LA NOSTRA CAMPAGNA ELETTORALE

Tavola rotonda con:
Franco Ambrogio – vice responsabile della Sezione meridionale
Mario Del Monte – segretario della Federazione di Modena
Adalberto Minucci, della Segreteria
Luigi Petroselli – sindaco di Roma,
Giulio Quercini – segretario del Comitato regionale della Toscana
Riccardo Terzi – segretario della Federazione di Milano
A cura di Francesco Colonna e Sergio Laudati.

Minucci «Io partirei da quello che secondo me dovrebbe essere il tema centrale della campagna elettorale: quello del ruolo che assolvono e possono assolvere le Regioni e gli enti locali nella lotta per uscire dalla crisi italiana. Sono convinto che da alcuni anni si è avviata una sorta di rivoluzione silenziosa, che non sempre è avvertita neppure dal Partito: quel processo di riassetto dei poteri democratici che, nonostante tutti gli intralci frapposti, è destinato ad andare avanti. Proprio tenendo conto di questo elemento nuovo, quale può e deve essere la funzione, in questa fase, delle Regioni e degli enti locali nella battaglia complessiva di rinnovamento del Paese?»

 

Petroselli «Sono d’accordo con Minucci che gli anni trascorsi dal ‘75 ad oggi hanno visto svilupparsi un importante processo di riforma democratica dello Stato, con al centro le Regioni e gli enti locali.

Sarei meno ottimista di lui nel giudicare questo processo irreversibile. Al contrario, ritengo che il decreto sulla finanza locale che si sta discutendo in Parlamento ma non soltanto questo decreto testimonino una realtà che pone una questione politica: si deve andare avanti, o no, nel processo di riforma democratica dello Stato? Non dimentichiamo che andiamo a queste elezioni senza riforma della legge comunale e provinciale, mentre i Comuni acquistano funzioni e compiti nuovi e determinanti nella vita delle città e del Paese.

Si possono fare molte considerazioni. Sì può dire che ci sono elementi di resistenza neo-centralistica; che c’è una letteratura, spesso non molto fondata, sui difetti del decentramento; che ci sono certe spinte o illusioni tecnocratiche di Andreatta. C’è tutto questo, e c’è anche qualche debolezza ed una considerazione talvolta eccessiva di questi argomenti persino da parte del movimento operaio e di settori del nostro Partito. Al fondo io credo però che ci sia un fatto politico, legato agli orientamenti che prevalgono oggi nella Democrazia Cristiana, la quale ha un obiettivo chiaro: quello di attaccare apertamente, per bloccarla, l’esperienza fatta dalle Giunte di sinistra dopo il ‘75 in due terzi del Paese. Un’esperienza che non ha precedenti nella storia italiana e non ha analogie in nessuna parte del mondo, almeno in quello capitalistico.

Il punto non secondario della campagna elettorale è quindi quello di chiedere un voto che arresti questa marcia indietro e che renda le forze di sinistra pienamente protagoniste del ruolo che deve essere assegnato alle Regioni e ai Comuni proprio per uscire dalla crisi.»

 

Del Monte «La campagna elettorale avrà al suo centro molti temi di carattere generale: nazionale e internazionale, anche. Ma noi dovremo fare uno sforzo, senza evitare naturalmente questi temi generali, per porre con forza alcune questioni più direttamente legate alla politica istituzionale, alle quali non dobbiamo permettere alla Democrazia Cristiana di sfuggire, sulle quali dobbiamo essere all’attacco.

Il punto è questo: proprio sul terreno specifico delle Regioni e dei Comuni, dei loro poteri, che è il problema dello Stato, il processo positivo di decentramento che si è avuto in questi anni, e che ha consentito di far fronte in modo più adeguato ai bisogni dei cittadini, questo processo si è avuto in un periodo in cui i comunisti erano, se non al Governo, nella maggioranza. E proprio quando quella maggioranza si è rotta, e il Partito Comunista ha dovuto tornare all’opposizione, su questo problema specifico c’è stato un netto peggioramento.

C’è una tendenza a trasformare le Regioni, di fatto, in agenzie di spesa limitandone il ruolo e i poteri; c’è il decreto del Governo sulla finanza locale, la cui gravità, secondo me, non siamo riusciti a far comprendere bene. Pensiamo solo a questo: che la capacità di spesa dei Comuni viene adeguata, con il decreto, in misura inferiore ai livelli dell’inflazione, mentre alle Camere di commercio viene dato un aumento del 70 per cento delle entrate. Ma le Camere di commercio non sono, come i Comuni, elette dal popolo…

Sono perciò d’accordo con Petroselli: siamo di fronte a un ritorno indietro, a un attacco, che non possiamo non considerare grave, al nostro Partito e alla sinistra. Ma un attacco che è anche alla riforma democratica dello Stato. Si parla tanto di modifiche istituzionali. Ma la prima cosa da fare, a questo proposito, è proprio quella di dare attuazione completa al disegno costituzionale. E qui invece si gioca su due tavoli. Da una parte le Regioni guidate dai democristiani si rivelano incapaci di corrispondere al ruolo nuovo che esse dovrebbero esercitare, sono quelle che meno riescono a spendere. Dall’altra, proprio di qui si parte per cercare di mettere in discussione in generale l’istituto regionale, per tornare allo Stato centralistico.»

 

Quercini «Anche io ritengo che la campagna elettorale si terrà in un clima politico di attacco generale al sistema delle autonomie e alle conquiste che, sia sul piano istituzionale, sia sul piano delle realizzazioni concrete, il sistema delle autonomie ha garantito in questi anni, l’attuale Governo è nato sotto il segno dello sciagurato discorso anti-autonomistico di Cossiga a Viareggio. Ci auguriamo che muoia sotto il segno della sconfitta subita in Senato in seguito alla battaglia unitaria dei Comuni italiani sullo sciagurato provvedimento sulla finanza locale.

Io credo che vada sottolineato non solo il colpo politico che si vuol dare al fatto nuovo più rilevante di questi anni: la conquista da parte delle sinistre, nel ‘75, di una parte grande del governo locale in, Italia; ma la irresponsabilità generale rispetto agli interessi del Paese che questo attacco rivela. In questi anni abbiamo avuto nel sistema delle autonomie un punto di tenuta fondamentale rispetto alla crisi generale e rispetto alla cosiddetta crisi di governabilità del Paese. Se facciamo un bilancio degli anni ‘70 – e sono quelli in cui la crisi assume i termini nuovi che sappiamo – il dato che emerge maggiormente è la clamorosa incapacità di governo da parte delle tradizionali classi dirigenti. Si è dovuto passare per una forma anomala e innaturale, quale quella della maggioranza di solidarietà democratica, in cui noi abbiamo dovuto offrire una supplenza per riuscire a instaurare un minimo di stabilità e di punti di riferimento. In questa direzione i processi di sviluppo autonomistico, dalla nascita delle Regioni alla svolta del ‘75, sono stati essenziali – e questo punto, secondo me, va molto messo in rilievo – anche rispetto alle grandi questioni nazionali. Pensiamo solo cosa hanno rappresentato, di fronte agli attacchi del terrorismo, le case comunali, proprio come luogo fisico, oltre che politico, di raccolta della volontà democratica; e pensiamo al valore che hanno avuto anche gli interventi sociali, e quelli sull’economia, assicurati dalle Regioni e dagli enti locali.»

 

«Non abbiamo riflettuto abbastanza sulla portata della svolta del 15 Giugno 1975»

 

Minucci «Mi sembra che concordiamo tutti nel rilevare il ruolo svolto dalle Regioni e dagli enti locali di fronte alla crisi.

E giustamente Del Monte ricordava i progressi compiuti dal processo di sviluppo autonomistico grazie alla presenza dei comunisti nella maggioranza di governo.

Ma le potenzialità di questo processo – è un punto che mi sembra maggiormente da sottolineare – si sono espresse in modo particolare dopo il 15 giugno 1975. Momento in cui, secondo me, è avvenuta una svolta molto profonda, sulla cui portata non sempre noi stessi abbiamo riflettuto a sufficienza. In un, Paese che ha visto e vede attenuarsi la capacità delle vecchie classi dirigenti e dei vecchi gruppi amministrativi di affrontare i nodi della società italiana, con il 15 giugno ha cominciato ad evidenziarsi una nuova capacità di governo, rappresentata dalle nuove Giunte di sinistra. Questo è un dato centrale della situazione italiana che va valorizzato più di quanto si sia stati capaci di fare sinora.

Potremo soffermarci sui risultati concreti ottenuti dalle nuove Giunte di sinistra. Io vorrei indicare ora alcuni aspetti più generali di questa svolta del ‘75, in quanto ricambio di classi dirigenti. E partirei da quella che i matematici chiamerebbero una dimostrazione per contrario. Un dato mi ha colpito delle elezioni del 3 giugno: nelle grandi città del centro-nord il PCI ha subito una perdita sensibile di cui abbiamo giustamente individuato le cause negli effetti perversi della crisi generale ed anche i limiti ed errori della politica di unità nazionale. Tuttavia nelle città del centro-nord la perdita più clamorosa è della DC, che vede ridotta la sua forza elettorale ai minimi storici e, nonostante il nostro arretramento, vede aumentato il suo distacco dal PCI in quasi tutti i centri diretti dalle sinistre. Io credo che quando ci troviamo di fronte ad una DC che passa nelle grandi città del nord dal 35-40 per cento degli anni ‘50 e ‘60 a poco più del 20 per cento, abbiamo la sensazione che gran parte della popolazione non consideri più, in queste città, la DC come partito di governo, del governo locale. Tanto è vero che è difficile immaginare che essa riacquisti in queste città una funzione di partito di primo piano, capace di aggregare maggioranze, e così via. Lo stesso modo, astioso, provocatorio, di pura protesta corporativa, senza una proposta organica alternativa, con cui la DC, si è atteggiata nei confronti delle Giunte di sinistra mi pare che avvalori questo giudizio. Ed anche di qui ricaverei la conclusione che in queste città, nonostante la crisi, nonostante gli errori compiuti, nonostante gli elementi che abbiamo valutato anche autocriticamente, l’esperienza del triennio passato, la caratterizzazione del PCI come partito fondamentale per il governo delle istituzioni locali si è nettamente accresciuta.

Mi pare che il discorso valga sostanzialmente anche per il sud, per quanto vi siano lì evidentemente tutta una serie di problemi particolari. Ma forse sarà meglio parlarne a parte.»

 

Terzi «Vorrei richiamarmi anche io al significato della svolta che si è avuta con il risultato elettorale del 15 giugno: uno spostamento di grandi dimensioni nell’orientamento dell’opinione pubblica che è andato ben al di là della nostra influenza tradizionale, delle forze sociali direttamente collegate con l’azione del Partito, e che ha avuto proprio nelle grandi città il suo epicentro, interessando quindi quella stratificazione di ceti intermedi tipica dei grandi agglomerati urbani.

In quel movimento vi era in effetti una forte richiesta di ricambio della classe dirigente. Era giunto a un punto acuto di sfiducia il rapporto dei vecchi gruppi dirigenti con la realtà sociale e quindi vi era una richiesta di cambiamento che si è indirizzata prevalentemente verso il nostro Partito. A questa richiesta si accompagnavano due esigenze tra loro coordinate: da un lato una esigenza di maggiore democrazia, di un rapporto nuovo degli strumenti del potere locale con la realtà sociale; dall’altro una esigenza di maggiore efficienza e quindi il superamento dei guasti provocati dal sistema di potere proprio della democrazia cristiana che aveva portato a una sorta di paralisi. Mi pare che su entrambi questi versanti abbiamo ottenuto dei risultati, naturalmente perfettibili, ma che dobbiamo mettere in evidenza nella campagna elettorale.

Io vorrei porre però una domanda: la spinta che ha determinato la svolta del 15 giugno ha subito una interruzione, è rifluita, in questo periodo, o no?

Io credo di no. Innanzitutto perché – come ricordava Minucci – la Democrazia Cristiana non ha avuto la possibilità di un recupero della propria egemonia nelle grandi città (anzi, con le ultime elezioni politiche la sua influenza ha toccato un punto molto basso) e dimostra di annaspare, di rincorrere un po’ alla cieca una linea di opposizione, incoraggiando tendenze demagogiche e corporative di vario genere, ma senza un disegno politico che possa consentirle di ristabilire una propria immagine di forza di governo.

Ritengo quindi che quella spinta rimanga intatta, anche se nel corso di questi anni sono affiorati fenomeni di sfiducia, di incertezza. Forse siamo un po’ meno noi – noi comunisti – il punto di riferimento esclusivo della speranza di cambiamento; oggi il quadro è più articolato: hanno ripreso una certa forza formazioni politiche che sembravano essere in crisi, c’è il fenomeno radicale. Però nel complesso non c’è una spinta a tornare indietro, anche se rimane da giocare una partita su chi poi riesce meglio a guidare e interpretare questo processo di cambiamento. E su questo dobbiamo indubbiamente riflettere. Però a me pare importante avere chiaro questo punto: che vi è la possibilità di non tornare indietro, di consolidare il risultato del 15 giugno, di riaffermare il segno di cambiamento politico che il 15 giugno ha avuto. Dobbiamo giocare questa carta con grande sicurezza, con grande convinzione.»

