LA QUESTIONE GIOVANILE COME QUESTIONE POLITICA

Il rapporto tra generazioni: conflitto o progetto comune - Seminario della Consulta programmatica dello SPI CGIL, Roma 11 aprile 2012

Intervento di Riccardo Terzi come dirigente SPI

Il rapporto tra le generazioni è un elemento centrale nell’organizzazione di una società, e da esso dipende la sua interna coesione e la sua capacità di progresso civile. A che punto ci troviamo oggi, nelle nostre società più sviluppate, e quali sono le tendenze in atto nell’epoca della globalizzazione?

Sono evidenti, a me pare, i segni di uno scollamento, di una frattura, di un rapporto sempre più problematico, di una divaricazione che avviene anche sul terreno della rappresentazione simbolica e del linguaggio. Il mondo giovanile tende a costituirsi come una realtà separata, ripiegata su se stessa. In fondo, si potrebbe dire che questo è un fatto costante, fisiologico, perché ogni generazione deve trovare la sua via, la sua identità, e lo può fare solo in opposizione alle generazioni precedenti. È questa una dialettica della storia che eternamente si rinnova e si riproduce. Ma ogni volta prende forme e contenuti diversi, ed è a questa concretezza che dobbiamo dedicarci, per capire come si configura oggi il rapporto, quali sono le sue linee di tensione, i suoi conflitti, le sue possibili mediazioni. La storia non è l’eterno ritorno dell’eguale, ma ogni volta ci apre nuovi orizzonti e ci pone di fronte a nuove domande.

Non c’è un’unica risposta a questi interrogativi, ma c’è un’articolazione problematica assai complessa e diversificata, nella quale entrano in gioco molteplici fattori, economici, geopolitici, culturali. Ma forse è possibile rintracciare alcuni tratti comuni, alcune tendenze di fondo che percorrono le nostre società, andando oltre le particolarità dei singoli contesti nazionali.

Ma, in primo luogo, dobbiamo liberarci delle rappresentazioni politiche correnti, che sono del tutto povere, ripetitive e devianti. La tesi, come si sa, è che la nuova generazione è bloccata nelle sue possibilità di sviluppo dall’ingombro delle tutele e dei privilegi di cui godono le generazioni anziane, e quindi l’argomento del conflitto intergenerazionale viene usato del tutto strumentalmente, per mettere sotto accusa tutte le conquiste sociali del passato, per smantellare tutto il sistema dei diritti, per dire, in sostanza, che è l’ottusità egoistica degli anziani, e l’ottusità corporativa delle sinistre, l’unica causa delle precarie condizioni di vita e di lavoro dei giovani. C’è in proposito una vasta produzione giornalistica, che mette al centro della polemica il dualismo tra ipergarantiti e precari, tra insider e outsider, e tale dualismo si può far saltare solo eliminando le vecchie reti protettive. La ricetta è l’adozione per tutti di una logica strettamente liberista e di mercato, nell’illusione che l’abbassamento delle tutele dia corpo automaticamente ad una società più aperta e dinamica, nella quale si apre per tutti lo spazio per una libera competizione.

Si spiega così tutta la ricorrente e ossessiva disputa intorno all’articolo 18, che viene assunto come il simbolo di tutte le rigidità che bloccano la libertà di impresa e le possibilità di sviluppo. Siamo in presenza di una vera e propria “ideologia”, che pretende di spiegare tutto con un unico principio, con uno schema teorico astratto, il che è proprio di ogni forma di fondamentalismo. Qui il fondamento su cui si regge tutta la costruzione è la libertà del mercato, la sua sovrana capacità di regolare tutta la complessità sociale, di selezionare ciò che è meritevole da ciò che deve essere lasciato al suo destino, di affidare insomma tutta la nostra vicenda umana ad una libera e feroce competizione. Si dice fine delle ideologie, ma nella realtà alla razionalità critica subentra l’assolutezza del mito, il primato di una dottrina che non ammette alternative.

Non voglio ora entrare nella discussione politica corrente, ma mi sembra chiaro che tutta l’autorevolezza e il prestigio dell’attuale governo si regge su questo mito, su questa costruzione ideologica, che fa apparire le sue scelte come le uniche razionalmente fondate, e come insensate, di conseguenza, tutte le obiezioni che possono essere sollevate. Si determina così una democrazia sui generis, dove la decisione non è il risultato del dibattito pubblico, ma è già data in partenza. Ai filosofi della repubblica di Platone sono ora subentrati gli esperti.

