LA GRANDE CITTÀ E I COMUNISTI
Tavola rotonda di Rinascita con Luigi Castagnola vicesindaco di Genova, Maurizio Ferrara, Renzo Imbeni segretario della Federazione di Bologna, Diego Novelli sindaco di Torino, Riccardo Terzi segretario della Federazione di Milano, a cura di Massimo Chiara
Insieme alle questioni del voto giovanile e di quello meridionale il voto urbano è uno dei punti di maggiore crisi nel risultato elettorale del PCI. Perché? Qual è stato l’impatto dell’azione risanatrice promossa dalle giunte di sinistra? Perché i quartieri popolari e operai sono quelli dove abbiamo perso di più? Si tratta solo di un mutato orientamento politico, o dietro il voto si individuano modifiche più di fondo nel tessuto urbano?
Che cosa deve cambiare nel modo di fare politica? Gli interrogativi aperti nella nuova fase.
Rinascita «Nel nostro risultato elettorale, le grandi città, insieme al Mezzogiorno e al voto giovanile, sono uno dei punti di maggiore crisi. C’è una perdita seria che, in maggiore o minore misura, investe tutte le aree geografiche, toccando nelle aree metropolitane livelli preoccupanti. Vorremmo che voi, partendo dalla vostra esperienza diretta di amministratori e di dirigenti politici in alcune delle più grandi città del Centro e del Nord del Mezzogiorno ci siamo ampiamente occupati e continuiamo a occuparci in questo stesso numero ci deste una valutazione di questo fenomeno, e delle lezioni che se ne devono trarre.
Una prima questione. Si è davanti a una sorta di unificazione in negativo. Andiamo vistosamente indietro, con l’eccezione di Firenze e Bologna (ma anche lì c’è una flessione), in tutti i grandi centri, compresi quelli dove nel ‘75 ’76 si erano formate per la prima volta maggioranze ai sinistra.
Si poteva pensare che qui l’azione rinnovatrice avrebbe influenzato favorevolmente l’opinione pubblica, invece non sembra che sia stato così. Allora è prevalso semplicemente il giudizio politico generale, o esiste qualcosa che non ha funzionato anche sul piano locale, difficoltà, errori, ritardi nel capire?»
Imbeni «Non mi convince molto l’idea di una unificazione in negativo. Ritengo anzi che sia stato un errore parlare di unificazione politica del paese dopo il 20 giugno ‘76, definire l’Italia come un paese che era cambiato. Primo, perché non basta un risultato elettorale, sia pure grandemente positivo, a risolvere dei problemi storici; secondo, perché si è in certo modo offuscato il senso della diversità, delle differenziazioni nel campo delle autonomie locali.
Per una lettura corretta del voto questo è un criterio che non si può smarrire. Faccio l’esempio di Bologna. Al Senato abbiamo perso lo 0,6 per conto, il che, se si considerano gli ultimi tre anni, la situazione generale, può anche essere ritenuto un risultato positivo. Ma alla Camera abbiamo perso l’1,6 per cento. E questo allora vuol dire che, in una realtà dove il tessuto democratico è così ricco, cosi saldo, noi riusciamo a tenere; però, se si guarda ai giovani, il dato, nella qualità, si presenta negativamente, quasi allo stesso modo che nella altre città. Dunque è proprio nel risultato delle città che noi dobbiamo vedere sottolineata la serietà e la gravità della questione giovanile, cioè dell’incapacità nostra a cogliere per tempo i mutamenti che si verificavano.
Questa mi pare la questione principale. Parlando di ciò che non ha funzionato sul piano locale, credo che bisogna stare attenti al rapporto tra direzione politica e apparati amministrativi. Dobbiamo riuscire a rivalorizzare il ruolo dei funzionari, dei tecnici, degli impiegati pubblici, altrimenti si rischia di pagare un altro prezzo l’anno prossimo, perché a volte a far giudicare l’amministrazione è più il modo come funzionano gli uffici che non le scelte del governo locale.»