 

Petroselli «Anch’io sono convinto che quella del ‘75 sia stata una svolta molto profonda, il cui valore emerge tanto più netto se la compariamo alla situazione che abbiamo ereditata; con la crisi delle città, la violenza, la droga; con l’effetto devastante del terrorismo e la prova a cui esso sottopone il tessuto sociale e civile e quindi, innanzitutto, gli enti locali; se la misuriamo anche con quello che è accaduto ai vertici del Paese. Proprio questo è un punto di riferimento rispetto al quale – come dice Minucci – per contrasto, possiamo mettere ancor più in evidenza gli elementi di svolta.

Io credo che abbia avuto un grande valore il fatto che noi, soprattutto in realtà, diciamo, meno compatte di quelle dell’Emilia, della Toscana, dell’Umbria e, per certi versi, della Liguria, abbiamo dato vita a Giunte di coalizione al di fuori di pregiudiziali ideologiche, anzi, rispettando le diversità esistenti tra le forze associate, che pure toccano in alcuni casi anche le prospettive politiche del Paese, oltre che orientamenti ideologici. Queste forze si sono ritrovate assieme sulla base di programmi che intendevano corrispondere a un moto della società, quale quello che ha contrassegnato l’Italia negli anni ‘75-’76. Ma si sono ritrovate anche attorno a grandi valori comuni, ai quali io credo che debba essere data importanza: la costruzione di una società diversa nella democrazia, nella libertà; lo sviluppo dell’esperienza municipale del movimento operaio italiano; l’esigenza della programmazione.»

 

«Abbiamo creato le condizioni per liquidare ogni integralismo»

 

E nuovi valori sono stati espressi, del resto, anche nella nostra azione di governo di queste Giunte. Basti pensare al fatto che esse sono intervenute in campi dove nel passato non si interveniva, perché ciò non corrispondeva ai disegni e agli interessi dei ceti dominanti delle città. Basti ricordare il peso nuovo che è stato dato a problemi come quelli del verde o della scuola (Roma, che nel 1810 non era nata ancora come capitale d’Italia, aveva già i tripli turni; noi andiamo all’abolizione dei doppi turni, verso il tempo pieno); o l’importanza che è stata riconosciuta alla parte più indifesa e più debole delle città, agli anziani, agli handicappati, alle donne, ai giovani. E non continuo.

Questo modo di concepire ed attuare il governo locale, che è diverso dal passato, che dissolve le pregiudiziali ideologiche, ha finito per avere un riflesso anche sulle altre forze. Voglio dire una cosa che forse può scandalizzare qualcuno. Noi governiamo la Regione Lazio e il Comune di Roma insieme ai socialdemocratici e con l’appoggio esterno dei repubblicani. Io credo che la contraddizione evidente che vi è stata, ad esempio, nel congresso socialdemocratico, fra la linea nazionale di cieco anticomunismo e la difesa delle Giunte di sinistra, non nasca soltanto da una scelta opportunistica di potere, ma esprima anche qualcosa di diverso. Deriva anche dal fatto che l’esperienza di rapporti fondati su una base davvero di pari dignità e responsabilità, non condizionati da altre ipoteche al di fuori del programma da realizzare, alla fine produce degli effetti.

Detto nei termini più semplici, anche i nostri alleati si sono accorti di quanto i comunisti siano diversi dalla Democrazia Cristiana. Questo è un fatto non secondario, che da solo non basta, probabilmente, a garantire l’avvenire, e tuttavia ha un grande valore. E in generale questo tipo, questo modo di formare le Giunte, di stabilire i rapporti, ha segnato anche una espansione della democrazia, un arricchimento della dialettica democratica che non ha precedenti.

In altri termini, credo si possa dire che, liquidando l’integralismo democristiano, abbiamo creato le condizioni perché nessun altro integralismo possa ormai prevalere nel governo dei grandi enti locali; ed è questa un’operazione democratica, duratura e di grande valore.»

 

Quercini «Io credo che uno degli aspetti da valorizzare con grande forza nell’esperienza delle maggioranze di sinistra debba essere quello della loro stabilità. Non solo per mettere in rilievo il legame evidente tra questa stabilità e le mani pulite, cioè la trasparenza del nostro modo di governare. Ma soprattutto per mettere in rilievo che questa stabilità è stata possibile – sia in realtà come l’Emilia e la Toscana, dove abbiamo alle spalle un rapporto consolidato tra le forze di sinistra, sia in realtà come Roma o il Lazio o Napoli, dove governiamo con forze più lontane da quelle tradizionali di sinistra perché ha al fondo un elemento: le, Giunte di sinistra hanno governato non sulla base di una mediazione statica fra gli interessi esistenti nella società, ma sulla base di una visione di programma. Quindi il dibattito ed anche i contrasti all’interno delle maggioranze di sinistra si sono realizzati su questo terreno, per cui si è potuto finalizzarli alla soluzione migliore dei problemi aperti, senza giungere ad una rottura.

Certo, rispetto a queste considerazioni c’è un punto: all’inizio degli anni ‘70, alla nascita delle Regioni, anche nel nostro Partito è venuta avanti quella che oggi possiamo definire un’illusione, anche se generosa: che il fronte autonomista e regionali sta fosse tutto e per definizione un fronte rinnovatore. Su questa ipotesi abbiamo lavorato molto, soprattutto nel Mezzogiorno; sull’ipotesi che il nuovo momento regionalista e lo sviluppo del complesso del governo locale sarebbero stati un terreno che avrebbe favorito un ricambio, un rinnovamento delle classi dirigenti, della stessa Democrazia Cristiana. È un’ipotesi su cui abbiamo scommesso qualcosa della nostra politica. Ora, se noi guardiamo al bilancio di questi anni, vediamo che il ricambio di classi dirigenti vi è stato in larga misura solo dove si è avuto un ricambio di maggioranza, cioè dove le sinistre sono andate al governo. E lì la Democrazia Cristiana non è riuscita ad elevare la propria capacità di fare politica, sia pure dall’opposizione, sia pure in condizioni di minoranza.

 

La DC si è rivelata incapace di fare un’opposizione “di governo”

 

L’esperienza della Toscana da questo punto di vista è chiarissima: la DC ha compiuto all’inizio di questa legislatura qualche timido passo in direzione di una più corretta collocazione istituzionale e programmatica. Ma al momento delle scelte reali si è tirata indietro ed ha teso a ridurre ogni rapporto con la maggioranza ad una trattativa defatigante con il solo scopo di difendere alcuni interessi del proprio retroterra sociale e culturale, la mancanza di una visione generale della società si è tradotta in una disarticolazione dei comportamenti democristiani, ed ha prevalso conclusivamente un’idea di rivincita, la contrapposizione frontale, l’opposizione pregiudiziale sterile. Mi pare che un discorso analogo valga per tutto il centro-nord. Né vi è stato attorno al governo locale un ricambio ed un elevamento del quadro dirigente nel Mezzogiorno, dove la DC è forza di maggioranza. È la realtà. Ma io credo che prima di porsi la domanda se questa ipotesi cade, dobbiamo intanto dire: questo è un bilancio che abbiamo alle spalle, ed è un bilancio di incapacità dimostrata dalla Democrazia Cristiana di utilizzare la sollecitazione che ad essa veniva dai nuovi strumenti di articolazione e di riforma dello Stato per elevare la qualità della sua presenza politica, per liberarsi dalle pastoie tradizionali del clientelismo, della adesione puramente corporativa ai differenti strati sociali, e così via.»

 

Del Monte «Per quanto riguarda la Democrazia Cristiana, noi abbiamo avuto una esperienza significativa. Da noi la Democrazia Cristiana aveva una maggioranza di sinistra – di «area Zaccagnini», diciamo – che all’inizio affermava di volersi atteggiare in modo positivo nei confronti della Regione e della programmazione, di voler tallonare i comunisti sul terreno della programmazione. Ma quando si è andati, dopo un paio di anni di discussioni e confronti, a definire il piano di sviluppo dell’Emilia Romagna, si è andati alle prime misure di coordinamento della spesa pubblica e dei piani settoriali, la Democrazia Cristiana non ha retto a questo confronto; al momento di scegliere si è ritirata dalla programmazione, ha fatto marcia indietro. E non si è trattato soltanto, diciamo, della destra; anche «l’area zaccagniniana» non ha retto al confronto, perché ad un certo punto la messa in discussione di un sistema di potere, che c’è pure in Emilia Romagna, ha comportato uno sconvolgimento all’interno del partito. Siamo ora in una situazione nella quale non solo in Regione, ma anche nelle diverse province, la Democrazia Cristiana si oppone, ma senza un disegno strategico, e rivelando un vuoto di prospettive. Alla domanda «quale Emilia Romagna vuole la Democrazia Cristiana», quali sono le priorità che sceglie, dove vuole andare, non sa dare risposta. Le manca un disegno. Ma questo indebolisce anche i suoi legami con le categorie sociali. Perché in una società così fortemente organizzata come la nostra, le singole categorie hanno interessi particolari, ma poi sono anche interessate ad avere un disegno generale, mancando il quale non si riesce ad andare al di là di un rapporto che è e continua a rimanere molto clientelare, non «di governo».

 

Minucci «Dato che Quercini ne ha fatto cenno, io svilupperei a questo punto il discorso sul Meridione, che ci eravamo riservati di approfondire. Nel Sud, infatti, la Democrazia Cristiana non ha perso, il 3 giugno, ma ha anzi recuperato le perdite del centro nord. E grazie al Sud ha potuto mantenere a livello nazionale la percentuale che aveva. Ma si può dire che in queste regioni meridionali il recupero della DC sia legato a una sua ripresa come partito di governo? lo credo di no. Prendiamo il caso più evidente: quello di Reggio Calabria, dove la DC ha toccato il massimo storico dei suoi voti, raggiungendo il 3 giugno il 47 per cento. Se si parte dal colpo che la DC ha ricevuto dai moti di Reggio dei primi anni ‘70, ci si chiede: come ha fatto a recuperare?

In realtà in Calabria non c’è stata nessuna nuova manifestazione di capacità di governo della DC. I grandi problemi che questa regione ha avuto e ha di fronte non sono stati affrontati; anzi il governo democristiano si è fatto beffa di certe attese e persino di certe promesse (basta pensare al centro siderurgico di Gioia Tauro). Non c’è stato nessuno sviluppo di nuovi processi economici – industrializzazione, ristrutturazione dell’agricoltura – in grado di determinare un allargamento della base produttiva in una regione con un tasso di disoccupazione molto alto. Non solo, ma anche nel campo dell’amministrazione locale e regionale, la Calabria è la Regione per certi aspetti più malmessa: insieme alla Sicilia e alla Campania ha il più alto volume di residui passivi, e non è stato fatto quasi niente per i servizi – consultori, asili nido – connessi alla legislazione nazionale. I confronti fra la Calabria e, non dico l’Emilia, ma il Piemonte, la Liguria, ecc., sono confronti rovinosi per gli amministratori calabresi.

 

Denunciare con forza le responsabilità dei dirigenti locali DC nel Mezzogiorno

 

E allora come ha fatto la DC a recuperare? Ha potuto recuperare perché in questi dieci anni ha usato anche lo strumento della Regione come canale clientelare, cioè ai vecchi canali statali ne ha aggiunto un nuovo, quello regionale. E ha approfittato, sul piano degli umori sociali e delle correnti di opinione, della disgregazione, della mancanza di prospettive e di speranze di un’intera regione, per cogliere il frutto dell’unica cosa che poi era in grado di fornire: l’assistenza clientelare. Cosicché la Calabria ha oggi problemi più gravi di prima, tanto è vero che anche recentemente c’è stata una drammatica protesta qui a Roma. Ma la DC, nonostante questo, è riuscita a mantenere.

Io credo che a noi è mancata, in tutta questa fase, una più forte denuncia delle responsabilità dei gruppi dirigenti locali delia Democrazia Cristiana. Talvolta presi anche da esigenze reali, abbiamo dato luogo a schieramenti unitari per la Calabria, o per altre zone del Mezzogiorno, e siamo venuti a Roma per protestare tutti assieme. Ma a me sembra che i gruppi di potere locali, gli amministratori dei Comuni e delle Regioni meridionali abbiano avuto talvolta responsabilità anche maggiori di quelle dei Governi centrali, soprattutto nel mortificare le energie meridionali. Forse abbiamo subito, un po’ troppo il loro tentativo di coprire queste responsabilità alternando atteggiamenti di ribellismo antistatalista a toni di vittimismo piagnone contro un «Nord» prevaricatore. Si tratta invece, secondo me, di porre fine a questo circolo vizioso, di spezzare questa logica, dando spazio nella polemica a una denuncia, molto vigorosa, di questi gruppi dirigenti locali.

