LA POLITICA CHE NON PIACE

di Riccardo Terzi

Prendo spunto dall’ultimo libro di Gianfranco Pasquino Mandato popolare e governo (Il Mulino Ed.) per esprimere alcune opinioni – nulla di più che personalissime opinioni! – sui problemi politici e istituzionali che sono oggi aperti.

Il libro è una buona guida per la discussione, e aiuta a sgombrare il campo dai pressapochismi e dalle mistificazioni dominanti, ovvero da quell’esercizio di banalità e di luoghi comuni dal quale siamo quotidianamente aggrediti.

Lo stato del dibattito politico appare oggi di profilo assai basso. La politica si presenta solo come manovra tattica che si consuma giorno per giorno, e non riesce a comunicare nulla che ci coinvolga nella nostra essenza di persone eticamente responsabili. E allora il discorso sulle istituzioni e sulle relative ipotesi di riforma finisce per essere un discorso monco e poco efficace se non si colma questo vuoto di motivazioni, questa assenza di ricerca intorno ai fini della politica, intorno al progetto di società.

Non credo, insomma, che oggi il problema sia solo quello di una razionalizzazione illuministica delle istituzioni, per rendere efficaci i canali diretti di comunicazione tra il cittadino e la politica. Non credo che sia in gioco solo una questione di tecniche, di procedure, di visibilità e di trasparenza delle decisioni.

Questo e un aspetto sicuramente importante, ma non è l’aspetto primario. L’aspetto sostanziale sul quale troppo poco ci si interroga è il senso della politica, il suo significato in rapporto alla vita delle persone e al destino della collettività.

Se manca la capacità di rispondere ai grandi temi del mondo moderno, se c’è solo, a destra come a sinistra, un gioco di potere fine a se stesso, senza lungimiranza sul futuro, allora è la qualità sostanziale del tessuto democratico che viene compromessa.

Questa premessa vale solo a dire che il discorso sulle istituzioni non è autosufficiente, non ha una dimensione solo tecnica. Ciò appare chiaro anche nell’analisi di Pasquino, che individua nel sistema politico, nella sua interna dinamica, l’elemento centrale e decisivo dal quale dipende l’evoluzione delle istituzioni democratiche.

Nessuna legge elettorale può essere da sola sufficiente a creare un modello nuovo e più avanzato di democrazia.

È quindi impropria l’enfasi retorica che ha accompagnato la recente riforma della legge elettorale, con la quale sarebbe avvenuto il passaggio storico alla “seconda repubblica”.

La legge elettorale ha dato quello che poteva dare, ha dinamizzato la situazione politica e ha messo in moto processi nuovi, in una prospettiva tendenzialmente bipolare, costringendo il sistema dei partiti a mettersi in discussione e a rinnovare le proprie strategie.

Ma dobbiamo prevedere un periodo non breve di assestamento, una evoluzione politica non rettilinea, un percorso accidentato e contraddittorio, aperto a diversi possibili esiti.

Se la direzione di marcia auspicata è quella dell’organizzazione di un sistema di tipo bipolare e di una democrazia dell’alternanza, si tratta di valutare realisticamente le possibili tappe di avvicinamento, e si tratta soprattutto di comprendere che questo processo dipende in ultima istanza dalle scelte e dalle strategie dei soggetti politici.

Il lavoro che ci sta davanti, un lavoro di grandissimo impegno e di grande complessità, è la riorganizzazione del sistema politico, la costruzione dei nuovi “soggetti”, delle nuove forme di vita democratica.

Pasquino parla di “democrazia maggioritaria”. È un termine che io preferirei non usare, perché si trova esposto a tutti gli equivoci di cui prima abbiamo detto circa il valore fondante e “costituente” della legge elettorale.

In tutti quei mesi, nel nome del “principio maggioritario”, si sono dette infinite sciocchezze e si sono tentati anche stravolgimenti gravi dell’equilibrio costituzionale.

Come dice giustamente Pasquino, “bisogna tradurre in pratica l’idea che governare significa decidere delle politiche pubbliche. Non significa dominare o distruggere le altre istituzioni e i controlli e i contrappesi che costituiscono la garanzia per l’opposizione, per i cittadini e persino per lo stesso governo che la democrazia, autocorreggendosi, continuerà”.

