa come soggetto politico unitario, come potenza che concorre alla definizione dei nuovi equilibri mondiali, obiettivo questo che si sta pericolosamente offuscando e che ha bisogno di essere rilanciato, con una forte mobilitazione democratica. Tornare all’Europa delle piccole patrie sarebbe per tutti una sconfitta drammatica, perché a quel punto non faremmo che sancire la nostra definitiva irrilevanza sul piano globale, di fronte alle nuove potenze emergenti e alla nuova gerarchia, politica ed economica, che si sta definendo. Dalla Cina al Nord Africa c’è un mondo in movimento, ed è a questo movimento che noi dobbiamo saperci rapportare.

Il Nord è l’area del Paese che può candidarsi a essere il ponte verso la nuova dimensione globale dell’economia e della politica, ed è proprio il Nord che più può essere penalizzato e bloccato da una logica di chiusura e di arroccamento. Anche per questa ragione, noi abbiamo perso posizioni nella competizione internazionale, con l’eccezione di qualche singola iniziativa imprenditoriale vincente, ma senza avere alle spalle una politica istituzionale capace di aprire nuove prospettive alla nostra economia. Alla domanda di identità dobbiamo quindi rispondere con una scommessa sul futuro, su una prospettiva di democrazia allargata, dove l’identità non sta solo in un punto, ma ha più dimensioni, quella locale, quella nazionale e quella europea, che tra loro devono sapersi integrare. E ciascuno di questi livelli deve vivere della più larga partecipazione democratica, portando a compimento il progetto della modernità, che ha il suo cardine nell’idea di uguaglianza e nei diritti universali.

La Lega, da questo punto di vista, con la sua ideologia guerresca, con l’arcaismo dei suoi simboli, rappresenta una sfida a tutto il pensiero moderno e alla sua razionalità democratica. È un passato che riaffiora, ma è anche il frutto di una modernità lacerata e incompiuta. Alla sfida si deve rispondere, senza cedimenti, e senza pensare che basti la forza delle argomentazioni, perché quando si forma un blocco ideologico, è solo la forza delle cose, dei fatti, dei processi reali, che lo può mettere in discussione. Ed è quindi sulla concretezza e sulla materialità delle condizioni reali che dobbiamo concentrare tutta la nostra attenzione. Un’ideologia entra in crisi solo nel momento in cui essa non riesce più a inquadrare la realtà, quando si apre uno scarto non più colmabile tra la realtà e la rappresentazione. Tutto il dibattito politico, in fondo, ruota intorno a questo: tra una rappresentazione mistificata, tra un’immagine dell’Italia tutta propagandistica, e la dura realtà della crisi che mette a nudo la fragilità del nostro sistema. Si tratta allora di svelare ciò che resta occultato, di fare un’operazione di verità, contro le false ideologie. Ma è un lavoro lungo e complicato, perché ciascuno tende a vedere solo ciò che vuole vedere.

Il secondo tema è quello della sicurezza. È un tema cruciale nell’elaborazione politica del centrodestra, e della Lega in particolare, perché esso è del tutto funzionale alla sua prospettiva. L’operazione è semplice: mobilitare le paure e le ansietà per poter dire che c’è bisogno di più autorità, di più repressione, di un potere che sia autorizzato a sacrificare le ragioni della libertà a quelle della sicurezza. E il capro espiatorio, in tutta questa retorica securitaria, è la realtà dell’immigrazione, che viene rappresentata come il fattore principale dell’illegalità e della delinquenza organizzata. Tutti i dati disponibili smentiscono questa tesi. Negli anni dello sviluppo dell’immigrazione non c’è stato nessun incremento della criminalità, ma al contrario una sua riduzione. La tesi non regge alla prova dei fatti, ma si sa che l’ideologia non ha bisogno dei fatti, ma li costruisce e li manipola a seconda delle sue esigenze.