Anche al Sud, dunque, mi sembra che si manifesti una analoga incapacità a governare della DC, e una sua tendenza a puntare tutte le carte su una gestione clientelare dell’assistenzialismo e su un uso sfrenato delle istituzioni locali in questo senso. Il confronto può dunque articolarsi, Regione per Regione, Comune per Comune, e deve mantenere, al nord e al sud, questi due piani diversi di giudizio, ma può chiamare in causa la DC e la sua capacità di governo locale in tutta Italia.»

 

Ambrogio «Sulle diversità degli sviluppi politici fra nord e sud, dopo l’avanzata del ‘75 e del ‘76, ci siamo soffermati molto nel dibattito sui risultati del 3 giugno. La risposta mi pare sia questa. Dal voto del 15 e del 20 giugno era emersa una spinta al cambiamento degli indirizzi nazionali, politici ed economici, verso il Mezzogiorno, e una spinta al ricambio delle classi dirigenti del Mezzogiorno. Ma sotto entrambi questi aspetti il bilancio è senza dubbio deficitario. E di qui nasce un certo riflusso della spinta al cambiamento. Ceti sociali che avevano teso distaccarsi dal vecchio sistema clientelare, che avevano subito la forza di una spinta al cambiamento, credendo nella sua possibilità, tendono a tirarsi indietro.

Ma perché una linea di cambiamento non è passata? Anch’io credo che dobbiamo concentrare l’attenzione su un elemento che probabilmente non abbiamo visto sufficientemente, cioè la resistenza che si è avuta, all’interno del Mezzogiorno, da parte delle classi dirigenti, della Democrazia Cristiana.

 

La DC ha offuscato nel Mezzogiorno l’idea della Regione

 

Questo dato non possiamo contrapporlo alle responsabilità dei ceti dominanti nazionali, perché faremmo un favore proprio a coloro i quali tendono a presentarsi in maniera tradizionale, ribellistica, nel Mezzogiorno e fuori dal Mezzogiorno. Ma dobbiamo vedere il collegamento che c’è tra la resistenza al cambiamento dei centri di potere nazionali e le resistenze all‘interno del Mezzogiorno. E mi pare che, proprio in questa direzione, cioè nella sottolineatura delle resistenze fortissime all’interno del Mezzogiorno, noi ritroviamo l’elemento che dobbiamo mettere molto in evidenza in questa campagna elettorale. Perché il fatto che i gruppi dirigenti del Mezzogiorno non abbiano saputo porsi, nella gestione del potere, su una linea di trasformazione produttiva e di sviluppo democratico, non ha danneggiato solo la società meridionale, ma ha comportato la messa in crisi dell’istituto regionale in quanto tale. C’è qui un rischio forte, su cui dobbiamo richiamare l’attenzione del nostro Partito più di quanto abbiamo fatto finora: il rischio che questa crisi della idea della Regione come strumento di cambiamento possa in qualche misura coinvolgere noi.»

 

Petroselli «Ci ha già coinvolto, altrimenti non si spiegherebbero una certa sordità e incomprensione sul decreto per la finanza locale.»

 

Ambrogio «Mi riferivo ad un altro aspetto. Se si crea una sfiducia nella possibilità di dare un voto per la Regione che sia un voto di cambiamento, a pagare siamo sostanzialmente noi, mentre vengono premiate quelle forze che, tenendo la Regione con un sistema di potere tradizionale, possono offrire a certi strati sociali qualche risultato concreto in termini clientelari. Il punto, è dunque la crisi della Regione come strumento di cambiamento e di rinnovamento. E su questo noi dobbiamo sviluppare un forte attacco alla Democrazia Cristiana, perché qui, come diceva Petroselli, può trovare un aggancio l’attacco neo-centralista, che si manifesta nella vicenda del decreto sulla finanza locale, ma anche nella discussione che c’è oggi intorno alla scadenza della legge sulla Cassa per il Mezzogiorno, nel ragionamento che viene fatto dalle forze centraliste sulle capacità di spesa peri il Mezzogiorno…»

 

Petroselli «Anche il Comune di Caltanissetta, secondo me, spende più della Cassa per il Mezzogiorno…»

 

Ambrogio «Sì, c’è questo dato quantitativo. C’è un problema di efficienza, di quantità di spesa, ma c’è anche un problema di qualità della spesa, che è decisivo ai fini del giudizio sugli schieramenti che hanno governato sia la Cassa del Mezzogiorno, sia le Regioni meridionali.

Voglio ricordare solo un dato: la Regione Toscana ha una percentuale di residui passivi che si aggira intorno al nove per cento; la Regione calabrese ha una percentuale di residui passivi del 63 per cento: spende, cioè, solo un terzo del bilancio regionale. Se poi si sottraggono le spese correnti, per il pagamento degli impiegati, siamo sostanzialmente alla paralisi della capacità di spesa della Regione.

Ma noi dobbiamo dare una risposta al perché avviene questo. E una risposta mi pare abbastanza semplice a darsi, la spesa regionale, in conseguenza di alcune leggi nazionali e anche di alcuni risultati legislativi ottenuti nelle Regioni del Mezzogiorno, deve essere ancorata a una programmazione e a una finalizzazione in qualche misura diverse da quelle tradizionali. Ma questo non si sa e non si vuole fare. Ed è proprio per questo che la capacità di spesa delle Regioni amministrate dalla DC scende sostanzialmente a zero. E anche la Cassa del Mezzogiorno, se poi si va a vedere, ha una capacità di spesa minima per quanto riguarda le grandi programmazioni, i progetti speciali; ma, invece, ha una capacità di spesa per quanto riguarda i completamenti di opere, che sono la continuazione della spesa tradizionale del sistema di potere della Democrazia Cristiana. Qui sta la questione politica che noi dobbiamo sollevare con grande forza e con grande energia, e che si ricollega alla questione della resistenza al cambiamento all’interno del Mezzogiorno.»

 

Non è vero che l’Emilia sottragga risorse al Sud

 

Del Monte «Una delle accuse che i democristiani ci fanno in Emilia, ma m’han detto poi che la usano soprattutto nel Sud, è questa: si, è vero – dicono in Emilia, a Modena, si fanno tante cose, ma le si fanno sottraendo risorse al Sud. Su questa questione sarebbe bene cercare di fare chiarezza. Innanzi tutto non è vero che agli enti locali dell’Emilia sono venuti più soldi e più risorse di quanto ci spetterebbe. Alle volte questo è accaduto, come per il finanziamento dell’edilizia pubblica, quando Modena ha avuto 4 miliardi in più. Ma perché? Perché altri Comuni, soprattutto dei Mezzogiorno, che in graduatoria erano prima di Modena, non avevano i progetti, non avevano a disposizione le aree. Non è dunque che il Comune di Modena abbia «rapinato» il Sud. È che i cittadini del Sud hanno pagato le conseguenze dei ritardi e dell’incapacità degli amministratori democristiani.

E c’è un altro punto, che è questo: le risorse che l’Emilia Romagna produce in più, e che non rimangono in Emilia, dove vanno? È vero che non vanno al Sud, ma perché? E come è possibile farle andare al Sud? la nostra Regione si è. impegnata per decentrare risorse al Sud, ma è rimasta isolata. Il Governo centrale non ha saputo cogliere questa disponibilità della Regione e, devo dire, anche dei gruppi industriali emiliani. Qui ritorna la grande discussione sulla programmazione.

Ed ecco che va visto in tutta la sua complessità il problema se è vero o no che al Sud sono andati pochi finanziamenti, quanti ne sono andati, quanti ne sono stati spesi. E risulta chiaro che è assurdo dire che le cose vanno male al Sud «perché l’Emilia ruba i soldi al Mezzogiorno». È solo un pretesto per assolvere i veri responsabili: il Governo e i democristiani delle Regioni meridionali.»

 

Quercini «C’è un altro esempio da fare a questo proposito, che è quello del fondo costituito presso la Cassa depositi e prestiti per finanziare opere pubbliche, interventi di risanamento delle acque e altre opere analoghe, da parte dei Comuni. Questo fondo è stato giustamente ripartito dal Parlamento con criteri favorevoli ai Comuni del Mezzogiorno: il 50 per cento a loro, l’altro 50 per cento a quelli del centro nord. Ma la Toscana ha utilizzato al 90 per cento le sue disponibilità, la Sicilia al 7 per cento, la Puglia mi pare al 17 per cento, e così via.»

 

Minucci «La questione sollevata da Ambrogio, e ripresa poi dagli altri interventi, ha una grande importanza, l’esito del voto dipenderà molto da questo rapporto che si è venuto instaurando o aggravando fra centro nord e centro sud per quello che riguarda la funzione stessa degli enti locali e delle Regioni. Mentre nel centro nord le autonomie locali rappresentano interlocutori essenziali di tutti i soggetti sociali e politici, nel Sud c’è ormai, almeno in alcune regioni, una crisi di credibilità di queste istituzioni molto forte. Quando si parla, ad esempio, del ruolo della Regione nella programmazione, la gente non ci crede.»

 

Petroselli «Beh, se parliamo di programmazione – intesa come capacità delle Regioni di abbandonare il terreno della gestione amministrativa per assumere un effettivo ruolo politico di governo se parliamo di programmazione, dicevo, anche nel Nord la DC non sfugge alla regola. Anche in Regioni come il Veneto, dove pure vi è con la popolazione, con la società, un rapporto di credibilità, sul terreno della programmazione la DC non sfugge alla regola generale.»

 

Quercini «È giusto. Stiamo attenti a non dare alla campagna elettorale una impostazione per cui sostanzialmente sembra che contrapponiamo Regioni rosse e Regioni meridionali, rischiando di sollecitare certe forme di meridionalismo reazionario che sono sempre presenti nella DC e in certe forze sociali meridionali. Noi dobbiamo contrapporre Regioni governate dalle sinistre e Regioni governate dalla Democrazia Cristiana. In questo senso il Veneto è assai significativo, proprio perché i dati dei residui passivi, i dati della Cassa depositi e prestiti, in una regione aggregata nella quale la DC è tutt’altra da quella siciliana, sono analoghi a quelli del Sud.»

 

Minucci «D’accordo. Io volevo però mettere in luce che nel rapporto tra la gente e le istituzioni c’è una diversità qualitativa che è preoccupante. Questo vuol dire, per esempio, che nella nostra campagna elettorale verso il Mezzogiorno noi dobbiamo puntare molto sulla sottolineatura della funzione che possono assolvere i poteri locali. O recuperiamo credibilità alle stesse istituzioni, oppure tutta la nostra campagna parte male.

Anche per questo, bisogna cogliere tutto ciò che c’è di diverso nel Mezzogiorno. Io credo, per esempio, che bisognerà valorizzare le cose che si sono fatte in una realtà difficile come quella di Napoli; valorizzare una amministrazione di sinistra come Taranto, che, per molti aspetti, è ai livelli delle amministrazioni del centro nord come efficienza, come capacità di intervento, come risultati.»

 

Petroselli «Se vogliamo contrastare con efficacia l’attacco concentrico che viene condotto contro le Giunte di sinistra, in modo irresponsabile, colpendo anche le istituzioni e il processo di riforma dello Stato, credo che dobbiamo evitare di affrontare la campagna elettorale come coloro che difendono le Regioni per principio. Dobbiamo partire dalla consapevolezza che c’è una crisi, anche della Regione. La cosa sta in questi termini: o le Regioni diventano fino in fondo organi di legislazione e di programmazione, e non di pura gestione amministrativa, oppure entra in crisi l’istituto e si aggrava la crisi del processo di riforma dello Stato. Qui sta la gravità anche della mancata riforma della finanza locale; della mancata riforma della legge comunale e provinciale; del fatto che su questo anello fondamentale l’assetto delle autonomie locali oggi c’è una battuta di arresto grave. Perché se i Comuni non assumono in pieno il loro ruolo, se le Regioni restano organi di erogazione di spesa e di gestione, come è stato evidente nelle Regioni meridionali, allora è difficile spendere rapidamente e in modo programmato. Certo, la DC non ne trae subito un danno nel rapporto con determinati ceti sociali, perché riesce ad usare quote aggiuntive di soldi, di mezzi, da distribuire ai Comuni, agli assessori, alle varie clientele. Ma in questo modo viene messa in crisi l’idea stessa della Regione, come cardine della programmazione economica e della riforma dello Stato.

Noi dobbiamo assumere questo dato, e farlo pesare nel confronto elettorale, per affermare che le Regioni amministrate da noi, pur con tutte le diversità dà luogo a luogo, hanno dimostrato che si può andare avanti sulla strada della programmazione e della riforma dello Stato, mentre altre Regioni hanno dimostrato che su questa stessa strada sì può anche andare indietro. Ci vuole chiarezza, quindi, sulle responsabilità.

Il che vuol dire che dobbiamo valorizzare ciò che abbiamo fatto dove siamo stati al governo, ma anche la funzione della opposizione, dove all’opposizione siamo stati. Perché anche per l’opposizione si può chiedere il voto.»