Il dissenso terminologico, dunque, non coinvolge la visione di fondo della vita democratica e delle sue interne garanzie. La prospettiva è un sistema politico istituzionale che favorisca l’alternanza, l’aggregazione di due poli alternativi, e che offra tutte le garanzie per una corretta ed efficace distribuzione dei poteri.

Ma vorrei ora approfondire il significato e le implicazioni di queste premesse generali, e in questo lavoro di approfondimento emergono non poche dissonanze con l’analisi e con le proposte del libro di Pasquino.

In primo luogo, il tema centrale – abbiamo – detto è la ristrutturazione del sistema politico, e le riforme istituzionali vanno valutate e calibrate nel loro possibile impatto con le dinamiche politiche concrete.

In questa fase di crisi dei partiti politici tradizionali, fino al limite della delegittimazione e della rivolta qualunquista, prende vistosamente corpo il rischio di una concezione “plebiscitaria” della vita democratica, senza corpi intermedi, senza soggetti politici, senza strumenti efficaci di mediazione e di organizzazione del consenso.

È allora decisivo chiarite quale modello di organizzazione della vita politica intendiamo proporre se pensiamo che debbano essere ricostruiti e rivitalizzati i luoghi della democrazia, della partecipazione consapevole, o se all’opposto abbiamo in mente un modello politico tutto centrato sulla figura del leader e sulle tecniche di comunicazione.

Tutto si risolve, in questo caso, nel rapporto tra offerta di leadership e cittadini utenti, e quindi viene meno il ruolo del partito politico, soppiantato dal mercato elettorale e dai comitati elettorali. È l’operazione realizzata da Berlusconi. Anche a sinistra ci si deve muovere in questa medesima direzione, e l’Ulivo deve essere una variante di “Forza Italia›? Io credo al contrario che la sinistra esiste solo in quanto sa offrire una diversa concezione e una diversa pratica della democrazia, e che altrimenti, chiunque vinca, passa nei fatti un modello di tipo autoritario.

Ecco perché vanno contrastate le spinte alla “personalizzazione della politica”.

“Burocrazie e oligarchie di partito contro la personalizzazione della politica: questa è stata la ricetta italiana”.

Ha un fondamento questo giudizio di Pasquino? Credo francamente di no, sia perché ridurre tutta la storia dei partiti politici in Italia ad una storia di burocrazie mi sembra un travisamento profondo di prospettiva, sia perché il modello leaderistico, che esalta gli elementi di personalizzazione, non ha affatto la conseguenza di riaprire gli spazi democratici ma riproduce forme oligarchiche ancora più chiuse ed esclusive.

La politica non è solo l’affidamento di un “mandato››: il popolo che sceglie il suo capo. Pasquino stesso dimostra quanto sia problematico il concetto di mandato, come sia impraticabile un rapporto lineare e diretto tra volontà degli elettori e azione di governo, per cui, nei fatti, gli elettori possono solo giudicare retrospettivamente.

Il rapporto diretto cittadini leader è sempre esposto alla manipolazione, alla distorsione, soprattutto nell’epoca dei grandi mezzi di informazione, che preconfezionano l’agenda dei problemi e delle domande. Alla fine riduciamo, per questa via, la democrazia alla tecnica del sondaggio. E non c’è “notiziabilità” che tenga. Questo davvero orrendo neologismo sembra indicare che l’unico problema è quello delle tecniche di comunicazione, in modo che il cittadino sia correttamente informato.

Ma il cittadino democratico è il cittadino che partecipa, che si impegna direttamente, che costruisce i luoghi e gli strumenti dell’autogoverno, che non si limita ad essere “informato” dentro un meccanismo di separazione tra politica e società, tra governanti e governati.

Nel momento in cui si criticano i partiti in quanto hanno presentato, nella loro fase involutiva, una barriera, una strozzatura burocratica, il problema è quello di rivitalizzare i canali della partecipazione. O ci dobbiamo arrendere alla politica spettacolo, e rassegnarci al fatto che ormai la partita politica è un terreno di caccia riservato per dieci quindici persone?

Il secondo tema da affrontare è quello che riguarda l’equilibrio dei poteri, per impedire la dittatura plebiscitaria della maggioranza. Ciò che va chiaramente rifiutato è un modello istituzionale che concentra in un unico punto il luogo delle decisioni. Ora, proprio di ciò si tratta oggi concretamente in Italia, e le ipotesi presidenzialiste che sono in campo, sostenute come il coronamento logico e necessario della riforma “maggioritaria” hanno esattamente questa ispirazione, questa esplicita propensione per una forma di totale concentrazione del potere.