Castagnola «Il 1976 segnò il punto più alto, particolarmente nella città, del voto di sinistra, del voto al nostro partito, nel quale confluivano elementi e fattori diversi, ma certo più di tutti la domanda di cambiamento. Negli ultimi tre anni è proprio nelle città che si sono acutizzate tutte le contraddizioni dallo sviluppo economico e sociale. E quindi, secondo me, non è per caso che in questo ambito si sia risentita di più la contraddizione fra la politica del risanamento, fra gli obiettivi che si erano posti e i risultati concreti. Su questo punto il voto ha espresso chiaramente un dissenso, ha detto che sbagliavamo, avendo di fronte una richiesta di profonde innovazioni e di profondi cambiamenti, a ritenere che i risultati raggiunti, anche di grande importanza come la salvaguardia dell’occupazione e la difesa nel salario, potessero esaurire le richieste e le attese che vi erano su altri delicati problemi.
Abbiamo di fronte il grande tema del rapporto popolare con le forze politiche, con il sistema rappresentativo, il tema della partecipazione. È superfluo ripeterci qui che questo rapporto democratico lo abbiamo enormemente accresciuto rispetto al passato. Ma bisogna avere chiaro che in una grande città il rapporto fra e con le istituzioni e le forze politiche o avviene su un grande progetto di trasformazione, nel quale si collocano i singoli provvedimenti tariffe, case, risanamento oppure può anche succedere che, se fai un’assemblea, alla fine tutti dicano che sono d’accordo, com’è successo; ma poi nel voto una parte, com’è accaduto, si dissocia.
La questione dei giovani è certo fondamentale. Non ci dobbiamo però dimenticare delle persone anziane. Voglio dire solo un dato: a Genova, gli elettori con più di 60 anni sono 200.000 su 640.000. Questo ci richiama all’esigenza di conoscere meglio la composizione del corpo sociale, per misurarci meglio con i problemi della città.»
Terzi «A Milano tra la città e il complesso della provincia abbiamo avuto nel voto uno scarto sostanzialmente irrilevante, un risultato abbastanza uniforme. Uniforme è anche la perdita tra le fasce del centro cittadino, quindi l’elettorato di ceto medio, di piccola borghesia, e le fasce periferiche (se mai è in queste ultime che la situazione si aggrava); per cui non so se sia giusto individuare come uno dei tratti caratteristici del risultato del 3 giugno il voto urbano, almeno per Milano questo non si verifica. Io ritengo che al fondo ci siano essenzialmente delle ragioni di carattere politico generale, anche se questo non esclude la ricerca di fattori più specifici, di difficoltà che possiamo avere avuto in questo o in quello strato sociale come riflesso del modo come abbiamo governato la città.
Quali sono le ragioni politiche? In sostanza, mi sembra che siamo andati alle elezioni nel quadro di un logoramento progressivo della politica di unità nazionale, e quindi la prospettiva su cui abbiamo lavorato in quest’ultimo periodo di tempo è apparsa molto offuscata, ed è apparsa offuscata la nostra funzione come forza di alternativa. Questo ha dato luogo a fenomeni di malessere, di incertezza, di protesta, che si sono verificati in varie forme, dall’astensionismo al voto radicale. Ma al fondo c’è questo elemento, una crisi della politica di unità nazionale, un offuscamento anche nella prospettiva che abbiamo indicato nel corso delle elezioni. Quindi io credo che la lezione da trarre è essenzialmente politica, cioè un’esigenza di verifica e anche di correzione, per alcuni aspetti, della prospettiva con cui lavoriamo. Ciò senza escludere, lo ripeto, altri ragionamenti che riguardano più propriamente la condizione urbana, le difficoltà di collegamento con determinati strati sociali, che nella città sono più acute.»
Ferrara «Concordo largamente con quello che ha detto Terzi, nel senso che non credo che si debba cercare una specificità particolare nel voto delle grandi città. Se c’è un elemento di unificazione in negativo, sta proprio nel fatto che questo è l’andamento elettorale dappertutto, nelle città, nelle campagne, nel Sud, nel Centro, nel Nord.»
Castagnoli «Scusa, io naturalmente sono d’accordo sul fatto che c’è un giudizio generale, ma, se non ricordo male, un terzo della differenza di voti in meno rispetto al ‘76 è nelle grandi città; quindi una particolarità resiste, anche se naturalmente non dobbiamo isolarla dal dato generale…»
Ferrara «Sì il problema delle grandi città esiste sempre, perché sono in sé forme di aggregazione diversa, su questo non c’è dubbio, e quindi determinati riflessi vengono sempre esaltati in positivo e in negativo. Ci ricordiamo tutti del balzo incredibile che nel ‘76 ci furono a Napoli, a Roma. Però il dato è un dato di ordine generale, e se si fa il confronto col 20 giugno credo che l’accento vada mosso su una sorta di inversione di tendenza nella forma di aggregazione del voto politico a sinistra.