Ma, soprattutto, occorre rovesciare il discorso della destra. Ai fini della sicurezza, occorre un maggiore impegno per una politica di integrazione e di inclusione, perché solo così si garantisce la coesione sociale e si spezza il circuito perverso dell’illegalità, la quale, come è noto, cresce là dove c’è emarginazione ed esclusione sociale. Una legislazione discriminatoria e persecutoria, come quella impostata dalla destra, non è solo inaccettabile in via di principio, in quanto lesiva dei diritti e della dignità delle persone, ma è del tutto controproducente proprio sotto il profilo della sicurezza, perché è il tenere gli immigrati ai margini della vita civile ciò che li può spingere nelle braccia delle organizzazioni criminali. Dobbiamo considerare come un processo storico necessario e non contenibile la trasformazione della nostra società in una realtà plurale, multietnica, multireligiosa, e si tratta allora di garantire una convivenza e un dialogo, mentre all’opposto chi alimenta la contrapposizione, lo scontro di civiltà, getta le basi per un conflitto che può divenire distruttivo.

Dobbiamo insistere, credo, sul tema dei diritti politici degli immigrati e sulla necessità di procedure semplificate per la cittadinanza, perché la democrazia, così come è concepita dalla nostra Costituzione, è un processo di inclusione e di universalizzazione dei diritti, e non possiamo accettare l’idea che il nostro benessere sia pagato da una classe servile, a cui sono negati tutti i diritti fondamentali. Ciò che è in gioco è quindi la qualità e la coerenza del nostro sistema democratico.

Questo tema sta diventando sempre più centrale nella politica della Lega. Una volta insediata nel governo nazionale, passano in secondo piano i motivi dell’antipolitica, dello scontro con «Roma ladrona», perché con i ladroni hanno imparato a convivere, ed è il motivo dell’intolleranza xenofoba che diviene il principale cavallo di battaglia della propaganda leghista. Sappiamo che questa campagna trova un terreno predisposto ad accoglierla, perché questi sentimenti di intolleranza stanno nelle nostre viscere, e sono soprattutto le forze sociali più deboli le più permeabili, sia per difetto di cultura, sia perché si trovano spesso a vivere nei quartieri più disgregati, a contatto quotidiano con i problemi di una difficile convivenza. Per questo, non basta la predicazione morale, non basta la retorica dell’accoglienza, ma occorre affrontare e risolvere i problemi reali che si pongono nelle situazioni concrete. E occorre, insieme, uno spirito di apertura, nella prospettiva di una società multiculturale, e una posizione molto netta di rifiuto e di repressione di tutti i fenomeni di illegalità. Sicurezza e integrazione stanno insieme, sono le due facce di un medesimo processo, e più riusciamo a tenere insieme questi due aspetti più togliamo spazio all’intolleranza che identifica nell’immigrato il nemico. È un tema complesso, così come è complessa e problematica l’idea di giustizia. Ciò che colpisce, nell’agenda politica del centrodestra, è la totale dissociazione tra una linea di durezza verso l’immigrazione clandestina, per cui la clandestinità diviene di per sé un reato, e dall’altro lato il furore garantista per tenere al riparo dalla giustizia tutti gli appartenenti all’oligarchia politica. Da un lato persone da allontanare, da escludere, indipendentemente dalla loro reale condotta di vita, dall’altro gli intoccabili che non ammettono nessuna interferenza nella loro vita privata e nei loro affari. Ho l’impressione che le idee di riforma della giustizia non tendano a sanare questa contraddizione, ma tendano piuttosto ad esasperarla.