È il presidenzialismo “all’italiana”, ultima e grottesca variante del pensiero costituzionale europeo. Mentre negli Stati Uniti, spesso citati a vanvera, e in forme diverse anche in Francia, c’è una rigorosa divisione dei poteri e una autonoma legittimazione democratica del presidente e del parlamento, i nostri riformatori immaginano, al contrario, un potere presidenziale che non ha nel parlamento il suo contrappeso, ma il suo supporto garantito e precostituito.

La legge elettorale maggioritaria assicura una maggioranza dei seggi parlamentari, e il parlamento finisce per avere solo la funzione di consegnare questa sua maggioranza garantita ad un governo automatico, che schiaccia le prerogative parlamentari. Se il parlamento osa sfiduciare il governo, esso viene automaticamente sciolto, perché il “mandato popolare” non può essere soggetto a condizionamenti e non può essere travisato.

A che serve allora questo parlamento, questa mera finzione, questa apparenza di democrazia che è intrinsecamente svuotata di ogni significato concreto?

Qui trovo, su questi temi, una seria incongruenza nel libro di Pasquino tra le premesse di principio e le proposte concrete di riforma. Viene a cadere, nonostante le affermazioni teoriche, qualsiasi considerazione dell’equilibrio e della divisione dei poteri.

Viene sostanzialmente rifiutata anche l’ipotesi di una riforma “federalista” dello stato, proprio in quanto essa “complica” il sistema decisionale e attiva nuovi soggetti, nuovi centri di governo.

«Un premier eletto dal popolo in un governo di legislatura deve poter portare a termine il suo mandato. In caso contrario, anche il parlamento che lo sfiducia deve essere sciolto, contestualmente e simultaneamente alla sostituzione del premier, visto che quel parlamento si è qualificato come il suo supporto politico, funzionale, operativo».

E ancora: «Un premier eletto direttamente dagli elettori deve poter contare su una maggioranza parlamentare solida e disciplinata».

Se vogliamo discutere il presidenzialismo, l’unico serio modello a cui fare riferimento è quello degli Stati Uniti, e il modello del “potere diviso”: presidente forte e parlamento autonomo e altrettanto forte.

L’idea di un parlamento “supporto operativo”, vincolato ad una rigida e precostituita disciplina a sostegno del leader, la considero una inaccettabile mostruosità costituzionale.

È strano: perché nel libro di Pasquino ci sono anche tutti gli argomenti per giungere ad una diversa ed opposta conclusione. C’è una rottura logica del discorso che mi riesce di difficile comprensione. Forse la sinistra è troppo ossessionata dal timore di apparire conservatrice. E il libro di Pasquino rientra in questo clima, risente di questa debolezza, per cui, pur vedendo i rischi, si decide di correrli tutti pur di non essere scavalcati dalla destra sul terreno delle riforme.

Dobbiamo, credo, rovesciare questa posizione, ed essere in grado, come schieramento progressista, di presentare una proposta rigorosa ed organica di politica costituzionale, attenta sia ai cambiamenti necessari sia alle posizioni di principio che debbono essere ribadite con forza.

Così sta facendo Prodi con il gruppo di esperti a cui ha affidato il lavoro programmatico.

Qualcuno già si sta agitando, e straparla di ritorno alla prima repubblica. L’importante è che su questi temi si faccia finalmente una seria discussione di massa, nel paese, senza farci strattonare da questo o da quel politico in cerca di notorietà, anzi di “notiziabilità”.

Ho letto l’articolo di Gianfranco Pasquino sul numero di settembre di Reset. Non mi chiarisce del tutto quale sia, alla fine, la proposta circa la forma di governo, ma c’è comunque una riflessione problematica interessante, che mette in guardia dalle semplificazioni del presidenzialismo. Il pericolo però, a mio giudizio, non è tanto il presidenzialismo in se stesso, ma qualunque sistema che determini la concentrazione delle decisioni politiche in un solo punto, il che può avvenire anche in un modello apparentemente parlamentare.

La conclusione dell’articolo («il paese ha bisogno di un po’ più di liberalismo e di un po’ meno di democrazia») non è molto rassicurante.


Numero progressivo: H69
Busta: 8
Estremi cronologici: 1995, dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Reset”, dicembre 1995, pp. 59-62