Se nel ‘76 il voto al PCI è stato aggregante per l’insieme della sinistra, o per sua langa parte, il 3 giugno questo non si è verificato. Secondo me non per una somma di errori locali, perché in questo caso avremmo delle differenze molto più profonde. Del resto, come ricordava Imbeni, anche il risultato di Bologna conferma questa tendenza che dicevo. Lì le perdite sono infinitamente minori, l’Emilia Romagna è alla coda del processo negativo, ma c’è dentro anch’essa.»
Novelli «Io non mi sento di escludere eventuali ritardi, difficoltà, errori anche nostri sul piano locale. Le stesse cose che abbiamo fatto – parlo per Torino – possono aver provocato delle controspinte: cioè, quando si agisce per cambiare ovviamente si toccano interessi, anche piccoli interessi, egoismi, pigrizia anche. Intanto io farei una distinzione anche all’interno delle grandi città, tra quelle che hanno ormai un assetto determinato, consolidato, e quelle caratterizzate da uno sviluppo rapido, tumultuoso, caotico. Quest’ultimo è un fenomeno sottovalutato da tutti, anche dal partito; e dire che c’era un’esperienza vissuta, sofferta, in altre realtà europee e d’oltre Atlantico, che avrebbe dovuto insegnare qualcosa.
Lo stesso fatto del terrorismo, per esempio, il non aver capito che il terrorismo avrebbe concentrato la sua azione in tre, quattro grandi aree metropolitane, e che quindi lì bisognava concentrare la risposta. Quando andavo al Viminale per discutere un rafforzamento dei carabinieri a Torino mi rispondevano che non si potevano sguarnire le altre città, anche quelle piccole dove il problema non esisteva.
E come non è stato visto in modo adeguato il problema del terrorismo, abbiamo sottovalutato anche i guasti prodotti da uno sviluppo selvaggio, ispirato da un malinteso concetto della libertà e della libera iniziativa; guasti che non toccano solo il tessuto urbanistico, l’ambiente, il volto della città, ma sono guasti nel profondo dell’anima della città, cioè a livello delle coscienze. Bisogna vedere fino a che punto questo non abbia intaccato anche settori del movimento operaio, sul piano dell’individualismo esasperato, del corporativismo, dell’egoismo, dell’incapacità di portare avanti una linea di rinnovamento.
A Torino, lo spostamento non è stato verso il centro e la destra, ma si è espresso in un voto di protesta verso i radicali – inteso in larga misura come voto a sinistra – o nel fenomeno dell’astensione, delle schede bianche e nulle. Per ciò che riguarda i radicali essi hanno potuto avvalersi anche di carenze del nostro partito su certi terreni di lotta dove dovevamo muoverci per primi, con posizioni nostre e con maggiore incisività.»
Rinascita «Ma quali sono le fasce urbane nelle quali l’arretramento è stato maggiore? e in che misura è lecito parlare dell’emergere di una “questione operaia”, come si è fatto dopo i risultati di alcuni quartieri di Torino o di Milano? Che significa la perdita di consenso in zone popolari come le borgate romane?»
Castagnola «Per quello che riguarda Genova, il dato più negativo non è quello operaio, anche se nelle zone operaie ci sono risultati non soddisfacenti, ma quello delle zone miste dove, insieme agli operai, ci sono gli altri lavoratori dipendenti, particolarmente, anche se non soltanto, del pubblico impiego. In una città nella quale esistono 40.000 famiglie che sono legate all’occupazione in questo settore hanno avuto effetti pesanti, alcuni oserei dire devastanti, i guasti determinati dalla storia contrattuale, gli errori del movimento operaio e del sindacato. Basta pensare, per esempio, alla condizione retributiva dei dipendenti degli enti locali, delle municipalizzate, ecc., di cui è stato tatto carico alle amministrazioni di sinistra, quando si sa che dipende dalla contrattazioni nazionali. Il malumore per le disparità di trattamento economico determina le condizioni per un risentimento e un rancore che si trasforma in presa di posizione politica (ci sono molti voti che sono diventati radicali in questo modo). E certo ha ragione Imbeni ha un peso importante anche il problema della cultura dell’apparato pubblico, di quello che viene richiesto alle masse dall’apparato pubblico e che esso, per ragioni diverse, non riesce a dare.