 

Il bilancio delle amministrazioni di sinistra

 

Minucci «A questo punto, vorrei che ci soffermassimo un po’ sul bilancio che possiamo presentare nelle amministrazioni di sinistra.

Schematicamente, i temi sono essenzialmente quattro. Il primo è quello della introduzione di elementi di programmazione, con cui abbiamo cercato di far fronte alla crisi economica e agli squilibri crescenti di questi anni. Se è vero che fa mancanza di un interlocutore necessario, come il Governo centrale, ha pesato moltissimo, soprattutto in certe fasi, tuttavia abbiamo accumulato un patrimonio che potrà essere utilizzato e sviluppato dopo il voto della primavera prossima. Vorrei ricordare in particolare, su questo punto, la funzione che hanno assolto le Regioni e i grandi Comuni in rapporto ai piccoli imprenditori, agli artigiani, ecc.

Il secondo ordine di questioni si riferisce a quelli che Petroselli chiamava i nuovi valori di governo, cioè alla scelta generale con cui abbiamo teso a far fronte alla crisi sociale intervenendo a favore di determinate categorie meno difese: le donne, gli anziani, i giovani; e affrontando questioni tradizionalmente trascurate: la cultura, lo sport, il verde. Petroselli ricordava prima le scuole. A Torino in cinque anni sono stati aboliti i doppi e i tripli turni, 70-80 mila ragazzi frequentano il tempo pieno; a Napoli, Valenzi si vanta giustamente di aver realizzato in cinque anni più aule che nei 35 anni precedenti. Sono questioni e realizzazioni che non hanno solo una portata sociale, ma anche economica. Se guardo all’esperienza in particolare delle Regioni rosse, questo rapporto fra sviluppo dei servizi sociali ed eliminazione delie cosiddette diseconomie esterne, ha dato luogo a riconoscimenti aperti da parte di strati industriali e della stessa Confindustria, ed ha aperto la strada a collaborazioni, progetti comuni, e via di questo passo.

Terzo punto, il rapporto con la gente, la questione della democrazia, l’estensione del metodo della consultazione, sui bilanci e su singole delibere; l’istituzione dei Consigli di circoscrizione, pur senza risolvere tutto, tuttavia ci hanno consentito quanto meno di attenuare quell’ondata di sfiducia nelle istituzioni e nella vita politica che la crisi tende a diffondere.

Ultima questione, quella della stabilità. Anche qui consentitemi di fare un esempio: nella precedente legislatura alla Regione Piemonte – ma potrei riferirmi anche al Comune di Torino – vi sono state sette crisi, quasi sempre dovute a contrasti interni alla DC, in conseguenza delle quali la Regione è stata nel complesso per oltre un anno senza Giunta. Con la Giunta di sinistra non abbiamo avuto un solo giorno di crisi. Quindi stabilità e moralità e buon governo.»

 

Ambrogio «Su questo tema dei risultati ottenuti dalle amministrazioni di sinistra, io penso che dobbiamo tenere presenti tre punti di riferimento. Uno, è quello di ciò che erano queste città nel ‘75 dopo 30 anni di amministrazione democristiana e di centrosinistra, con la subordinazione piena delle amministrazioni alle forze della speculazione e del parassitismo, con il connubio strettissimo tra gruppi di potere municipali e determinati interessi.

Un altro punto di riferimento è il confronto fra l’operato delle amministrazioni di sinistra, i loro risultati, e quello delle Regioni rimaste in mano alla DC. Penso a Napoli, per esempio, messa a raffronto con la Regione Campania.

Un terzo punto nasce dalla stessa polemica sviluppata in certe situazioni dalla DC, con l’accusa che ci muove di non aver attuato i cambiamenti che avevamo promesso. Ma qui c’è da una parte il riconoscimento che c’era una volontà e una necessità di cambiare rispetto alle loro gestioni; e, dall’altra parte, una inconsapevole condanna dell’operato della opposizione da loro condotta in questi anni, che non si è misurata sul terreno della costruzione di un cambiamento rispetto al passato, ma si è mossa sul terreno della sollecitazione di certi interessi corporativi, di una certa agitazione demagogica, in senso opposto, appunto, al cambiamento.»

 

Coordinamento della spesa pubblica e rapporto con gli imprenditori privati

 

Del Monte «Noi in Emilia siamo stati i primi a stimolare un coordinamento della finanza pubblica della Regione, delle Province e dei Comuni, che ha consentito di eliminare spese ripetitive, dispersioni, e anche sprechi. E siamo andati, dopo un avvio abbastanza difficoltoso, alla definizione di un piano di sviluppo dell’Emilia, «aperto», naturalmente, data la mancanza di un quadro di riferimento nazionale, ma abbastanza preciso. E ad esso hanno fatto seguito piani settoriali, per l’agricoltura, per i vari rami dell’industria, per le acque e la lotta agli inquinamenti, che hanno rappresentato un punto di riferimento non solo per le amministrazioni locali, ma anche per la iniziativa dei privati. Proprio qui è forse l’aspetto più importante: nel fatto che hai dato delle certezze anche agli investimenti. E devo dire che il confronto con gli imprenditori privati è stato positivo: abbiamo avuto una dialettica, a volte anche momenti di scontro, certo, ma in definitiva una capacità di concorrere in modo positivo.

Più che della Regione, per me è facile parlare del Comune, argomento che conosco meglio e su cui ho più dati. Da noi, a Modena, per esempio, è stato essenziale il piano agricolo, che è quello che è andato più avanti. Grazie anche all’attività coordinata della Regione, dei Comuni, della cooperazione, abbiamo raggiunto un aumento del prodotto lordo in agricoltura del 7, 7 per cento, rispetto allo 0, 3 per cento a livello nazionale. Non dico naturalmente che, è merito solo dei poteri locali. Dico però che si sono dati alle categorie punti di riferimento essenziali, proprio attraverso questa azione non dispersiva, ma coordinata. Abbiamo costruito quest’anno un macello nuovo; i Comuni sono intervenuti per un coordinamento dei caseifici; abbiamo fatto dappertutto i piani di elettrificazione delle campagne, e oggi nella provincia di Modena è una trascurabile frazione del territorio quella dove non c’è ancora l’energia elettrica; siamo la città in cui è stata più ampiamente applicata (all’80 per cento) la legge Merli sul disinquinamento.

Non sto a fare altri esempi, anche se potrei. Ma non si tratta di un elenco di cose minute, concrete. Si tratta di cose che poi rientrano in un quadro generale e hanno determinato risultati significativi di più grande portata.»

 

Quercini «Nel campo della programmazione, in Toscana abbiamo cercato di mettere in atto un coordinamento non solo – come diceva Del Monte – della spesa degli enti locali e della Regione, che è cosa di grande rilievo, ma un coordinamento del complesso della spesa pubblica con l’iniziativa economica di tutti i soggetti sociali, a cominciare da quella degli operatori privati. Questo è il vero punto su cui si qualifica o meno la capacità dell’ordinamento autonomistico di essere un fattore di sollecitazione di una politica di programmazione. In questo senso abbiamo parlato di programmazione regionale come processo, di programmazione contrattata, che fosse, appunto, in continuo rapporto con le categorie economiche, con le categorie sociali, con le forze culturali, e così via, l’obiettivo di fondo è di riuscire, in questo modo, non solo a programmare gli interventi degli enti locali, ma ad avere, con gli interessi economici presenti nella società toscana, un rapporto che non sia, diciamo cosi, di inseguimento oppure di subalternità acritica rispetto agli interessi dati; ma un rapporto che promuovesse, fra le categorie economiche e le forze sociali, nuove convenienze, anche sul terreno economico. E in questa direzione, intanto, abbiamo utilizzato le competenze dirette della Regione nel campo della programmazione. Arriviamo alla scadenza dell’80 con tutti i Comuni dotati di un piano urbanistico, che è un grande strumento di sollecitazione verso l’imprenditoria privata a programmare la propria presenza sul territorio. Quasi tutti i Comuni toscani sono dotati di un piano commerciale, che, è uno strumento reale di programmazione economica in mano alla Regione per sollecitare un rapporto positivo con le categorie economiche e con le categorie sociali. Nello stesso senso abbiamo operato, ad esempio, sul terreno della formazione professionale, finalizzando gli interventi a una visione dello sviluppo settoriale e territoriale. O su quello dell’agricoltura, dove la spesa è oggi per due terzi e più indirizzata a favorire lo sviluppo, l’ammodernamento e la riconversione produttiva. O su quello del credito e ancor più dell’assistenza tecnica all’impresa, dove da almeno un anno siamo riusciti a offrire aiuti reali alle imprese che si rivolgono direttamente al nostro ente regionale quando devono affrontare processi di ristrutturazione produttiva, di organizzazione dalla propria rete commerciale, di proiezione sul mercato, e così via.»

 

Il grossolano tentativo DC di fare una opposizione «da sinistra»

 

L’intervento della Regione è insomma finalizzato a una linea di programma, che consente di non subire passivamente le tendenze spontanee della realtà economica, ma di intervenire, conquistando, su una linea di cambiamento, il consenso delle forze interessate.»

 

Terzi «Prima di entrare nel merito delle questioni indicate da Minucci, vorrei fare una osservazione sull’atteggiamento della DC nei confronti delle Giunte di sinistra. Prima del 15 giugno la DC aveva teso a presentare l’ipotesi di un passaggio di governo alle sinistre come un’ipotesi che avrebbe provocato traumi profondi nel tessuto sociale, cercando così di far leva sulle preoccupazioni di determinati ceti. Dopo le elezioni, e dopo l’assestamento delle giunte di sinistra, la DC ha modificato la sua linea d’attacco, che è ora a Milano, ma non soltanto a Milano, quella di sostenere che in sostanza non è cambiato nulla e che il nuovo modo di governare» è fallito. Con il tentativo, un po’ grossolano, di fare una opposizione «da sinistra», che l’ha portata in alcuni casi, come nel Consiglio comunale di Milano, a trovare delle convergenze con le posizioni di Democrazia proletaria.

Questo tentativo cerca di far leva su una serie di aspettative, che non hanno trovato ancora risposte adeguate, e sulla lentezza oggettiva del processo di cambiamento.

Per questo è importante, da una parte, nel valorizzare i risultati che già abbiamo ottenuto, mettere in luce quanto di novità e di cambiamento in essi si esprime; dall’altra, dare il senso di una battaglia che continua, superando resistenze, ostacoli e limiti, per portare avanti il processo che si è iniziato il 15 giugno.

Della esperienza milanese, mi limito a ricordare un paio di aspetti. Prima questione, lo sforzo che si è fatto per una programmazione dell’intervento pubblico. Nel corso di questi anni il Comune di Milano ha varato una serie di piani la cui esigenza era matura da molto tempo: il piano regolatore generale, che è stato un fatto politico di grande rilievo che ha coinvolto le diverse forze sociali, le forze della cultura urbanistica, e così via; il piano dei trasporti; il piano del commercio; un intervento, dopo anni di completa incuria, sulle questioni ecologiche. Questo dimostra intanto che anche in una realtà come Milano, dove non si può dire che vi sia stata una carenza completa dell’intervento pubblico (perché, bene o male, anche negli anni del centrosinistra il Comune ha garantito, una certa efficienza) era completamente assente una visione di programmazione. Vi era una efficienza, basata però su una serie di interventi singoli tra loro slegati, e che quindi lasciava poi spazio a elementi di compromissione tra il potere pubblico e gli interessi privati. Il piano regolatore, ad esempio, non era niente altro che un canovaccio, che poi consentiva di volta in volta di fare tutte le operazioni che si volevano: il famoso «rito ambrosiano». Siamo riusciti quindi, in questi anni, a mettere ordine in una macchina amministrativa che, tutto sommato, funzionava a livelli decenti, ma era basata sull’arbitrio, sulla improvvisazione, priva di una visione di carattere generale.

Il secondo elemento che voglio ricordare è lo sforzo compiuto per un risanamento nelle aziende pubbliche. È questo un capitolo che rientra nel discorso della moralizzazione, perché non c’è dubbio che una serie di situazioni deficitarie presenti nelle aziende pubbliche erano dovute ad una gestione amministrativa scorretta. Abbiamo portato, attraverso un risanamento delle aziende pubbliche, a una situazione positiva. In tutte le aziende comunali, naturalmente con l’eccezione dell’azienda dei trasporti dove era assolutamente impossibile, siamo arrivati ad ottenere il pareggio del bilancio. Ma anche per l’azienda dei trasporti si è giunti ad un risanamento della gestione: tutta la famosa polemica sull’ATM era molto legata a questo, a precise resistenze opposte alla introduzione di un nuovo stile di conduzione dell’azienda.»

 

Petroselli «A proposito della programmazione, si è già fatto cenno al tema dei residui passivi, sui quali Andreatta sta conducendo da mesi una polemica contro le Regioni. Ma, è bene che si sappia che in questi anni, rispetto alle Regioni e ai Comuni. Lo Stato ha speso di più per la spesa corrente, ed ha speso di meno per gli investimenti. E se poi andiamo a fare un confronto fra le Regioni, la palma dei residui passivi spetta alle Regioni governate dalla DC: prima di tutte viene il Trentino, e poi l’Abruzzo, la Sicilia, la Valle d’Aosta, la Calabria, il Veneto, il Friuli, la Campania. Le Regioni amministrate da noi sono quelle che hanno meno residui passivi e che, quindi, hanno realizzato di più nell’opera di risanamento e di rinnovamento.

