LA NATURA DELLA DESTRA E I DILEMMI DELLA SINISTRA

di Riccardo Terzi

L’attuale profilo assunto dalla destra, in Italia e tendenzialmente in un quadro internazionale più ampio, pone un problema non facile di interpretazione politica. La categoria interpretativa più largamente utilizzata è quella del populismo, ma si tratta di un concetto che a sua volta ha bisogno di una definizione e di una determinazione storica e che rischia di essere un contenitore troppo generico e troppo indeterminato. Non è una difficoltà del tutto inedita, perché la destra, nel corso della sua storia, è sempre stata una realtà sfuggente, non riducibile ad un corpus teorico strutturato, è stata movimento e non pensiero, forza d’urto materiale e non progetto.

L’apparato ideologico è solo il lato strumentale, contingente, cangiante, frutto spesso di un sincretismo eclettico privo di una coerenza interna, mentre il dato permanente è il vitalismo aggressivo, messo al servizio di un determinato blocco di interessi. Data questa sua natura di movimento magmatico, indifferente alle complicazioni della teoria, la destra dispone di una grande forza aggregativa, perché è aperta alle più spregiudicate avventure culturali e alle più ardite contaminazioni.

La sinistra, al contrario, pretende chiarezza di pensiero, rigore teorico, ed è perciò attraversata da ricorrenti e violente lotte ideologiche, perché pensa il movimento nel suo rapporto indissolubile con la teoria. Ne deriva, in molti casi, un vero e proprio rovesciamento idealistico del rapporto tra teoria e prassi. Paradossalmente, il carattere sovrastrutturale delle forme ideologiche è stato più largamente acquisito e compreso dalla destra, e questa comprensione è divenuta un suo punto di forza. Questo ribaltamento è una delle tante ironie della storia.

Accade così che mentre la destra realizza, su un piano di spregiudicatezza pragmatica, un proprio blocco di interessi, la sinistra, all’opposto, si definisce e si rappresenta sul terreno etico-culturale, e sembra avere smarrito il suo originario radicamento nel conflitto sociale. Ed è proprio questa asimmetria tra destra e sinistra il dato attuale: destra degli interessi e sinistra dei valori, struttura contro sovrastruttura. E in questo conflitto si avvera la tesi di Marx: è la struttura ad avere il sopravvento.

La mia proposta interpretativa parte dunque dalla assunzione della destra come movimento, come organizzazione fluida, non irrigidita in uno schema teorico: essa si identifica totalmente, senza residui, con le necessità e con le convenienze pratiche del blocco dominante, pronta ad adattarsi a tutte le manovre tattiche che siano suggerite dalle situazioni storiche concrete.

La novità attuale sta solo nel fatto che questa fluidità compie un’ulteriore accelerazione, che la destra accentua il suo carattere pragmatico, la sua aderenza immediata, senza nessun filtro teorico, agli impulsi vitali di una società individualizzata e iper-competitiva.

È una destra meno afferrabile, meno comprensibile con le categorie tradizionali del pensiero politico, perché essa è ormai tutta concentrata nell’immediatezza della prassi, nell’esercizio pratico del potere, e non ci sono più varchi per una battaglia delle idee, perché le idee sono ormai totalmente soppiantate dalla realtà fattuale.

Salta allora la stessa tradizionale distinzione tra destra moderata e destra reazionaria, e non funzionano più gli schemi teorici di cui ci siamo serviti nel passato. Il salto qualitativo avviene, nella nostra realtà nazionale, con l’operazione di Forza Italia: un partito che non ha tradizione, non ha retroterra culturale, e può essere quindi di volta in volta plasmato per qualsiasi manovra tattica. Può essere moderato o estremo, dialogante o aggressivo, liberale o clericale, senza mai fissarsi in una posizione. In Forza Italia possono così confluire tutti i detriti della prima repubblica, e ciascuno può liberamente rappresentarsi la coerenza immaginaria del proprio itinerario politico, e può trovare a portata di mano qualsiasi surrogato ideologico, perché ciò che tiene unito il movimento è la totale indifferenza per le ideologie politiche e la disponibilità ad usare tutto ciò che può servire all’esercizio del potere.

Anche i partiti alleati, che hanno un’identità più definita, subiscono progressivamente un processo di svuotamento e di adattamento, entrano a far parte di una colossale operazione trasformistica, all’interno della quale le rispettive ideologie politiche sono solo maschere, apparenze, simboli che vengono agitati nel vuoto, senza nessuna presa sulla realtà. Possono tranquillamente convivere il tricolore e la camicia verde, la cattolicità intransigente e il socialismo liberale, perché non sono rappresentazioni di qualcosa di sostanziale, ma merci ideologiche disponibili su un unico mercato politico, le quali tutte concorrono al comune profitto.