Naturalmente, io credo che il dato che accomuna tutti questi atteggiamenti negativi è un dissenso nei confronti della politica di unità nazionale cosi come si è realizzata. Non nei confronti del progetto come tale, ma del modo come è stato inteso, come una sorta di subordinazione, di subalternità nei confronti di scelte nazionali, o addirittura internazionali, fatte dalla Democrazia Cristiana.»
Novelli «A Torino l’arretramento più grave l’abbiamo registrato nei quartieri di edilizia economica e popolare. Possono essere considerati quartieri operai in senso classico? Certo, non ci vive la borghesia, sono quartieri proletari, sottoproletari, c’è un po’ di tutto, sono quartieri verso i quali abbiamo cercato di condurre un’azione anche di risanamento, edilizio, urbanistico, sociale, culturale, con un grosso impegno delle amministrazioni. Ma fra tutte le misure c’era anche quella di far pagare gli affitti, il riscaldamento, le spese minime, tenuto conto della situazione disastrosa che abbiamo ereditato. Quale sia stata la reazione, può dirlo un episodio che voglio citare. In uno di questi quartieri, dove vivono 700 famiglie, a quattro anni di distanza non sappiamo ancora chi abita in 152 alloggi, perché gli inquilini si rifiutano di declinare le generalità, di dire da quante persone è composta la famiglia. Di fronte a situazioni di questo tipo abbiamo sempre scelto la via del discorso, del colloquio, della convinzione, del coinvolgimento, distaccando un assessore in quel determinato quartiere, per parlare con la gente, con i partiti, i sindacati, la parrocchia. Non abbiamo mai chiamato i carabinieri.
Se il voto è un prezzo che abbiamo pagato, io ritengo che sia un prezzo inevitabile, nel senso che la nostra è stata una scelta giusta. Se mai la carenza è stata nella capacità nostra come partito di far crescere una coscienza in tempi più rapidi. Debbo dire, per l’esattezza, che in alcuni quartieri più di tradizione operaia torinese, tipo Borgo San Paolo, cioè non i quartieri ghetto ma le vecchie Barriere, il calo dei partito è stato minore; comunque la perdita c’è stata, tenete conto che in alcune zone abbiamo perso fino ai 20 per cento.
Per quanto riguarda i giovani, più che aver perso voti secondo me non ne abbiamo conquistati. Bisogna tener conto che da noi le difficoltà di un discorso sono maggiori: se il comunista di Bologna deve discutere con un nostro elettore e mezzo, io con due, a Torino gli interlocutori diventano sedici, quindi è anche più difficile contrastare l’azione di disorientamento che certo verso i giovani è stata massiccia, anche su iniziative locali che io difendo, come quella del questionario sul terrorismo. Poi i giovani li conquisti alla nostra idea di cambiamento se li coinvolgi, se hai la capacità di dargli un obiettivo. Noi, questo discorso del volontariato, della mobilitazione del giovane per un lavoro utile alla collettività, non siamo riusciti a portarlo avanti.»
Imbeni «A Torino perdiamo voti nei quartieri dove c’è in prevalenza un’edilizia economico popolare; a Bologna ci sono seggi dove pendiamo il 6% dei voti, e sono proprio dello stesso tipo. Allora ci sarà anche qualche valutazione da fare a livello locale, e forse anche sull’incidenza negativa che la politica di unità nazionale ha avuto proprio sul partito e sulle amministrazioni dirette da noi. Io mi sento di dire che c’è stata una centralizzazione eccessiva: in questi tre anni i comuni, le province e le regioni hanno pesato politicamente meno di prima, meno di quanto pesavano le regioni e i comuni rossi.»
Novelli «Scusa, al convegno del Gramsci abbiamo sentito compagni autorevolissimi mettervi sotto accusa perché avevate fatto troppi asili, dovevate vergognarvi un po’ di averle dissipato…»
Imbeni «Dicevo che anche a Bologna abbiamo avuto una diminuzione di voti nello zone di edilizia economico popolare, però con questa differenza: che perdiamo dove c’è stato l’aumento dell’affitto senza che cambiasse nulla della condizione abitativa, mentre andiamo avanti dove, accanto all’aumento del fitto, la condizione abitativa è migliorata. Voglio dire che ha pesato il fatto che a Torino, come a Bologna, come a Roma, abbiamo avuto il potere di aumentare l’affitto, ma non quello di costruire case. Abbiamo avuto il potere di aumentare la tariffa dell’autobus, ma non quello di rifare il sistema dei trasporti in Italia. Abbiamo avuto il potere di approvare a livello nazionale una decisione giusta da vari punti di vista come quella del ticket, ma non abbiamo avuto il potere di combattere la speculazione farmaceutica, e in ogni riunione di anziani e di pensionati questi problemi te li sentivi porre. Nel complesso, direi però che l’azione delle giunte nostre non ha giocato nel senso di ‘aggravare l’esito negativo del voto, semmai mi sembra vero il contrario. Penso che se si fosse votato nel 1977 o nel 1978 sarebbe andata cosi, o forse anche peggio.