E non si deve dimenticare che abbiamo svolto un’attività, sia pure ancora non adeguata, di programmazione nonostante l’assenza di una programmazione nazionale: il piano triennale non si è fatto; il fondo nazionale per i trasporti non si è fatto; le leggi di programmazione hanno proceduto con la lentezza che conosciamo. Nonostante questo, possiamo presentare, anche nel Lazio, novità importanti. Abbiamo, per la prima volta nella storia della amministrazione pubblica, bilanci per progetti e non bilanci di spesa a pioggia. E questa è una novità importantissima, soprattutto per il segno che ci ha consentito di dare a una politica verso le categorie contadine, verso la piccola e media impresa.

Ma non voglio soffermarmi su questo, o su altri campi, connessi anche più direttamente alle competenze regionali, come quello della sanità o dei trasporti, dove pure abbiamo operato nel complesso in modo positivo (si pensi all’impegno per l’attuazione della riforma sanitaria o all’attività svolta per portare a compimento, con l’apertura il 16 febbraio, un’opera fondamentale come la metropolitana).

 

I nuovi valori di governo delle Giunte di sinistra

 

Voglio piuttosto sviluppare il discorso sul modo come abbiamo cercato di esprimere quelli che prima definivo «nuovi valori di governo». Nel settore della casa, ad esempio, in primavera avremo eliminato le ultime baracche. E noi assegniamo ai loro occupanti nuove case a condizione che le baracche siano distrutte e al loro posto sorgano giardini e servizi sociali. E stiamo distruggendo Tiburtino III, ghetto costruito dal fascismo per deportarvi i popolani espulsi dal centro storico. Al suo posto sorgono case popolari moderne, con attrezzature di prim’ordine, servizi sociali e culturali. E accenno solo alla ristrutturazione delle case comunali del centro storico, da assegnare non solo agli sfrattati, ma anche agli anziani. Queste non sono soltanto realizzazioni compiute; esse indicano il rovesciamento di tutto l’indirizzo storicamente seguito dalle classi dominanti.

Così, è per il verde. In tre anni abbiamo arricchito il verde pubblico espropriando ville e parchi per una superficie pari a quella dell’intera Villa Borghese: ville e parchi un tempo riservati ai nobili romani, alla casa regnante, a Mussolini e ora aperti ai cittadini e, al tempo stesso, salvati dalla degradazione e dalla speculazione.

Così è per i risultati ottenuti nel campo dei servizi sociali, per il quale voglio citare solo alcuni dati: trasporto gratuito giornaliero di 18 mila bambini; 149 asili nido istituiti, e altri 48 previsti;, 1000 bambini handicappati inseriti; 20 mila bambini nei centri estivi; 31 mila giovani nei centri sportivi circoscrizionali (con la giunta democristiana c’era un assessorato unico, allo sport e alla nettezza urbana); 2000 anziani ospitati in cinque centri, che non sono centri di isolamento, ma sono anche di ritrovo, con spazi ricreativi, culturali, e anche sedi di associazioni, di comitati di quartiere; 2000 anziani al soggiorno estivo.

Sull’attività culturale penso che non debba soffermarmi molto; l’Estate culturale romana è stato un fatto grande, di recupero della città, di restituzione della città ai cittadini; così come il piano per restituire alla città il Tevere. Ma voglio ricordare il piano, elaborato d’intesa con la Regione, che destina la spesa di 9 miliardi e mezzo per centri culturali polivalenti nelle borgate; cosa, anche questa, senza precedenti.

Sono dati che, pur nella loro entità, restano ancora modesti rispetto alle enormi esigenze, ma danno il segno di questi valori nuovi di governo, che esprimono poi un’idea diversa della città: una città fatta per gli anziani, per i giovani, per lo sport, per la cultura. Una città diversa per tutti.

Certo, il giudizio deve essere equilibrato. Il dissesto delle città non è superato, le città sono ancora al bivio tra possibilità di ripresa e rischio di decadenza. Questo dobbiamo averlo ben chiaro. Non siamo di fronte a una marcia necessariamente in avanti, soprattutto in rapporto al modo come andranno le cose in tutto il Paese, la sorte di Roma, se continuerà a crescere in modo caotico o no, dipende anche da come verranno affrontate la questione meridionale, la questione agraria, la riforma dello Stato, la riforma della scuola, per citare soltanto alcuni esempi. Tuttavia, nonostante queste questioni tuttora aperte, noi abbiamo introdotto nuovi valori di governo, abbiamo avviato un cambiamento profondo.»

 

«Un punto di riferimento culturale anche nel più sperduto comunello»

 

Quercini «Sul tema delle iniziative culturali vorrei dire anch’io, brevemente, una parola. Accenno solo, prima, alla questione della scuola, per rilevare che a Firenze, che abbiamo conquistato solo nel 1975, siamo arrivati adesso, con l’inizio dell’ultimo anno scolastico, a eliminare i doppi turni. Negli altri Comuni, dove governiamo da tempo, doppi turni non esistono e stiamo ad elevare la quota delle scuole a tempo pieno a oltre il 50 per cento. Vi è cioè uno scarto direttamente rapportato al procedere dei processi politici.

Sull’iniziativa culturale. Non vorrei che siccome di queste cose se ne è parlato molto, non se ne parlasse a sufficienza nella campagna elettorale. Questa invece è una questione di grande rilievo, su cui noi dobbiamo insistere molto, superando anche qualche perplessità aristocratica di certi ambienti culturali. Io non trascurerei nemmeno il significato economico di questo tipo di intervento, il valore che ha una certa politica culturale anche dal punto di vista del turismo, delle iniziative commerciali, e così via, specie in una città come Firenze. Ma c’è poi il valore dell’attività culturale dal punto di vista sociale, dell’aggregazione ideale, del problema dei giovani – che di queste iniziative infatti sono i maggiori fruitori.

Non credo, anche da questo punto di vista, che si debba guardare solo ai fatti più eclatanti e positivi di Firenze, della grande città. Non c’è Comune, che sia il comunello più sperduto dell’Appennino toscano, in cui non vi sia oggi, a differenza di qualche anno fa, un punto di riferimento culturale, spesso nella sala del palazzo comunale, con un suo programma, collegato alla programmazione culturale della Regione, di iniziative (proiezioni cinematografiche, piccole iniziative teatrali, ecc.) anche di livello qualitativo elevato e che hanno una continuità.

Noi non ci rendiamo conto abbastanza di che cosa significa in un Paese come l’Italia, in cui l’isolamento anche culturale delle periferie è stato un prodotto tipico di un certo tipo di sviluppo capitalistico, ricreare potenzialità di aggregazione, di dibattito, di interesse culturale, in tutta una serie di realtà che rischiavano, appunto, di essere isolate e condannate al sottosviluppo anche sotto questo profilo.»

 

Del Monte «Anch’io ritengo che sul senso generale della nostra attività convenga riflettere, e far riflettere. Fermiamoci un attimo sui servizi sociali. Noi a Modena siamo giunti ad avere una percentuale del 91.6 per cento di bambini che frequentano la scuola materna. È una percentuale altissima. Ma è giusto sottolineare che queste scuole non sono solo comunali, anche se lo sono in gran parte. Sono anche scuole private, con le quali abbiamo sottoscritto delle convenzioni. Non siamo andati, cioè, alla guerra per eliminare “i preti”. Siamo andati alla ricerca della collaborazione, lavorando perché anche lì ci fossero certe garanzie, nell’interesse generale, ma in un rapporto di rispetto reciproco. D’altra parte, per avere una dimensione dello sforzo fatto, possiamo ricordare alcune cifre. 65 sezioni a tempo pieno; 14 centri estivi, 4 in più dell’anno scorso, nei quali i ragazzi vanno a passare di fatto l’estate: vanno lì al mattino, e ci restano fino a sera svolgendo una attività ricreativa e culturale oltre che di istruzione. E poi 10 asili nido, che si aggiungono ai 7 che già avevamo; 2 consultori prematrimoniali; 6 consultori pediatrici. E così via. Per riassumere: 15 anni, da quando abbiamo fatto il piano regolatore, la superficie abitativa a servizi è triplicata. E a questo progresso quantitativo ha corrisposto qualcosa di importante qualitativamente. Guardiamo all’intervento per gli anziani: con la casa-albergo, l’ospedale di giorno dal quale ritorni a casa di sera; con la estensione dappertutto dell’assistenza domiciliare, in modo che rimangano in famiglia; con le attività di lavoro negli orti in cui vanno a lavorare di giorno, a come vigili davanti alle scuole, o in altre attività sociali del Comune, abbiamo operato, e devo dire con grandissimo consenso, perché l’anziano si senta pienamente impegnato nella famiglia e nella vita.

 

«Quello che i comunisti promettono, mantengono»

 

Secondo me, noi dovremmo insistere molto sui risultati, perché ci sarà una campagna su questo. Si solleverà l’interrogativo se i comunisti hanno o no, come dire, superato la prova del governo. Ebbene, anche partendo dalle speranze che trovarono espressione nel voto del ‘75, non possiamo certo dire di aver risposto a tutto; ma se facciamo il conto dei cinque anni che abbiamo attraversato, che sono stati quelli che tutti conosciamo, con tranquillità possiamo dire di aver superato positivamente questa prova. In Emilia, senza dubbio, ma mi pare di capire anche altrove, noi siamo riusciti ad attuare i programmi; che ci eravamo dati per molti aspetti, anzi, siamo andati molto al di là, sia in qualità che in quantità. E questo è un gran fatto, che ha anche un valore politico e morale. Quello che i comunista promettono, mantengono.

Anche sulla questione dei metodi di governo, cioè del rapporto con i cittadini e con le categorie, mi pare che, pur con difetti, vi sia un miglioramento notevole ovunque.

Io ritengo a questo proposito che l’iniziativa lanciata dal nostro Partito sulla consultazione di tutti i cittadini per il programma degli anni 80, sia un grande fatto di democrazia, un grande fatto politico, che ci distingue, fra l’altro, dagli altri partiti. Non dimentichiamo che anche dove i comunisti hanno la maggioranza assoluta come a Modena, ciò che si ottiene non è solo merito dei comunisti. È merito anche del rapporto che tu riesci a costruire, del fatto che anche altri gruppi, altre categorie che non si riconoscono nel Partito Comunista, ti riconoscono però come una forza seria, come una componente valida, e comunque concorrono nel definire quello che deve diventare la città e la regione.

Per questo è importante il bilancio che possiamo presentare sulla partecipazione, sulla gestione sociale, sui rapporti con i cittadini e le categorie. Guardiamo agli strumenti di partecipazione e di democrazia, al lavoro dei nostri Consigli, al numero delle riunioni, alla articolazione del lavoro per commissioni, ai quartieri, alla gestione sociale. Secondo me non c’è confronto fra il modo come i cittadini contano, ad esempio, in una realtà come quella emiliana e in una Regione diretta dai democristiani come il Veneto, Qui non è una questione di soldi. È una questione di come imposti i rapporti con la città, con le esperienze anche nuove che andrebbero valorizzate, come quelle che abbiamo definito giovani e verde, in cui il Comune mette a disposizione l’area e incoraggia la collaborazione fra gruppi ricreativi e sportivi che costruiscono, a spese loro e con il lavoro volontario, grandi centri all’interno dei quali c’è tutto: dalla biblioteca, al gioco delle bocce, al gioco del tennis, e adesso siamo addirittura al paracadutismo.

Minucci Vorrei soffermarmi un attimo, a questo punto, sulla questione del buongoverno e, di una nuova moralità pubblica. Mi ricordo che prima del 15 giugno in quasi tutte le città emersero in ambienti intellettuali, religiosi e così via, gruppi che chiedevano la fine del malgoverno democristiano e che, in molti casi, arrivarono addirittura a chiedere un voto per i comunisti, proprio per cambiare uno stato di cose in cui si era arrivati a toccare il fondo. E anche da questa esigenza il 15 giugno venne a noi una grande spinta.

 

La «rivoluzione del buongoverno»

 

Dopo di allora, però, noi stessi abbiamo – come dire – un po’ concorso a ridurre la portata di questa questione, e darla per scontata, a svalutarne l’importanza. Secondo me, invece, in un Paese come il nostro, dove le classi dirigenti, dall’Italia liberale a quella fascista a quella democristiana, hanno sempre caratterizzato la loro presenza con scandali a non finire, il fatto che in questi cinque anni, nelle grandi città e nelle Regioni da noi amministrate, non vi sia stato lo scandalo, la corruzione, che la gente, cioè, abbia potuto vedere un reale cambiamento dei metodi di governo, è quasi una rivoluzione. Io non sottovaluterei affatto questa questione. A Torino, a Roma, a Napoli – cito alcune tra le città più funestate dalla corruzione democristiana – sino a cinque anni fa gli scandali erano continuamente all’ordine del giorno. Oggi tutto questo non c’è più. È un fatto nuovo, che va fatto apprezzare, che dobbiamo far emergere con forza nella campagna elettorale.