 

Il terzo tema è il territorio, una parola magica che è entrata di prepotenza nel discorso politico corrente, ma che ha bisogno di essere interpretata, declinata, analizzata nelle sue concrete dinamiche. Il territorio non è altro che lo spazio in cui avvengono dei processi, è il luogo delle relazioni e dei conflitti. Stare nel territorio vuol dire occuparsi di questi processi e di queste relazioni. Il punto essenziale mi pare questo: che il territorio deve essere regolato attraverso una pratica complessa di concertazione tra i diversi soggetti, per fare sistema, per indirizzare i comportamenti dei diversi attori sociali e istituzionali verso obiettivi comuni e condivisi. Per fare questo, occorre che anzitutto i soggetti siano riconosciuti nella loro autonomia, e che si apra uno spazio pubblico nel quale sia possibile il confronto e la ricerca di una mediazione tra i diversi punti di vista. Qui c’è tutto il tema della negoziazione sociale, su cui da tempo sta lavorando lo SPI, in un confronto con i diversi livelli istituzionali. Il territorio è il luogo di questo lavoro, di questa ricerca.

Ma come stanno oggi le cose, che rilievo reale ha oggi la dimensione territoriale? Il problema può essere visto sotto due profili: quello istituzionale e quello sociale. Sul piano istituzionale, c’è una profonda contraddizione tra un federalismo sbandierato e una pratica reale di centralizzazione delle risorse e del potere. I governi a partecipazione leghista sono quelli che hanno progressivamente sottratto risorse al sistema degli Enti locali e hanno ricentralizzato tutto il governo della finanza pubblica. In fondo, l’idea è che l’area dello spreco è solo quella locale, e il federalismo finisce per essere pensato non come la valorizzazione dell’autonomia, ma come lo strumento per tenere sotto controllo l’azione degli Enti locali. Non è la Lega, ma è Tremonti il vero artefice di tutto il progetto. Anche Cisl e Uil si sono messe acriticamente in sintonia con questa logica: non abbiamo da chiedere nulla al Governo, ma solo agli Enti locali, perché sta qui il luogo del malgoverno e dello spreco. È un capovolgimento assurdo della realtà effettuale, e il risultato è che gli spazi per una politica territoriale si restringono, perché il federalismo, così come è stato impostato dall’attuale governo, è l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere. È un controllo più centralizzato e più rigido, e non si capisce che senso possa ancora avere parlare di federalismo. E allora la conclusione inevitabile sarà, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario, un generalizzato aumento della pressione fiscale, perché questo è l’unico strumento in mano ai poteri locali per coprire i costi dei servizi.

Qui si dimostra come la vera vocazione della Lega non è la riforma dello Stato, ma la sua occupazione, l’insediamento nei posti di comando, senza nulla cambiare nell’equilibrio dei poteri. L’emblema di questa strategia è il caso della scuola di Adro: ci mettiamo i nostri simboli, simboli di potere e di controllo, per poter esibire la nostra egemonia, per poter dire «padroni a casa nostra». L’idea del federalismo è l’idea di un potere diviso, differenziato, articolato, aperto alla partecipazione democratica. Non c’è nulla di tutto ciò nella politica attuale, perché l’alleanza di centrodestra si costituisce intorno a un modello autoritario e decisionista. Ciò che si sta predisponendo è una sorta di federalismo ‘aggiuntivo’, in quanto alla macchina dello Stato centralizzato, che resta così com’è, senza nessuna riforma amministrativa, si aggiungono le strutture del potere regionale e locale, con un progressivo appesantimento di tutto l’apparato burocratico e con una inevitabile progressione dei costi. E manca un ridisegno dell’architettura istituzionale: manca la riforma del Parlamento; manca una ridefinizione e una semplificazione dei diversi livelli istituzionali (Regioni, Province, Comuni, Città Metropolitane, Comunità montane, Circoscrizioni), e perciò il risultato è una duplicazione e sovrapposizione delle competenze, destinata ad aprire infiniti conflitti istituzionali. L’attesa degli effetti miracolistici del federalismo sarà presto smentita dai fatti. In questo senso, la posizione attuale della Lega ha alcuni punti di fragilità, che potrebbero aprire delle contraddizioni. Il prezzo pagato all’alleanza con Berlusconi è stato eccessivamente alto, e la linea di connivenza con tutti gli scandali del regime crea una situazione di disagio, soprattutto perché non è compensata da nessun risultato concreto. Tutto è finalizzato all’evento simbolico del federalismo, ma se questa operazione si sgonfia possono aprirsi nuovi scenari. La situazione politica potrebbe essere meno bloccata e meno chiusa di quanto non appaia.