A Bologna la questione vera che emerge non è quella operaia, ma quella giovanile. Con i giovani da 18 a 20 anni non riusciamo a parlare: se i radicali chiedono che Almirante parli a Piazza Maggiore ci sono dei giovani che si domandano perché non sia giusto farlo parlare, se chiedono la liberazione di Reder, il massacratore di Marzabotto, nasce lo stesso un problema tra i giovani. Il punto vero è qui.»
Ferrara «Per Roma credo che si debba parlare dell’emergere o del riemergere di una questione popolare cioè, del tipo di rapporto che si rinstaura tra determinati strati popolari e gli organismi del governo amministrativo cittadino. Per trent’anni, credo che a Roma la gente non abbia nemmeno saputo come si chiamava il sindaco democristiano. Forse, dopo Nathan, il sindaco più popolare e lo voglio dire malgrado sembri in contraddizione con il voto che Roma ha avuto è stato ed è Argan.
La gente ha subito i Rebecchini, i Cioccetti, i Darida identificandoli puramente e semplicemente col governo, con la DC, non c’era mai stato questo rapporto fecondo tra il popolo e il suo comune.
Il 3 giugno vi è stato il risvolto negativo. Abbiamo misurato la pochezza del tempo avuto a disposizione per dare la sensazione, la prova che l’opera di risanamento non era fondata solo su dei sacrifici che si chiedevano alle fasce più popolari. Siamo stati colti non dico a metà, ma all’inizio del guado, nella fase più difficile, quando avevamo messo mano al risanamento, e questo comportava novità impopolari, come l’adeguamento degli affitti, delle tariffe, un minimo di riorganizzazione del caos. Evidentemente questa riorganizzazione non solo non è stata capita, ma è stata anche rifiutata in quanto presuppone un prezzo da pagare, e su questo terreno elementi oggettivi, storici, di arretratezza del rapporto tra popolo e comune a Roma sono venuti fuori con estrema chiarezza. Questo la DC l’aveva sempre capito, tant’è vero che non ha mai fatto nessuno sforzo per imporre nella città una cultura civile. Così, la risposta al nostro tentativo è stata una protesta popolare contro il PCI, considerato in alcune fasce urbane come il portatore di una politica contraria agli interessi, che so, del pensionato, dell’affittuario che non paga l’affitto, di quello che ritiene un suo diritto non pagare il tram, la luce, il gas, come compenso di tutte le cose che non ha mai avuto dalla città (perché c’è anche questo).
Basta guardare il dato disaggregato. In alcune zone popolari classiche di Roma perdiamo oltre il 10 per cento, in molte borgate scendiamo al risultato del ‘72, e in alcuni casi anche sotto, mentre nel centro storico conserviamo almeno una fetta del voto del 20 giugno.»
Rinascita «Ma i voti popolari che abbiamo perduto dove sono andati?»
Ferrara «Si sono equamente divisi fra tutte quelle forze che si sono presentato in opposizione alla politica della regione e del comune, ivi compresa la DC; quindi non solo i radicali, i liberali e i socialdemocratici, ma anche la DC è riuscita, a convogliare su di se il malcontento popolare. Non va dimenticato che a Roma la DC, malgrado l’intesa alla regione, per lungo tempo ha condotto un’azione di lotta alla napoletana contro il comune e la regione stessa, organizzando marce di baraccati e di sinistrati, stando dentro a tutte le questioni, incluse le più corporative.
Per quanto riguarda i giovani, direi che il loro voto si colloca in modo abbastanza coerente nel quadro di una protesta popolare – di questo si tratta a Roma – che ha colpito il partito comunista. Hanno continuato a votare, nella loro opinione, “più a sinistra”, quindi scavalcandoci. È l’altro dato su cui bisogna riflettere.»