Non a caso i propagandisti democristiani, quando cercano di sminuire questa realtà, ricorrono, ormai da anni, ad un solo esempio: quello di Parma. Un esempio solo, e già questo è significativo. Ma siccome su di esso insisteranno certamente per tutta la campagna elettorale, dobbiamo tornare su alcuni dati di questa vicenda. La prima questione è che, appena emerse il «caso», ci fu una svolta radicale. Una svolta anche di impostazione culturale. Quello di Parma infatti, è uno «scandalo» curioso: non si è costruita una pietra, non si sono fatte opere, speculazioni che hanno deturpato la città. Ciò che fu denunciata era una impostazione, che, appunto, fu cambiata, insieme alla direzione del settore urbanistico. E tutti oggi riconoscono a Parma che una svolta c’è stata a partire dal ‘76. Tant’è – ed è la seconda questione – che a Parma siamo sempre andati avanti, anche nelle ultime elezioni.

«Ma – mi sono sentito dire da qualcuno – la gente si è abituata agli scandali; la DC va avanti nonostante gli scandali». Questo non è vero. Guai a noi se passa un’idea di questo genere. Dal ‘48 in poi la DC ha perso anche per gli scandali; è passata dalla maggioranza assoluta al 38 per cento anche per questo. Certo, ci sono delle realtà meridionali che contraddicono questo dato. Ma, nel complesso della situazione italiana, la DC ha continuato a perdere, e ha sempre perso di più, fra l’altro, nelle elezioni amministrative, dove l’elemento ideologico pesa di meno»

 

Del Monte «È vero, continuano ad insistere sul caso «unico» di Parma. Ma a Parma non c’è alcun amministratore del PCI, assessore o consigliere, che sia stato implicato nella faccenda. Sono stati arrestati dei socialisti, un democristiano, ma di comunisti neanche uno.»

 

Minucci «È vero, non c’è nemmeno un eletto comunista implicato nella faccenda. Ed anche per questo le polemiche su Parma non debbono costituire in nessun modo un impaccio nel rilancio, che ritengo necessario, di questo tema del buongoverno.»

 

La miserevole fine di una campagna di calunnie

 

Del Monte «In Emilia si è montata una vera e propria campagna per cercare di dimostrare che i comunisti non avevano le mani pulite. Ho con me un elenco non completo. Abbiamo avuto attacchi politici su questo tema, e denunce della magistratura, in una quindicina di casi: due a Ferrara, uno a Ravenna, uno a Cesena, uno a Bologna, il caso di Parma, quello di Modena ultimo, e, sempre in provincia di Modena, Carpi, Soliera e altri. Si è trattato di un vero e proprio tentativo organizzato su ampia scala, per cercare di offuscare l’immagine dei comunisti dalle mani pulite.

L’esempio di Modena, secondo me, è emblematico. Si è cominciato con articoli de Il Resto del Carlino in cui si cercava di dimostrare che a Modena c’era la speculazione. L’attacco cadde nel vuoto, sinché non furono pubblicati articoli analoghi su riviste nazionali: L’Europeo, Il Borghese e un’altra, adesso non ricordo quale. Poi vennero da Bologna un gruppo di autonomi di «Linea Proletaria» a fare la lenzuolata in piazza Grande, e si fondò a Modena un «Comitato per la città umana», costituito da un gruppo di persone che avevano visto vanificati i loro tentativi di speculazione dall’intervento dell’amministrazione, e da qualche radicale. Al comitato si aggregarono ancora gruppi di «autonomi», radicali, speculatori, uomini della destra democristiana. Il Resto del Carlino era insieme altoparlante ed ispiratore politico dell’iniziativa. Gli altri partiti, che erano rimasti incerti in un primo tempo, vista una possibilità di attaccare il Partito Comunista, sono montati tutti sul carro: i democristiani, tutta la Democrazia Cristiana, compresa anche la sinistra che con noi aveva avuto rapporti corretti; i social-democratici, i liberali, i repubblicani. Solo il PSI, sia pure con qualche incertezza, difese l’operato della Giunta. Si arrivò a ripetute richieste di dimissioni del sindaco, fino alla denuncia di due sindaci. Si era così costruito uno schieramento contro di noi che andava dagli autonomi all’estrema destra, dalla stampa reazionaria al PSDI, su una vicenda nella quale non c’era niente di vero, ma che è stata utilizzata per quattro anni. Dopo quattro anni, è arrivata in questi giorni la sentenza di una delle inchieste provocate dall’intervento della magistratura: proscioglimento in istruttoria perché il fatto non sussiste. Ed è stata questa la settima assoluzione ottenuta dall’amministrazione in quattro anni.

Quale risultati ha dunque ottenuto la campagna di calunnie contro di noi? Per certi aspetti nessuno, perché adesso, che abbiamo le mani pulite, è ancora più chiaro di prima. Ma per altri aspetti danni ce ne sono stati. È peggiorato il rapporto tra i partiti, e si è determinata in questo clima la prevalenza delle componenti di destra nella DC. Chi aveva creduto di poter utilizzare l’attacco contro di noi, si trova oggi in difficoltà, ma la situazione si là deteriorata: non esistono più i rapporti che esistevano un tempo. E nello stesso tempo si è danneggiata l’immagine della città, e si sono anche ostacolate talune realizzazioni, perché un clima di persecuzione giudiziaria un qualche segno lo lascia.»

 

Minucci «Bisogna chiedere agli elettori un giudizio anche su queste cose, su questo spirito di rivincita della Democrazia Cristiana, che ha fatto l’iradiddio, ricorrendo all’aiuto perfino dei radicali e degli autonomi, eccetera, per poi vedere finire il suo attacco in una bolla di sapone: anzi, in una insospettabile conferma di quello che noi siamo e rappresentiamo anche sul terreno dell’onestà e della correttezza.»

 

Petroselli «Sono anch’io dell’opinione che alla questione delle «mani pulite» dobbiamo dare la dimensione che le dà Minucci. Qui sta accadendo qualcosa che non ha precedenti nella vita amministrativa dell’Italia. Le Giunte di sinistra non hanno alle spalle ipoteche, di gruppi finanziari o di gruppi parassitari, ma non hanno neppure l’ipoteca della pratica – che è stata poi quella, secondo me, che, in grande misura, ha fatto fallire anzitempo l’esperienza del centro sinistra – la pratica della confusione tra Stato, economia e governo della cosa pubblica; tra Stato, economia e affari. La nascita di Giunte di sinistra che non sono più gravate da questa ipoteca rompe una tradizione e crea le premesse per quel rinnovamento dell’azione dei partiti, che è inseparabile dal rinnovamento e dalla riforma dello Stato. Questo vuol dire che non solo abbiamo le mani pulite, perché siamo onesti personalmente; ma che siamo quelli che garantiscono una lotta perché si assicuri la pulizia nel modo di amministrare.

 

Con la consultazione di massa, un Partito più aperto al confronto

 

In una macchina come quella dell’amministrazione di Roma, con una certa tradizione, con certe eredità, io non garantisco che non possano ancora esserci o manifestarsi fenomeni, piccoli o grandi, di scorrettezza, di corruzione anche. Garantisco una lotta senza riserve contro questi fenomeni; e per questo possiamo essere il punto di riferimento di quanti vogliono in ogni campo onestà e rigore.»

 

Terzi Il bilancio di realizzazioni, di risultati concreti che le amministrazioni di sinistra sono in grado di presentare alla scadenza del loro mandato, ci consente di andare con fiducia alla campagna elettorale, superando anche stati di animo di frustrazione «non si è fatto abbastanza», presenti in una certa misura anche nel Partito di fronte all’ampiezza delle difficoltà che permangono, dei problemi tuttora irrisolti. Ma anche per questo noi dovremo farci più decisamente carico anche di quelle richieste di cambiamento espresse il 15 giugno, che si rivolgevano anche a noi, al nostro modo di essere e di rapportarci con la realtà sociale, alle quali non abbiamo finora dato una risposta del tutto adeguata.

Da questo punto di vista io ritengo che sia molto importante il modo in cui noi abbiamo deciso di andare alla campagna elettorale: partendo da questa ampia consultazione di massa che abbiamo lanciato sui programmi e sui candidati. In questo modo, infatti, noi possiamo raccogliere una spinta che c’è anche nei nostri confronti: l’esigenza, cioè, di avere un partito più capace di confronto, di dialogo, di un rapporto aperto con una realtà sociale multiforme. Questo è particolarmente importante di fronte ad un elettorato che, anche nel momento in cui ha votato per noi, non ha stabilito con il nostro Partito un rapporto, diciamo così, di tipo ideologico; non ha espresso una scelta di campo irreversibile, ma ha espresso una fiducia condizionata da ciò che avremmo fatto, dal tipo di rapporto che saremmo riusciti a stabilire con queste realtà sociali. Qui abbiamo avuto delle difficoltà, dei limiti, anche oggettivi, naturalmente. Si tratta di recuperare un rapporto con questi strati nel modo più aperto possibile. E ci possiamo riuscire se diamo peso e rilievo, se facciamo sul serio questa consultazione sui programmi e sulle liste.

Penso soprattutto a due settori dell’elettorato verso cui in questi anni abbiamo registrato difficoltà che, si sono riflesse anche nelle elezioni del 3 giugno: gli strati intermedi ed i giovani.

I ceti intermedi. Se noi riusciamo a lavorare in questa direzione diamo un colpo alle tradizionali basi sociali della Democrazia Cristiana, laddove questo lavoro siamo riusciti a farlo, laddove anche l’amministrazione comunale ha stabilito con queste forze un rapporto – concordando con esse programmi ed interventi – si è tolto spazio alla Democrazia Cristiana, che si è trovata costretta o ad appoggiare essa stessa le nostre iniziative o a sostenere una linea di opposizione molto demagogica.

Per quanto riguarda i giovani, la questione è molto complessa, e l’incidenza che può avere l’iniziativa degli enti locali oggettivamente limitata. Qui però un cambiamento rilevante è stato segnato dal fatto che le nostre amministrazioni hanno cercato di affrontare tutta la questione della condizione urbana o, come si usa dire, della qualità della vita; ed hanno ottenuto risultati significativi, anche se siamo ancora solo all’inizio di un discorso. Pensiamo all’impegno nuovo che si è avuto in tutte le grandi città per quanto riguarda la politica culturale, superando una impostazione di vecchio tipo che non sollecitava la partecipazione e non riusciva a stabilire nuove forme di aggregazione dei giovani, della gente, e così via.

 

Bisogna confermare ed estendere le amministrazioni di sinistra

 

La conclusione che io traggo è che noi, per quanto riguarda i Comuni in cui abbiamo conquistato una posizione di governo nel ‘75, pur sapendo che la partita è molto complicata, possiamo giocare con forza la carta della riaffermazione del ruolo di governo della sinistra. Su questo punto non dobbiamo avere incertezze, affrontando quindi una battaglia politica molto netta nei confronti della Democrazia Cristiana. Non voglio ripetere cose già dette: la difficoltà e la rozzezza con cui la DC si è mossa nei confronti delle Giunte di sinistra, senza una proposta politica alternativa e animata solo da uno spirito di rivincita di chiaro segno conservatore. Non credo, quindi, che avrebbe molto senso, in questa situazione, mettere l’accento su una proposta di ampia unità democratica, nel senso di riavanzare una indicazione di larga convergenza tra le forze democratiche. Non perché questo non possa essere un obiettivo da perseguire nel prossimo futuro: certamente ci deve sempre essere una ispirazione unitaria nel confronti della realtà rappresentata dalla Democrazia Cristiana. Ma perché oggi la questione politica concreta da sciogliere con le prossime elezioni è la conferma del ruolo di governo della sinistra e di una forte polemica nei confronti di una Democrazia Cristiana che, invece, fa di tutto per annullare i risultati del cambiamento, anche tentando, come ha fatto con i decreti governativi sulla finanza locale e così via, di dare un colpo duro alla capacità di iniziativa degli enti locali.»

 

Petroselli «Sono d’accordo che la campagna elettorale debba avere, più di quanto non siamo finora persuasi nell’insieme del Partito, una forte caratteristica di contrapposizione e di confronto con la Democrazia Cristiana, a livello generale e anche a livello locale. Sono convinto che certi dati: la fine dell’integralismo, la fine della possibilità per qualunque partito, ma in particolar modo per la DC, di agire come per il passato, sono ormai irreversibili. Sono convinto che la Democrazia Cristiana, dove noi amministriamo, non è in grado di presentare alle elezioni né idee, né programmi, né proposte di alleanze che ne facciano una forza di governo. Tuttavia essa tende, soprattutto a Roma e nel Lazio, dove l’equilibrio non è stabile come in altre regioni, alla rivincita; e vi tende presentando da un lato una facciata di apertura al confronto, ma puntando, dall’altro, al rinvio, alle dilazioni, in qualche caso anche al sabotaggio, soprattutto sui servizi.