Sul piano dei processi sociali, c’è una complessa evoluzione del sistema economico, con un graduale superamento del modello dei distretti, della centralità delle piccole imprese, verso un’economia più aperta, a più largo raggio, che agisce sulla scala internazionale e che ha il suo motore nelle imprese di media dimensione. Sotto questo profilo, il Nord viene unificato, perché stanno venendo meno le differenze storiche tra il triangolo industriale della grande impresa e il Nord Est del capitalismo molecolare. Il Nord è un sistema tendenzialmente unitario, che agisce nella competizione globale, e che ha bisogno di un supporto politico e istituzionale che riesca ad agire su questa dimensione, al di là delle troppo anguste protezioni localistiche. La frantumazione istituzionale è quindi un peso, un impaccio, e anche sotto questo profilo è evidente come il federalismo che si sta annunciando non saprà risolvere nessuno dei problemi strategici.

In questo scenario, diventa cruciale ragionare sul rapporto tra impresa e territorio. È un rapporto che rischia di saltare, perché l’impresa prescinde dal territorio e si proietta nello spazio globale. Quando il governo di centrodestra propone di modificare l’Articolo 41 della Costituzione interviene proprio su questo punto, con l’obiettivo di liberare tutta l’attività economica da ogni vincolo e da ogni responsabilità. È una spinta verso un modello che non tiene più insieme impresa e territorio, verso una lacerazione del nostro già fragile tessuto sociale. La vicenda Fiat è il caso più evidente di questa dinamica, perché non c’è più un’impresa che ha l’ambizione di essere il centro regolatore del territorio, il cuore produttivo di un sistema sociale, ma è il territorio che deve del tutto adeguarsi alle necessità di mercato, e subire passivamente le decisioni unilaterali dell’impresa, con la minaccia di trasferire altrove i suoi investimenti produttivi. Si è così riaperta la contraddizione tra capitalismo e democrazia, tra economia e politica, e gli effetti di questa rottura possono essere laceranti.

Il nostro compito non può che essere quello di ricomporre l’unitarietà del sistema sociale, attivando tutte le forme di concertazione territoriale, per individuare le convergenze possibili, le sinergie, le mediazioni tra tutti i diversi interessi in campo, in una logica di «sistema». È un lavoro complesso, e forse non l’abbiamo ancora affrontato con la dovuta determinazione, e con una adeguata capacità progettuale. Anche noi dobbiamo davvero investire di più sul territorio, il che vuol dire autonomia, trasferimento di poteri e di risorse, sperimentazione flessibile di nuovi modelli e nuove relazioni, vuol dire cioè un processo decisionale che non è più la trasmissione gerarchica di direttive che vengono dall’alto.

Di questa frattura tra lavoro e territorio è un indice significativo e allarmante il dualismo nel comportamento di molti lavoratori tra militanza sindacale e adesione alla Lega. Ciò vuol dire appunto che non si è costruita nessuna relazione organica tra impresa e società, e che noi stessi non siamo riusciti ad andare oltre al nostro compito tradizionale di tutela nel luogo di lavoro, senza offrire qualcosa di più, un’identità, un’idea di cittadinanza, una battaglia efficace per i diritti sociali. La negoziazione sociale è ancora, in larga misura, un terreno scoperto, e non può bastare il ruolo dello SPI se non c’è anche una generale mobilitazione di tutte le strutture della Cgil. Non è un invito a indebolire il presidio sindacale nei luoghi di lavoro, ma a tenere tra loro stretti, in un rapporto forte, i due lati del problema, a rappresentare il singolo lavoratore in tutta la complessità della sua condizione, come lavoratore e come cittadino, come «persona» che si trova a vivere una situazione complessiva di difficoltà, di dipendenza, possiamo anche dire, utilizzando un antico concetto filosofico, quello di «alienazione», nel senso che gli sono sottratti gli strumenti per gestire in autonomia la sua vita, ed è in balia di forze che sfuggono al suo controllo.