In questo schema interpretativo, il futuro dei giovani è affidato ad un generale processo di liberalizzazione, di destrutturazione dello Stato sociale, in nome di una competizione finalmente liberata da tutti i vincoli che l’hanno fin qui inceppata. A ciò si accompagna tutta l’enfasi retorica sul “merito”, mettendo del tutto in ombra le esigenze di solidarietà, di inclusione sociale, di eguaglianza. In una società regolata solo dalla competizione, il merito è dei vincenti, e tutti gli altri sono abbandonati alla deriva. Le politiche sociali sono solo un correttivo a posteriori, un fatto residuale, un supplemento d’anima che serve a salvare le coscienze.

Noi rifiutiamo questa rappresentazione ideologica, che ha solo l’effetto di esasperare i conflitti, le fratture sociali, e di promuovere una ristretta élite tecnocratica, allargando in modo drammatico il fossato tra vincenti e perdenti. All’idea liberista che considera le diseguaglianze come un necessario fattore di sviluppo, di dinamismo del sistema, contrapponiamo l’idea di un sistema sociale in cui i diritti e le opportunità possano valere per tutti, in un quadro di coesione e di equilibrio.

Se dunque rifiutiamo, per queste ragioni, la grossolana contrapposizione tra giovani e anziani e il suo uso strumentale, non possiamo però scadere in una retorica di segno opposto, in una riaffermazione astratta dei valori di solidarietà, senza vedere dove stanno i punti reali di attrito e di contraddizione nel funzionamento della società e nel rapporto tra le generazioni. Al conflitto intergenerazionale cerchiamo di opporre le ragioni di una alleanza, di un progetto comune. Ma è questo un processo tutto da costruire, mettendo insieme faticosamente i pezzi di una nuova elaborazione programmatica. Lo scenario mondiale  ci presenta una situazione in rapida evoluzione, per l’esplosione di una serie di movimenti giovanili, in varie parti del mondo, che entrano in conflitto con le attuali strutture del potere politico ed economico, in forme più o meno radicali, più o meno strutturate, ma con una comune ispirazione di fondo, in quanto si tratta in ogni caso di riaprire per i giovani una prospettiva di progresso civile, di realizzazione, di libertà, contro la forza di inerzia di un sistema che li tiene ai margini della società.

È un fenomeno che va studiato nei suoi diversi aspetti e nella specificità delle diverse situazioni nazionali. E non è agevole prevedere quali saranno i possibili sviluppi, perché spesso nel mondo giovanile assistiamo a ondate di protesta e a successivi riflussi, con un movimento oscillatorio che non riesce a mettere radici e a produrre risultati politici. L’ultima grande esperienze politica giovanile è stata quella del ’68, e anch’essa meriterebbe, a questo punto, un bilancio storico e critico. Ci proponiamo di farlo in una prossima occasione, per vedere meglio i diversi risvolti di quel processo, di quel grande mutamento culturale, i suoi aspetti progressivi, di liberazione, ma anche il suo stare nella grande ondata dell’individualizzazione e della modernizzazione capitalistica, il suo sottofondo negativo e distruttivo, come aveva colto allora la voce isolata di Pier Paolo Pasolini.

E ora? Ora, senza avventurarci sul terreno scivoloso delle profezie, cerchiamo anzitutto di capire quello che sta accadendo, nei paesi più sviluppati e in quelli emergenti, là dove c’è una lunga tradizione democratica, e là dove devono ancora essere inventate le forme di una nuova democrazia. Qual è il dato saliente, la molla che fa scattare il processo, è il dato economico o quello politico, è la domanda di lavoro, di crescita, di reddito, o la domanda di libertà, di autonomia personale, di nuove relazioni civili? I due aspetti sicuramente convivono, in proporzioni diverse nelle diverse situazioni. Ma forse l’accento va posto sugli aspetti più strettamente politici, perché il principale bersaglio della protesta è innanzitutto la struttura del potere e la sua perenne vocazione autoritaria: non solo dove esistono regimi dispotici, ma anche dove la democrazia viene svuotata e il potere di decisione si è trasferito nelle grandi concentrazioni finanziarie. In tutti i casi, i giovani si sentono esclusi, costretti in una posizione marginale. C’è una generale insofferenza verso il potere, verso le sue strutture consolidate e ossificate, e c’è la domanda, spesso indeterminata, o velleitaria, o utopistica, di nuove relazioni sociali. È la politica che sta al centro del conflitto, non il rapporto tra le generazioni. La criticità sta nella distanza che si è determinata tra vita e politica, tra risorse umane e istituzionalizzazione del potere. Ed è una criticità che investe l’intero corpo sociale.