 

Il grande tema dello scontro politico delle prossime elezioni

 

Mi pare quindi evidente che la campagna elettorale debba avere la caratteristica che ho detto. E io la riassumerei con un interrogativo, per lo meno per quanto riguarda le aree del Paese dove noi governiamo dal ‘76 o ‘75, con le alleanze che ho ricordate e con un equilibrio di forze con la Democrazia Cristiana che è meno favorevole che in altre regioni del nord: deve continuare questa esperienza oppure si deve tornare indietro? Questo è il quesito. Deve continuare l’esperienza di Giunte di sinistra che ha collocato la Democrazia Cristiana, per la prima volta dopo molti decenni, in certe regioni, all’opposizione e che – sottolineo – intende farcela restare, perché maturi come forza di governo? Oppure si deve tornare indietro? Questo è il tema che sta davanti alle forze di sinistra, a tutte le forze di progresso, ovunque collocate, sia laiche che cattoliche. Questo è il grande tema, secondo me, dello scontro politico delle prossime elezioni.»

 

Quercini «Sulla questione degli schieramenti debbo dire che in Toscana abbiamo avvertito qualche tentativo di contrapporre la nostra proposta locale, di riconferma del governo delle sinistre, alla proposta politica nazionale per cui ci battiamo.

Noi abbiamo impostato la questione in un modo, a mio parere, molto semplice, chiaro e soprattutto vero, che corrisponde, cioè, alla coscienza reale che la gente ha di queste questioni. Cioè noi abbiamo detto: i comunisti non sono mai stati, né durante ii periodo del centro-sinistra, né durante il periodo della maggioranza di solidarietà democratica, né saranno mai, qualunque siano domani gli sbocchi politici della situazione nazionale, per l’omogeneizzazione politica della periferia rispetto al centro. La scelta su queste questioni deve nascere dalla esperienza reale che le diverse forze politiche fanno nelle diverse realtà.

Con questo orientamento noi lavoreremo in Toscana, anche nel continuare la sfida unitaria che abbiamo aperto in questi anni nei confronti della DC.»

 

Petroselli «Che cosa intendi per sfida unitaria?»

 

Quercini «La sfida alla DC a mostrarsi capace di condurre l’opposizione, non inseguendo gli interessi corporativi, municipali e così via, ma sul terreno di quella visione programmata degli interventi che ha caratterizzato la nostra attività di governo, in questi anni la DC non ha saputo elevare la sua capacità di opposizione a questo livello nuovo, non è stata, cioè, all’altezza di questa sfida. Da questo noi traiamo la conclusione che la DC ha dimostrato di non essere matura, in Toscana, per assumere responsabilità di governo.

Chiameremo perciò gli elettori a confermare con il loro voto questo giudizio pesantemente negativo sulla DC. Al tempo stesso siamo convinti che proseguire in questa sfida unitaria sia un compito permanente di una grande forza nazionale e democratica come la nostra. Essere forza di governo reale significa parlare al complesso della società, proporsi di conquistare ad una linea di cambiamento forze sociali, interessi economici, energie culturali, anche collocate nell’area moderata, spostandole sul terreno riformatore ed isolando i nemici irriducibili della nostra politica. Questa è la sfida alla DC. O saprà spostarsi anch’essa sul terreno del rinnovamento mettendo in causa qualcosa dei suo blocco sociale e di potere, o dovrà pagare un prezzo entro quella parte della sua stessa base elettorale che ha interesse e necessità di un rapporto con gli strumenti legislativi ed amministrativi del sistema delle autonomie governato dalle sinistre.»

 

Ambrogio «Sono convinto che non dobbiamo affrontare questa questione degli schieramenti senza alcuno schematismo, tenendo cioè presente l’articolazione della situazione e che a questa articolazione le nostre indicazioni debbono rispondere.

Quale è, sotto questo aspetto, la situazione nel Mezzogiorno? Noi abbiamo avuto qui quelle che abbiamo chiamate le larghe intese. Quegli accordi, cioè, in base ai quali, in quei rapporti di forza determinati, noi abbiamo contribuito a definire nuove piattaforme programmatiche, di contenuto innovatore, e abbiamo accettato quindi di partecipare alle maggioranze, pur non essendo presenti nelle Giunte. Ma è proprio qui che sono venuti al pettine i nodi delle resistenze al cambiamento di cui ho parlato. I programmi non sono stati realizzati; la gestione si è mossa in direzione opposta al contenuto dei programmi. In sostanza, nonostante le intese programmatiche, lo schieramento di governo è rimasto quello che aveva presieduto al sistema di potere clientelare: il centrosinistra. Proprio di qui è nata la crisi delle intese, la nostra uscita dalle maggioranze di programma. Ed alle crisi ha fatto seguito la ricostituzione di Giunte di centrosinistra.

Ci troviamo dunque di fronte al fatto che nel Mezzogiorno la maggior parte delle Regioni e dei Comuni meridionali sono governati dalla DC e dal centrosinistra: qui si realizza una integrazione tra schieramento politico e sistema di potere che sappiamo bene quanto sia forte in una realtà in cui politica ed economia sono del tutto, diciamo così, funzionali l’una all’altra.

 

Rompere il sistema di potere della DC e del centrosinistra nel Mezzogiorno

 

Per questo io credo che al centro della campagna elettorale noi dobbiamo porre proprio il problema della rottura del centrosinistra e del suo sistema di potere. Qui c’è anche una diversità rispetto alla situazione generale del Paese: c’è una richiesta di coerenza rivolta al ‘Partito socialista; e c’è anche un confronto da aprire con certe forze della Democrazia Cristiana. In questa campagna elettorale, quindi, dobbiamo sottolineare l’elemento di alternativa che noi dobbiamo offrire rispetto a questo sistema di potere clientelare. Il che non significa, evidentemente, creare uno schieramento sociale che si contrappone globalmente al blocco sociale dominato dalla Democrazia Cristiana e dal centrosinistra. Noi dobbiamo lavorare per conquistare a una prospettiva di cambiamento anche forze che oggi sono all’interno di questo blocco. Ma dobbiamo certamente sottolineare una capacità di rottura, una capacità di alternativa al sistema di potere dominante, che passa attraverso una ricostruzione dell’unità a sinistra.

Dico ricostruzione non a caso, nel senso che noi dobbiamo qualificare molto, nel Mezzogiorno, l’unità a sinistra sul terreno dei contenuti di trasformazione che riguardano la battaglia per indirizzi politici ed economici nazionali nuovi e meridionalisti; che riguardano la battaglia per un rinnovamento democratico dei modi di gestione del potere all’interno del Mezzogiorno. E dobbiamo costruire così un polo unitario della sinistra che sia in grado di parlare anche a ceti sociali intermedi: piccoli industriali, ceti artigianali e delle campagne, e alla grande massa dei giovani e degli intellettuali.

Da qui l’esigenza di una parola d’ordine politica che tenga conto della possibilità per la sinistra anche di assolvere a funzioni di governo. Ripeto: non dovremo avere schematismi, perché le realtà sono diverse da regione a regione.

Però, anche nel Mezzogiorno, specialmente in quelle Regioni in cui già oggi i rapporti di forza tendono in questa direzione dobbiamo sottolineare con grande forza il problema della funzione di governo delle sinistre, anche in collegamento con l’esperienza che c’è stata a – Napoli e in altre zone del Mezzogiorno e che ha rappresentato certamente, pur con i limiti che ci sono stati, un elemento di rottura rispetto al passato. Ci sono Regioni nel Mezzogiorno in cui la prospettiva di una immediata proiezione di governo della sinistra non è un fatto irrealistico, una fuga in avanti, ma una possibilità che esce anche dai dati numerici, in generale, poi, deve essere messa in primo piano la questione della rottura necessaria del centrosinistra e del sistema di potere che esso ha rappresentato, della riduzione della influenza e della forza della Democrazia Cristiana, e del consolidamento di una unità a sinistra capace di qualificarsi, come ho detto, sui contenuti di una linea di trasformazione e di misurarsi nella formazione degli schieramenti di governo in maniera unitaria.»

 

Terzi «Sono d’accordo con quello che diceva Quercioli. Noi dobbiamo attenerci a una concezione per cui gli schieramenti politici nelle singole realtà locali non dipendono da una formula che debba valere dappertutto, ma dipendono dalla concretezza dei rapporti esistenti nelle singole situazioni. Su questa linea abbiamo condotto nel passato, durante il centro-sinistra, la battaglia contro l’omogeneizzazione, cioè contro il tentativo da parte della Democrazia Cristiana di imporre questa formula dappertutto, anche laddove non corrispondeva alle realtà locali. Dobbiamo stare attenti, anche in questo campo, a non avere una linea eccessivamente rigida, perché poi le situazioni sono tra loro molto diverse.

Per quanto riguarda quella di Milano, io non ho dubbi che si debba indicare una proposta politica di conferma della Giunta di sinistra, verificando tutte le possibilità di ulteriori convergenze con altre forze minori. Penso, ad esempio, ai repubblicani, che hanno avuto nel complesso un atteggiamento costruttivo, svolgendo un’opposizione nettamente diversa da quella della DC, e che quindi hanno dimostrato di essere un interlocutore serio, con cui è possibile avere anche un rapporto di collaborazione.

E credo che possiamo vedere quanto matura nell’area della estrema sinistra, come andranno le cose, quali forze riusciranno a rappresentare nel Consiglio comunale.

Per quanto riguarda la DC, senza fare un discorso di principio o di pregiudiziale, che non avrebbe alcun senso nella realtà milanese, ma partendo dall’atteggiamento che essa ha avuto in tutti questi anni, si deve dire che non esistono oggi le condizioni a Milano per una collaborazione con questo partito. Ci possono però essere situazioni diverse. Non credo che debba essere assunta una linea che dica: comunque sia, la DC la cacciamo all’opposizione. Se ci sono realtà in cui questo rapporto con la DC è avvenuto su basi più costruttive, il ragionamento può anche essere diverso. Ad esempio, mentre a Milano il giudizio è quello che ho detto, può darsi che in altre zone della Lombardia, di più radicate tradizioni popolari della DC, e dove i rapporti si pongono diversamente, li si possa anche pensare a ipotesi di collaborazione.

Quanto alla Regione, l’esperienza fatta in una certa fase, con la nostra partecipazione ad una maggioranza senza essere nella Giunta, non ha dato dei risultati: nonostante gli accordi programmatici anche positivi, la gestione della Regione è rimasta poi quella tradizionale della Democrazia Cristiana. Il bilancio è stato negativo, e noi a un certo punto siamo dovuti uscire da una situazione di impasse che ci metteva in difficoltà; cosicché anche l’esperimento regionale mi pare che confermi la necessità di una linea di chiarezza.

Credo, perciò, che noi dobbiamo avere una certa articolazione insistendo comunque, nelle realtà dove è avvenuto il cambiamento di governo con il voto del 15 giugno, sulla volontà di riconferma della esperienza che le forze di sinistra hanno compiuto in questi anni.»

 

Petroselli Non vorrei che la mia insistenza sulla necessità di mantenere la Democrazia Cristiana all’opposizione apparisse ispirata da un atteggiamento, diciamo cosi, «settario». So bene, intanto, quanto il governo complessivo dipenda anche dall’opposizione. Persino a livello nazionale il governo del Paese è un risultato al quale concorrono varie forze, anche dall’opposizione. E mi è ben chiara la necessità di stabilire un rapporto positivo anche con le forze che stanno all’opposizione, come da noi a Roma la DC sia per la difesa delle istituzioni, con le intese istituzionali, sia per realizzare il massimo di convergenze su una linea di rinnovamento. Non ho dubbi che sia questo un obiettivo necessario, e che questa linea debba essere mantenuta ferma anche nel confronto elettorale.

 

La DC deve restare all’opposizione per potersi rinnovare davvero

 

Il dico una cosa diversa. Io non dico che la Democrazia Cristiana deve rimanere all’opposizione per motivi pregiudiziali (ci mancherebbe altro!) o per furore ideologico, o perché dicendolo voglia guadagnarmi l’applauso di quelli che sono contro la DC o hanno dubbi sul compromesso storico. Io dico partendo da un’esperienza che è stata fatta, e lo dico in una prospettiva positiva. Perché è giusto e necessario, secondo me, per lo stesso processo di rinnovamento che deve investire la Democrazia Cristiana che essa si liberi fino in fondo da un certo tipo di legami e di rapporti con il potere locale, con la sua macchina clientelare. Questo rapporto essa ha cercato di conservarlo a Roma, anche stando all’opposizione, in uno spirito di pura rivincita, utilizzando il fatto che ha il Governo, ha le banche, ha alcuni istituti fondamentali, ha ancora in mano le Camere di commercio, e così via. Ma se questa concezione del potere non cambia – questa è la mia opinione personale – non ci potrà essere un rapporto fecondo, un rapporto di collaborazione quale quello che è necessario. Spingere la Democrazia Cristiana a liberarsi da una certa visione del potere della politica e quindi io qualche modo perfino a «rigenerarsi scusatemi il termine un po’ moralista – è quindi qualcosa che serve, secondo me, anche per fare avanzare una politica nazionale di unità democratica.