Nel lavoro tutte le potenzialità per un nuovo processo di liberazione, di valorizzazione dell’autonomia professionale, sono state sacrificate, accantonate, e si è puntato tutto sul ripristino dell’autorità, del comando, della gerarchia aziendale. Non abbiamo lavorato a sufficienza su questo nodo, non ci siamo misurati con le nuove tecnologie e con le nuove possibili forme di organizzazione del lavoro, e il lavoro oggi appare alla maggioranza delle persone solo un fatto strumentale, la condizione per poter disporre di un reddito, non il luogo di una identità, di una realizzazione di sé. E tutto ciò naturalmente viene sempre più esasperato quanto più prevalgono forme di lavoro precario, discontinuo, senza che sia possibile costruire nel lavoro un proprio progetto di vita. Del modello post-fordista abbiamo sperimentato quasi solo il lato negativo, non le potenzialità di un lavoro più creativo, che si sono aperte solo per un nucleo ristretto di figure ad alta professionalità. Ma, in ogni caso, la battaglia da condurre oggi per i diritti del lavoro va proiettata in questa nuova dimensione, guardando al lavoro per quello che è oggi, ai nuovi percorsi possibili di crescita professionale e di valorizzazione dell’autonomia delle persone nel processo produttivo. Non è, insomma, solo la prosecuzione di una storia passata, ma l’invenzione di nuove forme di tutela, nelle condizioni date. E indubbiamente la dimensione territoriale e aziendale è una leva necessaria per affrontare questo ordine di problemi.

I meccanismi di dipendenza si riproducono anche all’esterno del lavoro, dove non c’è una società strutturata secondo i bisogni delle persone, ma ci sono le strozzature di un potere che risponde ad altre logiche, in assenza di uno spazio democratico che sia davvero aperto alla partecipazione attiva di tutti i cittadini. Il tema della democratizzazione unisce quindi tutti i diversi aspetti della nostra vita, nell’impresa e nella società, nel lavoro e nel territorio. E c’è bisogno di un soggetto collettivo che scelga, coerentemente, il criterio della democrazia e della partecipazione come suo fondamentale criterio di azione, in tutti i campi, in tutti gli ambiti della sua iniziativa. Penso che la Cgil sia la più accreditata per questo tipo di funzione, che noi dobbiamo sentire questa responsabilità, l’impegno a essere lo strumento principale di una battaglia democratica, che attraversa tutto il corpo sociale e che ha moltissime implicazioni, proprio perché è tutta la struttura politica del Paese che ha bisogno di essere sbloccata, di essere rivitalizzata, facendo leva sulle risorse di una democrazia partecipata.

Naturalmente, non ci può essere in noi nessuna pretesa di autosufficienza. Penso, al contrario, che il grande problema irrisolto nella situazione dell’Italia sia quello del pluralismo sociale, dell’autonomia dei diversi soggetti, del ruolo dei corpi sociali intermedi. Nella politica entrano due fattori, tra loro in competizione: il principio della rappresentanza e il principio del potere, o della decisione. In tutti questi anni è avvenuta una progressiva estromissione della rappresentanza, per affermare un modello politico decisionista, dove il potere è concentrato in poche mani e le procedure della democrazia rappresentativa sono considerate come un’inutile perdita di tempo. Decisione, autorità, semplificazione: sono queste le parole d’ordine su cui la politica si è organizzata, senza che spesso fosse visibile una distinzione tra la destra e la sinistra. Il bipolarismo è il mito che sancisce questo processo. Tutto deve essere bipolarizzato, e non c’è più spazio per nessuna forma di autonomia. La politica bipolarizzata occupa tutto lo spazio del sociale. Sono impressionanti gli effetti di questa distorsione, nell’informazione, nell’associazionismo, nell’autonomia della Magistratura, e anche nel sindacato, che si sta pericolosamente avviando verso una struttura bipolare tra sindacato di governo e sindacato di opposizione.