Di fronte a questa nuova configurazione della destra, la sinistra rischia di trovarsi spiazzata, perché non sa più da quale lato afferrare la nuova situazione. Se tenta il dialogo con una presunta destra moderata, il tavolo del confronto viene sfasciato e la destra mostra il suo volto aggressivo. Se si fa appello alla resistenza contro il nascente regime reazionario, si finisce prigionieri di uno schema che non corrisponde alla realtà, e ci si trova di fronte ad un avversario assai più mobile e manovriero, con il rischio quindi di combattere contro i mulini a vento. Sono due approcci unilaterali e devianti, ed entrambi ci conducono ad infilarci in una trappola. Proviamo ad analizzarli e a mettere in luce le ragioni del loro fallimento.

Il primo schema interpretativo si basa sull’idea che tutta la prospettiva politica si gioca al centro dello schieramento, nel vasto campo delle forze moderate e degli strati sociali intermedi, che dunque la sinistra deve riuscire, con una tattica accorta di dialogo, di condizionamento, e di offerta unitaria, a spostare il baricentro dell’area moderata. È la linea che è stata adottata, con qualche parziale successo, nel rapporto con la Democrazia Cristiana: la prospettiva era quella di neutralizzare il centro moderato e di spostarlo gradualmente verso obiettivi sempre più avanzati.

Ma il tentativo di passare, nel rapporto con la DC, dall’occasionalità delle convergenze tattiche alla costruzione di una comune prospettiva strategica si è dimostrato del tutto illusorio. Con la DC erano possibili solo intese parziali e momentanee, e nulla di più. La teoria del «compromesso storico» è rimasta una costruzione ideologica astratta, senza un fondamento nella vita politica reale. Il PCI di Berlinguer si è per questo logorato, puntando ad un obiettivo non praticabile e non realistico.

La DC e stata una grande forza di mediazione, di equilibrio, di aggiustamento, di neutralizzazione dei conflitti: una forza conservatrice, quindi, ma sempre attenta a tenere aperta una linea di comunicazione con l’opposizione di sinistra, a interpretare il suo ruolo non nel senso dell’arroccamento reazionario, ma in quello di una superiore capacità di egemonia, tenendo conto del complesso pluralismo sociale e culturale del paese. In questa situazione, la sinistra aveva una qualche forma di accesso alle decisioni politiche, aveva un potere di condizionamento e di trattativa, ma nello stesso tempo non poteva rappresentare una effettiva alternativa politica. Il sistema era flessibile nelle sue forme contingenti, ma bloccato nel suo equilibrio sostanziale.

Ma ora il regime democristiano è dissolto, e non ha lasciato eredi. Non c’è nessuna continuità di cultura politica, di stile di governo, e questa rottura non è solo l’effetto del sistema maggioritario e della bipolarizzazione del sistema politico, ma di una più sostanziale mutazione, che ha trasformato in profondità tutte le forme della vita democratica. L’eredità democristiana è andata perduta, ed essa è ormai solo uno dei tanti detriti, una sopravvivenza residuale, che si trova costretta a partecipare ad un gioco politico di tutt’altra natura. In questa nuova situazione, è chiaro che non può più funzionare l’approccio politico che è stato usato nei rapporti con la Democrazia Cristiana, non può funzionare cioè una linea di dialogo, di condizionamento, di pressione unitaria, perché non c’è più un interlocutore attento a cogliere gli stimoli dell’opposizione e a costruire un possibile punto di equilibrio, una mediazione politica, che rappresenti per tutti un terreno più avanzato di confronto.

Con la fine della DC, partito della mediazione e del compromesso, è finita anche la centralità dell’area moderata. Non è più il moderatismo il cemento che tiene unito il paese, ma al contrario assistiamo, su tutti i terreni, ad un processo di radicalizzazione e di contrapposizione. L’idea che vince chi occupa il centro è ormai priva di efficacia, perché il centro non è più il luogo dove si condensano le risorse strategiche, ma è solo una linea di frontiera, aperta ad ogni sorta di incursioni e di scorribande, è il luogo della manovra e del trasformismo, ed ha ormai perduto la capacità di tenere sotto controllo l’intero sistema.