Questa politicità del problema giovanile è del tutto chiara anche nella nostra situazione italiana. L’attuale condizione giovanile è l’effetto di un generale mutamente di paradigma nell’organizzazione sociale. I giovani sono entrati, per primi, in un nuovo universo, in un nuovo sistema, dove la precarietà e l’incertezza sono la condizione strutturale, sono la regola, ma questo mutamento riguarda tendenzialmente tutti, e via via si sta allargando a tutte le generazioni. Oggi, ad esempio, la fascia generazionale più a rischio è quella degli ultracinquantenni, che si trovano schiacciati tra il lavoro che si perde e la pensione che si allontana. Il dualismo di garantiti e precari è in via di superamento, e tutti ci troviamo a convivere con l’incertezza. In parte, ciò è la conseguenza inevitabile della nuova economia globalizzata, ma soprattutto dipende da scelte politiche, che possono e devono essere messe in discussione. I sistemi di welfare sono stati pensati e costruiti come lo strumento di protezione dalle inevitabili incertezze della vita, come la risposta, dunque, ai contraccolpi dell’economia di mercato.

La logica vorrebbe che in una società più mobile, più soggetta alla variabilità del mercato, più esposta alle incognite, si rafforzino le politiche di welfare, in una logica di universalizzazione dei diritti. Ma proprio questo è il punto di scontro con il pensiero liberista dominante. A questo lavoro di ridefinizione del nostro sistema sociale sono interessati vitalmente sia i giovani che gli anziani. Si tratta di trovare per tutti, senza privilegi e senza rendite di posizione, un equilibrio tra flessibilità e sicurezza, tra rischio e protezione sociale. È questo equilibrio l’oggetto del difficile negoziato in corso con il governo, un negoziato del tutto anomalo, perché non si riconosce la rappresentatività dei soggetti sociali, se non come l’espressione di punti di vista parziali, corporativi, che devono sottomettersi alla superiore lungimiranza del Governo, l’unico abilitato ad esprimere l’interesse collettivo.

La politicità del problema giovanile coinvolge molti altri aspetti, allargandosi dal piano sociale a quello culturale: domande di libertà, cambiamenti negli stili di vita e nelle relazioni interpersonali, nuova soggettività, con uno spostamento del baricentro dalla dimensione collettiva a quella individuale. Tutto ciò incide molto sul tema del lavoro, di cui si rifiutano le rigidità gerarchiche, i vincoli, la ripetitività, per cercare un nuovo equilibrio tra vita e lavoro. È tutta una lunga tradizione storica che viene non rovesciata, ma problematizzata, perché il lavoro non è più il luogo privilegiato dell’identità, ma è uno dei luoghi in cui si articola l’esperienza di vita, un momento che resta importante, ma non più in una posizione dominante. E questo spiega anche il rapporto complesso e contraddittorio tra i giovani e il sindacato, che va affrontato, a me pare, con una capacità nuova del sindacato di presidiare non solo i luoghi di lavoro, ma l’intera organizzazione sociale, vedendo come l’autonomia della persona, la sua realizzazione, chiama in causa tutto l’insieme delle relazioni. Il sindacato può entrare in relazione con i giovani solo se ha una visione e una proposta che si allarga all’intera esperienza di vita.

Ci sono naturalmente, nella realtà, diverse tipologie umane ed esistenziali. C’è un’area di passività e di adattamento, e un’area di insofferenza, c’è un ‘area di inquietudine intellettuale, e c’è un’area in cui dominano ancora i bisogni primari. È sempre impossibile fare una generalizzazione. Possiamo però dire che tutti questi diversi fili possono trovare una loro sintesi in un progetto politico, che allo stato delle cose sembra essere assente. Il dramma del momento è che la domanda di politica non trova risposte adeguate. Si può tuttavia supporre che il protagonismo delle giovani generazioni, nonostante la sua discontinuità e le sue fragilità, non sia un’ondata momentanea, ma una tendenza di più forte radicamento, destinata a produrre nel tempo effetti politici duraturi.