Io credo che noi dovremmo scommettere sul principio di autonomia, e farne il cardine su cui costruire un diverso sistema politico. E proprio per questo dobbiamo essere estremamente attenti e rigorosi nel definire le nostre piattaforme, le nostre iniziative, i nostri obiettivi, su un terreno che sia esclusivamente sindacale, in un rapporto con la politica che è sempre, in ogni caso, un rapporto dialettico e conflittuale, perché diverso è il punto di osservazione. Se puntiamo sull’autonomia, puntiamo anche sulla valorizzazione di tutto il tessuto associativo, col quale possiamo stringere importanti rapporti di collaborazione. Puntiamo sull’idea di una società plurale, dove riprende senso e forza tutto il tema delle rappresentanze. Nel Nord, questo è un aspetto importante, perché è proprio nel vuoto delle rappresentanze che si affermano le ideologie plebiscitarie e populiste. Ricostruire la rete delle rappresentanze è il modo per contrastare le derive autoritarie che stanno minacciando la nostra democrazia.

Come dice un illustre giurista, Gustavo Zagrebelsky, la democrazia è sempre esposta al rischio di degenerare in un sistema oligarchico. In questo senso, la democrazia non è mai un punto di arrivo, ma è un processo che va continuamente riconquistato. La democrazia – possiamo dire così – è il movimento della democratizzazione, è il processo con cui di volta in volta cerchiamo di costruire nuovi più avanzati equilibri nella distribuzione del potere. In questo orizzonte, prende senso tutto il nostro impegno sindacale, nell’immediato e nella prospettiva, con lo sciopero generale, con il rilancio della contrattazione aziendale e sociale, con la battaglia sui diritti di cittadinanza, con la mobilitazione democratica. Il Nord è uno dei campi di battaglia, forse quello più insidioso e più impegnativo. Qui dobbiamo mettere in campo tutta la nostra forza organizzata e la nostra capacità di mobilitazione.

Ciò che conta è il radicamento, il rapporto effettivo e organizzato con le persone, con le comunità territoriali, e noi possiamo essere questo, una rete che sta nel territorio, una rete di relazioni, un presidio democratico continuo ed efficace. Già in parte lo SPI, con l’articolazione delle Leghe, svolge questa funzione. Ma dobbiamo sapere che non è un lavoro di routine, che non siamo solo una struttura di servizio, ma che c’è un combattimento, politico, culturale, sociale, un vero corpo a corpo con l’attuale blocco di potere, perché ciò che è in gioco è la qualità della nostra democrazia e della nostra convivenza civile. Dobbiamo quindi saper misurare le nostre forze, la nostra rete organizzativa, la nostra pratica di lavoro, alla luce degli obiettivi politici che ci sono imposti dall’attuale momento storico, senza restare impantanati nella routine, nella burocratizzazione, nella forza di inerzia di una organizzazione attenta solo a salvaguardare se stessa. Tutte le nostre strutture, a partire dalle Leghe, possono e devono essere dei centri di intelligenza politica, di iniziativa, di rapporto creativo col territorio. Evitiamo dunque qualsiasi retorica su noi stessi, qualsiasi forma di autocompiacimento, e apriamo tra di noi un esame critico severo, perché nulla ci sarà regalato e nulla ci sarà perdonato, e dipende solo da noi aprirci un varco verso il futuro.



Numero progressivo: D17
Busta: 4
Estremi cronologici: 2011, 23 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista e stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Bozza sostanzialmente identica al testo a stampa
Pubblicazione: Pubblicato in “Argomenti umani”, marzo 2011, col titolo “Parlare del Nord”, pp. 29-43. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 97-112