Diversa è la situazione, almeno per ora, in altri paesi europei, come la Francia e la Germania, dove resta forte una tradizione di conservatorismo moderato e democratico, che tiene ben ferma la linea di demarcazione con la destra estrema, mentre al contrario in Italia non c’è più nessun confine, nessun presidio democratico, e si smarrisce perciò lo stesso fondamento antifascista della nostra carta costituzionale. Non è ancora chiaro quale sarà, alla fine, la tendenza vincente in Europa, ma comunque non si può considerare il caso italiano come un’anomalia, ma piuttosto come il segno di una tendenza che attraversa in varie forme le società europee e che ha già iniziato a ridisegnare le identità politiche, come dimostra chiaramente l’esempio del Partito popolare europeo.

In conclusione, il rapporto con l’attuale schieramento di centro-destra non può che essere di natura conflittuale, e non ci sono spazi praticabili per un confronto costruttivo o per intese parziali, al di là di quello che fisiologicamente può avvenire nelle sedi parlamentari. Il secondo schema interpretativo presuppone che si sia ormai definitivamente compiuta una trasformazione del nostro sistema democratico in un regime di tipo autoritario, con l’insediamento ai vertici dello Stato di un gruppo di potere che ha avviato una sistematica demolizione dei principi costituzionali e che punta a concentrare nelle sue mani tutte le leve di comando. Di fronte ad una tale evoluzione, l’unica strada che resta praticabile è quella della resistenza, dell’opposizione frontale, della mobilitazione di popolo, il che richiede una fortissima radicalizzazione dello scontro politico.

Questa analisi coglie dei frammenti di realtà, ma non riesce ad inquadrare l’insieme del processo che si sta realizzando. C’è infatti una differenza fondamentale rispetto ai movimenti reazionari del Novecento, i quali puntavano alla costruzione di un dominio politico concentrato e sistematico, organizzando lo Stato come centro esclusivo di regolazione di tutta la vita civile, come strumento di controllo totalitario, sui piano sociale e ideologico.

All’inverso, la destra attuale tende ad esprimere un processo di spoliticizzazione, di privatizzazione delle relazioni sociali: l’obiettivo non è il dominio dello Stato, ma del mercato, e la spoliazione delle prerogative del potere politico in funzione di un modello sociale che si affida al libero conflitto degli interessi e alla forza primitiva e naturale della competizione individuale. Al fondamentalismo dello Stato etico si sostituisce il fondamentalismo del libero mercato, che non ammette nessun vincolo all’infuori dei suoi vincoli interni, delle compatibilità di carattere meramente economico. È il capitalismo nella sua forma matura e dispiegata, che ormai si presenta direttamente come tale, senza dover ricorrere alla protezione del potere politico. Per questo è impropria l’immagine del «regime», incipiente o già in atto, perché ciò che ci minaccia non è la potenza illimitata del politico, ma la sua cancellazione. Più correttamente possiamo parlare di un processo di «americanizzazione», intendendo con ciò un modello di società che punta ad ottenere il massimo di dinamismo e di competitività a scapito delle protezioni sociali, delle regole, dei diritti, con un progressivo ritrarsi dello Stato e dell’intervento pubblico di fronte alla potenza «oggettiva» delle leggi economiche.

L’approccio politico deve partire, per essere efficace, da questo dato della realtà. Non ci troviamo in una società che avverte su di sé il peso di un dispotismo politico, e che si vuole liberare di questo peso oppressivo, ma in una situazione, almeno in apparenza, di allentamento dei vincoli e di liberalizzazione.

Su questo tasto gioca tutta l’azione propagandistica e ideologica della destra: meno Stato, meno tasse, più libertà individuale, meno vincoli burocratici, e anche minor controllo di legalità e giustizia più flessibile. È un messaggio non privo di efficacia, che è largamente penetrato nella coscienza collettiva del paese, e che si rivolge in modo particolare a tutto quell’universo sociale che è immerso nella competizione e nella ricerca del successo individuale. Che la realtà non coincida con la rappresentazione ideologica è un fatto secondario, perché questo è il destino delle ideologie, di essere false ma efficaci, proiezioni astratte che sanno però mobilitare un insieme di forze reali.