Per questo noi dobbiamo chiedere agli elettori di votare affinché la Democrazia Cristiana rimanga all’opposizione, impari a fare opposizione, ad avere quel ruolo che oggi non sa assolvere, commisurato agli interessi del Paese. Questo lo dico anche con un elemento di autocritica, perché qualche illusione sulle possibilità meccanicamente rigeneratrici di accordi e convergenze, dopo il ‘75, noi l’abbiamo coltivata, io personalmente l’ho coltivata. Mi faccio, quindi, anche un’autocritica personale. Ma non si tratta di una autocritica che tocca la «linea». Quella che è mancata è la consapevolezza che nella realtà il processo unitario non è lineare, ma comporta scelte, comporta momenti di scontro.

Finisco con un accenno. Noi ci avviamo alla campagna elettorale valorizzando la nostra azione di governo e i, suoi risultati, e attaccando i comportamenti della DC. Non possiamo però esaltare quello che si è fatto, lasciando agli altri e alla DC la denuncia di quello che non va. Quanto la situazione sia cambiata, grazie alla nostra opera di governo, possiamo documentarlo, dobbiamo difenderlo. Però la realtà è ancora lungi dal soddisfarci; non possiamo dire ancora che abbiamo voltato pagina nella vita delle città. Dobbiamo dire a noi stessi anche le tante cose che non funzionano. Nei nostri programmi ci deve essere anche l’assunzione degli elementi di difficoltà, di critica che esistono. E partire anche di qui, per dire che si devono confermare le Giunte di sinistra, e dare più forza al Partito Comunista, che è il partito rafforzando il quale si consolidano le Giunte di sinistra, si mantiene aperta questa prospettiva, si apre una nuova fase, io direi, di questa· esperienza, che permetterà di dare ‘risposta agli elementi di critica e di insoddisfazione che permangono.»

 

I rapporti con i partiti minori e con il PdUP, e il problema dei radicali

 

Quercini «Vorrei porre un accento sulla questione degli schieramenti. Ritengo che in forze che si collocano alla nostra sinistra vi siano disponibilità, anche in conseguenza dei processi di crisi che si sono sviluppati al loro interno, a dare un apporto, sia pure autonomo, originale, per riconfermare la forza della sinistra e per sconfiggere i tentativi di rivincita della Democrazia Cristiana.

In Toscana abbiamo fatto, in questo senso, una esperienza reale. Il gruppo di Democrazia proletaria, presente in Consiglio regionale con un suo consigliere, è entrato nella maggioranza e anche nella Giunta si è costituito come forza indipendente di sinistra; e noi crediamo che vi siano possibilità di andare a un accordo anche per quanto riguarda la campagna elettorale e la prospettiva successiva.

Credo anche, in accordo con Terzi, che sia da differenziare molto il giudizio sul tipo di opposizione della DC da quello delle forze intermedie. Queste forze hanno dato dall’opposizione un diverso apporto nel merito dei problemi, dei contenuti, spesso differenziandosi anche nel voto, votando a favore o astenendosi, su questioni significative. È un atteggiamento che abbiamo, riscontrato più volte nei repubblicani. Ma non trascurerei neanche i socialdemocratici. Nonostante gli orientamenti nazionali usciti dall’ultimo congresso, abbiamo forze socialdemocratiche che collaborano in Giunte di sinistra e manifestano disponibilità che sarebbe sbagliato non vedere, solo perché Longo, sul piano della politica nazionale, ha preso una certa impostazione.»

 

Del Monte «Anch’io voglio fare qualche osservazione sulle forze politiche. Credo che dobbiamo senza incertezza chiedere il voto per la conferma delle Giunta di sinistra, fondate essenzialmente sull’unità di comunisti e socialisti. Non possiamo però trascurare altre forze. Non possiamo non fare un discorso nuovo, per esempio, anche nei confronti del PdUP, con il quale mi sembra possibile giungere, sui programmi e sugli schieramenti, a un rapporto più consistente e più unitario. Quanto ai radicali, il loro rapporto con noi è peggiorato In questi ultimi anni, per responsabilità loro, non nostra. Mi pare che la situazione, per quanto riguarda i radicali e il, loro atteggiamento, si diversifichi molto da luogo a luogo. Noi non dobbiamo perdere questo terreno di intervento, quanto meno tenendo conto, nei programmi e nelle liste, di esigenze e sensibilità che il mondo radicale talvolta riflette.

Ritengo anch’io, poi, che dobbiamo porre molta attenzione al Partito socialdemocratico, perché il marcato spostamento imposto da Longo e dal partito tende a spingere anche i nostri compagni su posizioni di chiusura netta nei confronti del PSDI, che dobbiamo evitare. Nelle diverse situazioni provinciali noi abbiamo infatti realtà diverse. Abbiamo situazioni nelle quali i socialdemocratici (come i repubblicani) hanno costruito in questi anni dei rapporti positivi con noi. Anche il congresso, tutto sommato, ha mantenuto su questo punto una qualche apertura che, secondo me, dobbiamo valorizzare.

Una ultima osservazione volevo fare su questa che può in effetti apparire una contraddizione fra la nostra linea a livello nazionale e la proposta di puntare sulle Giunte di Sinistra. È giusto sottolineare questa questione della non omogeneità, ma occorre però ovunque una nostra forte iniziativa politica di confronto con la DC, la Democrazia Cristiana deve essere chiamata a misurarsi nel merito del problemi, non può essere lasciata libera di darsi alla fuga. E occorre ribadire il concetto delle Giunte di sinistra come Giunte aperte alle minoranze e alle forze sociali. È questa la condizione per incidere sulla Democrazia Cristiana, per cercare di far mutare orientamenti e schieramenti; e, anche laddove sarà alla opposizione, perché, almeno per adesso, sono questi gli orientamenti che prevalgono, noi non possiamo non esigere da essa, in nome del discorso sull’emergenza, coerenza e rigore sui problemi nel rapporto che deve avere con le categorie e nei rapporti con i partiti. Guai a noi se la questione dell’emergenza viene vista solo in rapporto agli schieramenti. No, anche dall’opposizione la DC deve avere un atteggiamento responsabile. Può anche non essere in Giunta, ma sul piano regolatore che cosa fa?

Sul piano commerciale come si muove? Nelle categorie che linea sostiene?»

 

Minucci «A conclusione si può anche dire questo: che dall’analisi del processi reali, e anche dell’atteggiamento delle grandi masse, verso questa esperienza di governo che le sinistre hanno fatto nell’ultimo quinquennio in così grande parte del Paese, si può ricavare la, ragionevole convinzione che esistono tutte le condizioni per realizzare un obiettivo essenziale: non solo consolidare, ma portare avranno quelli emersi qui. Bisogna dare un colpo alla Democrazia Cristiana, ridimensionarla perché ha dimostrato di non saper raccogliere affatto, né dove è stata all’opposizione, né dove è stata al governo, la richiesta di cambiamento, di buon governo che gli elettori hanno posto con tanta forza cinque anni fa.

 

«Il contributo dei comunisti è determinante»

 

E bisogna rafforzare il PCI, che proprio nelle Regioni e negli enti locali ha dato una prova di saper governare e al cui rafforzamento sono legate le sorti di una prospettiva generale di mutamento nel metodo di governo non solo a livello locale, ma anche nazionale. Io insisterei molto su questo elemento del partito, senza preoccupazione di essere frainteso: noi siamo abituati a fare politica con gli altri, ad avere nell’unità il punto di riferimento essenziale di tutta a nostra strategia. Però dobbiamo valorizzare il Partito in quanto tale. Abbiamo governato in Giunte di sinistra, spesso largamente unitarie; ma il contributo dei comunisti a Roma, a Napoli, a Torino, cosi come nelle Regioni tradizionalmente rosse, è determinante per garantire l’unità e l’orientamento rinnovatore dell’azione del governo.

Insieme, io aggiungerei che con i comunisti deve consolidarsi tutta la sinistra. Noi vediamo questa esperienza delle Giunte di sinistra come qualcosa da confermare, da rafforzare, da espandere in altre aree del Paese. L’unità della sinistra la vediamo fondata, in primo luogo sull’unità del comunisti e dei socialisti, ma non limitata in modo esclusivo al PCI e al PSI. Non siamo andati mai a discriminare nessuno. Abbiamo sempre cercato le collaborazioni più ampie. Anche verso la, DC, il nostro è un atteggiamento di critica, anche aspra, ma sui fatti, sulle cose concrete, non di discriminazione pregiudiziale. E un simile atteggiamento io credo che debba caratterizzare tutta la nostra campagna elettorale.

Concordo con le osservazioni di Quercini a proposito di quelle formazioni che affermano di collocarsi alla nostra sinistra. Aggiungerei, per quello che riguarda il Partito Radicale, che la loro incertezza circa la stessa scelta di presentarsi o meno alle elezioni, conferma l’imbarazzo e l’indebolimento di questo partito a seguito delle ultime poco edificanti vicende. Si tratta di incalzarli, sia accentuando il nostro impegno su temi che sono tradizionalmente nostri e che il PR tende a presentare come una propria esclusiva {ambiente, diritti, lotta alla corruzione, ecc.}, sia mettendolo evidenza il rischio che i radicali possano portare anche nelle assemblee elettive locali la loro vocazione all’ostruzionismo fazioso, alla provocazione, alla buffoneria.

Per quello che riguarda i partiti dell’area laica, il problema vero è, secondo me, quello di dare un colpo a questa ipotesi neocentrista che viene avanti. In fondo che cosa stanno dicendo socialdemocratici e liberali (meno i repubblicani)? Stanno dicendo che dal grande sommovimento che caratterizza da anni la società Italiana deve venire fuori una sorta di aggiustamento verso il centro. Per una simile proposta di ritorno al passato, persino ridicola rispetto all’entità dei problemi che dobbiamo affrontare, costoro contano sulla vischiosità di certi strati sociali, sulla paura del rinnovamento, e così via. Questi partiti possono avere uno spazio, e l’hanno avuto, in certe situazioni, laddove si sono collocati in un nuovo rapporto con le sinistre e con il Partito Comunista. Non a caso oggi i socialdemocratici sono nelle maggioranze, spesso nelle Giunte, in molte realtà italiane del nord, del centro e del sud. Là dove invece tendono ad assumere di nuovo la loro vecchia funzione di freno al rinnovamento, e addirittura predicano apertamente il ritorno ad un centrismo conservatore, fa credo che gli elettori debbano punirli. Qui c’è proprio una intelligenza dell’elettore che deve saper individuare e scegliere bene.

Un compito specifico della nostra campagna elettorale deve essere quello di lavorare per un recupero pieno di quegli elettori che il 3 giugno ‘79 si sono allontanati da noi, esprimendo in forme diverse una incomprensione o una protesta verso la nostra politica (spesso con l’astensione o con la scheda bianca). Ogni Sezione deve compiere a questo proposito una ricerca accurata e sviluppare specifiche iniziative di contatto, di informazione, nella convinzione che la nuova situazione odierna, e il carattere delle prossime elezioni, potranno consentirci di riconquistare la fiducia di quegli elettori.

Ancora una questione. Sono d’accordo che dobbiamo fare una campagna elettorale che non difenda l’esistente, ma che, come diceva Petroselli, assuma come propria la istanza del cambiamento, anche là dove abbiamo governato in questi ultimi anni. Del resto proprio le Regioni da più tempo governate dai comunisti, come l’Emilia, la Toscana, sono sotto questo profilo un esempio di capacità di rinnovarsi, di adottare continuamente soluzioni nuove. Anche là dove abbiamo conquistato nel 1975 le amministrazioni, dove siamo entrati nelle maggioranze nelle Giunte negli ultimi cinque anni, dobbiamo far leva sui risultati positivi acquisiti per andare avanti verso una trasformazione della società e del modo di governare.

Tutto questo lo si può fare se la campagna elettorale, più che altre volte, avrà un carattere, che dobbiamo imprimergli noi, di una formidabile mobilitazione della gente, non solo degli addetti ai lavori. I comunisti devono in questa fase anche inventare forme nuove di contatto con le grandi masse popolari, al nord, al sud, ovunque. E credo che l’iniziativa del questionario per la consultazione sui programmi, e della scheda per la consultazione sulle liste, possa e debba essere utilizzata da tutto il partito come una grande occasione. In fondo, è la prima volta che nel nostro Paese si tenta una consultazione di questa ampiezza come grande fatto di democrazia, ma anche come fatto di efficienza delle istituzioni.»



Numero progressivo: F5
Busta: 6
Estremi cronologici: 1980, aprile
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Bollettino della sezione Regioni ed autonomie locali del Comitato Centrale del PCI”, n. 4, 1980, pp. 3-19