Di fronte a ciò, tutte le forme tradizionali dell’organizzazione politica vengono sfidate e vengono messe alla prova. Stiamo attenti a non confondere gli umori primitivi dell’antipolitica con l’esigenza sacrosanta di una critica delle forme in cui oggi la politica si presenta.  Si tratta di capire perché la politica si è inceppata, e come può essere rimessa in movimento, per assolvere alla sua funzione di mediazione e di raccordo tra società e istituzioni. Qui si introduce tutto il problema della democrazia e della sua crisi, del suo svuotamento. La curvatura decisionista che è stata impressa a tutto l’assetto istituzionale ha prodotto un vuoto politico, una falla nel funzionamento della democrazia, e in questo vuoto si inseriscono le spinte autoritarie e populiste, che stanno intossicando tutto il quadro politico dell’Europa e che scommettono sul fallimento del progetto europeo, sul rifiuto di una prospettiva di estensione dei diritti in un quadro sovranazionale. Ma il progetto dell’Europa unita, che si fa soggetto e potenza politica nel quadro mondiale, può essere rilanciato solo se si porta a fondo la critica delle attuali istituzioni. La risorsa dei movimenti giovanili può allora rappresentare la spinta decisiva per riaprire, su nuove basi, tutto il discorso sull’Europa, sulla politica e sulla democrazia.

Noi ci troviamo tuttora in una società chiusa, bloccata, conservatrice. La condizione giovanile ha subito, in Italia soprattutto, un deciso peggioramento: aumento della disoccupazione, precarietà del lavoro, prospettiva previdenziale sempre più incerta e aleatoria. Un indicatore di questa situazione di disagio è il prolungamento della coabitazione con i genitori, che sposta sempre più in avanti la costruzione di un proprio autonomo progetto di vita, con la conseguenza di un vistoso calo della natalità, al Sud come al Nord, compensato solo in parte dal flusso migratorio. Si è quindi prodotto un “blocco”, una strozzatura, che può produrre distorsioni profonde nel percorso di vita e nelle prospettive di lavoro. Ciò colpisce al cuore la condizione giovanile, che viene privata del suo slancio, della sua energia innovativa, e che viene spinta verso un destino di passiva rassegnazione, o di cinico calcolo delle convenienze.

Per spezzare questo blocco non può bastare un programma di liberalizzazioni, ma occorre riformulare tutta l’agenda politica, affrontando i grandi nodi strutturali: sistema previdenziale, mercato del lavoro, politica scolastica, mercato delle abitazioni, credito per le iniziative imprenditoriali, sostegno allo sviluppo. È tutto il ciclo di vita che va riorganizzato, superando la classica tripartizione tra studio, lavoro e pensionamento. In particolare, in tutte le fasi della vita il momento della formazione diviene decisivo, e un nuovo modello sociale richiede in primo luogo un investimento straordinario sulla formazione e sulla cultura, non solo come condizione per la crescita economica, ma come l’indispensabile bagaglio su cui costruire la propria libertà personale.

È a questa nuova agenda che vogliamo contribuire, in un dialogo con le nuove generazioni, per dare vita ad un nuovo corso sociale, che riconosca il valore e l’autonomia della persona nelle diverse fasi della sua vita. Oggi possiamo chiarire i termini generali di questo confronto. Ma è solo l’inizio di un lavoro, al quale vogliamo dare la necessaria continuità, con un progressivo approfondimento di tutti i diversi aspetti del problema. È questa una scelta politica che ci sembra del tutto coerente e necessaria, per fare dello SPI non un segmento corporativo, ma un punto di forza del sindacalismo confederale.



Numero progressivo: D16
Busta: 4
Estremi cronologici: 2012, 11 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Si è scelto di collocarlo tra gli Scritti Sindacali per il contesto in cui è inserito, ma il contenuto del discorso è prevalentemente politico
Pubblicazione: Pubblicato in “Sidacalista per ambizione”, pp. 119-126