Per questo anche la linea della radicalizzazione e dello scontro frontale non riesce a determinare uno spostamento reale nei rapporti di forza, perché non è avvertita nella società, se non in alcuni settori limitati, una situazione di emergenza democratica. Il risultato è quello di congelare la situazione e di fissarla nei suoi schieramenti attuali, perché si parla un linguaggio che mobilita solo chi è già mobilitato e che ricompatta il fronte avversario. Radicalizzare significa tagliare i ponti della comunicazione, e costringere tutti ad una drastica scelta di campo. È una tattica che funziona quando già i rapporti di forza nella società reale si sono spostati a nostro vantaggio, e si tratta allora di realizzare l’affondo decisivo, senza compromessi. Ma in situazioni più problematiche, come è sicuramente quella attuale, significa solo dichiarare guerra senza avere accumulato le risorse strategiche per vincerla. C’è una vasta area di incertezza, di oscillazione, di interrogazione aperta, e questa area, se viene chiamata alle armi, allo scontro frontale, finirà per stare, per forza di inerzia, dall’altra parte della barricata.

Occorre ancora lavorare molto con i se e con i ma, con il ragionamento ponderato e non con le dichiarazioni di fede. C’è ancora un lungo attraversamento da realizzare, nel corpo della società e nelle sue inquietudini, e solo alla fine di questo attraversamento si potranno cogliere dei risultati politici.

Perché non funzionano queste due opposte tattiche del dialogo e della radicalizzazione? Perché entrambe si muovono esclusivamente sul versante della politica, mentre la società è percorsa da un movimento di spoliticizzazione e verso la politica si afferma una posizione di diffidenza, di distacco. Ciò che si muove nella società non può essere pienamente rappresentato e interpretato con gli strumenti della razionalità politica, e il linguaggio politico tradizionale, sia esso quello della moderazione o del conflitto, finisce per scivolare sulla realtà senza afferrarla.

Per uscire da questo dilemma strategico, che rischia di paralizzarci e di riprodurre all’infinito l’antica querelle di riformismo e massimalismo, occorre un cambiamento di ottica, occorre cioè ripercorrere tutto il processo sociale, attraversarlo, calarsi nelle sue contraddizioni e nelle sue incertezze, e solo alla fine cercare di dare una forma politica a questo processo, senza forzarlo, senza costringerlo entro schemi irrigiditi. Occorre abbandonare ogni presunzione di primato della politica, e guardare la realtà da un diverso angolo visuale, per essere in grado di raccogliere tutti gli stimoli e le domande che nella realtà sono depositati. Se il dialogo politico è interrotto, perché la destra attuale non è un interlocutore affidabile, il dialogo sociale è un campo tutto aperto, e qui è messa alla prova l’efficacia di una strategia politica. Si tratta allora di cogliere nella realtà le possibili linee di conflitto e di individuare le basi oggettive, materiali, su cui costruire una prospettiva politica non illusoria: ricostruire dal basso il processo verso la politica, spezzando l’autoreferenzialità di un ceto politico prigioniero delle sue astratte rappresentazioni.

La partita politica si riapre, questa è la mia tesi, solo sulla base di un’azione sociale a vasto raggio, che faccia i conti con l’attuale società individualizzata, non più strutturata secondo blocchi sociali compatti e secondo precise linee identitarie, nella quale si pone, in modo trasversale, una nuova domanda di autonomia personale e di libertà. Non è una società appagata, perché tra la rappresentazione ideologica del neoliberismo e la realtà effettiva delle relazioni sociali c’è un grandissimo scarto: c’è il miraggio di una società liberata, e la realtà di una condizione di dipendenza, di impotenza, di crescente esposizione al rischio, di possibile caduta nella spirale della marginalità.

La dinamica spontanea del mercato lascia le persone in una situazione di aspra competizione e di continua incertezza, poste di fronte alle incognite di una economia globale che sta oltre le loro possibilità di controllo e di previsione. La sfida con la destra è su questo terreno, sul rapporto che si intende instaurare tra individuo e società, tra mercato e regolazione politica. La destra attuale cerca il suo punto di forza in un rapporto con la società immediato, diretto, non politico, saltando le mediazioni, le rappresentanze, le regole e le complicazioni della democrazia. La sua grande carta è l’antipolitica, è il sentimento naturale di diffidenza verso la politica che attraversa da sempre la società civile: alla complessità del discorso politico si sostituisce così il meccanismo plebiscitario, con il suo messaggio semplificato, con il rapporto fiduciario verso il leader, con l’immediata identificazione nel suo messaggio, il quale è solo la proiezione del senso comune, la prosaicità del linguaggio di ogni giorno.

La destra può vincere se questo cerchio si chiude, se infine ciascuno si adatta a ritagliare il suo piccolo spazio privato nell’ordine sociale dato, vissuto come ordine immutabile e naturale, se non c’è più nessuna tensione progettuale tra la coscienza soggettiva e la realtà. Vince l’antipolitica se non c’è più nessun varco verso il futuro.

Ma questo esito non è affatto scontato, e lo dimostrano i numerosi segni di vitalità della società civile. Di fronte al grande evento della guerra, la risposta non è stata la rassegnazione, ma la volontà di costruire un nuovo ordine, una diversa gerarchia nelle relazioni mondiali. L’antipolitica può essere rovesciata.

Ma a questo fine non basta la predicazione etica, ma occorre un lavoro molecolare che ricostruisca il tessuto delle rappresentanze e dell’azione collettiva, così che il singolo individuo venga ricondotto dentro una più ampia cerchia di relazioni, nella quale la sua identità si definisce, sia sotto il profilo degli interessi sociali sia sul terreno della progettualità politica.

In questo schema, che mette al centro le forme sociali, le strutture che regolano la nostra convivenza, risulta di importanza cruciale l’azione delle organizzazioni sindacali e la loro capacità di fare rappresentanza sociale, in una linea di autonomia, senza essere manovrate dall’esterno in funzione di determinati interessi politici. Questa autonomia oggi è messa a rischio, e anche il sindacato, di fronte all’offensiva della destra, fa fatica a presidiare il suo terreno naturale, e subisce una molteplice pressione politica, o per adattarsi ad un ruolo subalterno e corporativo, o per trasformarsi nel braccio operativo dell’opposizione di sinistra.

Per questo torna di estrema attualità l’obiettivo dell’unità sindacale, perché è l’unità la garanzia della forza del sindacato come autonomo soggetto sociale, che organizza un campo di forze e lo fa pesare come tale nelle relazioni politiche e istituzionali.

Ma il discorso è necessariamente più ampio e riguarda tutte le relazioni tra le forze politiche e le forme associative che maturano nella società civile. È necessario che tutti i diversi movimenti, sia quelli più strutturati sia quelli più informali e contingenti, possano sviluppare tutte le loro potenzialità, seguendo la propria logica, la propria interna dinamica, senza dover essere costretti a dislocarsi secondo un criterio di appartenenza politica.

Il sistema politico maggioritario non deve divenire per l’intera società una camicia di forza, per cui tutto deve essere politicizzato, bipolarizzato, privato quindi della sua autonomia e della sua vitalità. Quando si determina questa invadenza politica e questa logica spartitoria, vengono messe a rischio funzioni essenziali della vita democratica, come sta accadendo nei settori dell’informazione e della giustizia.

Noi dobbiamo puntare, all’inverso, sulla piena valorizzazione delle autonomie, nella convinzione che se la società si mette in movimento, con le proprie forze, si riapre anche lo spazio per la politica. È lo scarto tra politica e società che deve essere progressivamente colmato, per ricostruire una linea di comunicazione, e ciò può essere fatto con un’azione politica non invasiva, non calata dall’alto, ma capace di accompagnare e di far crescere i processi sociali e la loro autocoscienza. Si tratta di accumulare le risorse strategiche necessarie per vincere; e queste risorse vanno via via messe alla luce e attivizzate esplorando in tutta la sua ampiezza l’intero giacimento sociale.

La politica, oggi, non è altro che questo lavoro di scavo.

 

Riccardo Terzi, Segretario nazionale dello SPI CGIL. È nato a Milano l’8 novembre 1941. Dal 1975 al 1981 ricopre l’incarico di segretario Provinciale dell’allora Partito Comunista Milanese. Esponente di spicco nella cultura della sinistra italiana collabora con diverse riviste, tra cui Gli argomenti umani ed è membro della Commissione nazionale per il progetto dei DS. Il suo ingresso nel sindacato risale al 1983. Dal 1984 entra nella CGIL Lombardia per essere eletto poi segretario generale regionale. Incarico che ricoprirà dal 1988 al 1994. Successivamente e fino al 2003 viene chiamato dalla CGIL nazionale per diventare responsabile delle politiche istituzionali della confederazione. Torna in Lombardia per ricoprire l’incarico di segretario generale regionale SPI-CGIL, fino al 2006, quando, viene eletto segretario nazionale allo SPI-CGIL con delega all’ufficio Studi e ricerche.



Numero progressivo: H14
Busta: 8
Estremi cronologici: 2003
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa di pagina web
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: Pubblicato in “Democrazia e diritto”, 2003. Ripubblicato in “Sagarana”, n. 50 gennaio 2013, e quindi in “La pazienza e l’ironia”, pp. 207-218