Terzi «Alcune delle cose dette non mi convincono. Dire che abbiamo pagato un prezzo inevitabile perché abbiamo fatto una politica giusta, colpito certi interessi, cercato di mettere ordine nel caos, e questo ci ha messo contro strati consistenti della popolazione urbana, mi sembra assurdo perché la conclusione, a questo punto, sarebbe che bisogna tonnare a fare una politica sbagliata. Se c’è una divaricazione tra quello che diciamo noi e quella che è la coscienza generale del paese, possiamo anche avere ragione, ma è una ragione che non conta.
Cercherei di andare un po’ più a fondo, anche perché un’immagine della condizione urbana tutta dominata dall’egoismo e dalla disgregazione, dalla incapacità di cogliere interessi generali, francamente non la condivido.
Aspetti di questo tipo ci sono in alcune zone, in alcuni strati, ma abbiamo un tessuto civile e democratico che tutto sommato regge. Che cosa, non ha funzionato? Non ha funzionato anche un nostro modo di rapportarsi a questa realtà. Si pongono ancora delle questioni politiche. E una di queste riguarda il giudizio che abbiamo dato della crisi economica rispetto alla coscienza che ne aveva la gente.
Non credo che uno degli assi portanti su cui abbiamo costruito la nostra linea politica, ii tema dell’austerità, fosse una indicazione in cui si riconoscessero le grandi forze sociali del paese; anche perché abbiamo caricato di significati morali, mentre forse era più comprensibile un ragionamento più legato alla valutazione oggettiva della situazione, delle risorse, all’obiettivo di un loro uso razionale ed equilibrato. Qui c’è stata una dissonanza con quelle che erano le esigenze diffuse, lo stato d’animo, la sensibilità di grandi masse.
Quindi la penalizzazione avuta dal voto, e l’abbiamo avuta, non a caso, anche in certe zone di classe operaia, ci pone una questione di linea politica. Non scarichiamo la responsabilità sugli elettori che non ci hanno capito, che sarebbero tutti affetti da posizioni corporative. Guardiamo a come ci siamo mossi noi in certi settori, per esempio nel settore degli impiegati, dei tecnici, dove una linea di appiattimento e una certa astrattezza egualitaristica hanno prodotto conseguenze negative che si riscontrano anche nella tenuta di questi settori nel corso delle lotte contrattuali.
E vengo al voto giovanile. Scartando una visione catastrofica del problema, perché i nostri elementi di indagine ci danno un voto sostanzialmente sulla media del voto generale, mi domando quale tipo di immagine del partito possono avere quei giovani che hanno oggi diciott’anni e che hanno cominciato a seguire la politica dopo il ‘76. L’immagine è quella di un PCI che è sempre stato in qualche modo nell’area di governo. Se per chi ha una coscienza storica del passato si trattava di una fase travagliata in cui si avviava un certo processo, tutto questo e un po’sfuggito alle generazioni più giovani. Quindi la campagna sul regime DC-PCI poteva fare facilmente presa, perché questi giovani il nostro partito lo hanno conosciuto soltanto come partito che faceva parte del sistema di potere, sistema di potere che poi non ha risolto i problemi della condizione giovanile, anzi li ha per molti aspetti accentuati e aggravati. Essenzialmente, da noi il voto giovanile va al partito radicale, nella misura del 17 per cento, ciò che ne fa il terzo partito a Milano tra i giovani. Ma probabilmente c’è anche un mutamento di parametri culturali rispetto alla generazione del ‘68 e all’estremismo che ne è derivato, c’è una formazione culturale ideale molto diversa che non siamo riusciti abbastanza a valutare.»
Novelli «Una piccola precisazione su quello che ha detto Terzi. Sono d’accordo con lui quando ci richiama giustamente alla considerazione realistica della situazione. Però credo che sarebbe sbagliato non tener conto, proprio perché vogliamo partire dalla realtà, che una percentuale sia pure minima di quel 6 per cento che abbiamo perso l’abbiamo persa anche perché facevamo una politica giusta…»
Ferrara «Una politica giusta può esigere delle misure che non sono popolari…»
Novelli «Io non mi scandalizzo affatto di quell’immagine dell’austerità che avremmo dovuto dare, non solo come mezzo pragmatico per superare la crisi, ma come prospettiva di società diversa. Ma non siamo riusciti a dare questo respiro; un ritardo, un’arretratezza culturale ha investito anche il partito. Dell’austerità e passata soltanto la caricatura.»
Imbeni «Noi abbiamo fatto scelte coraggiose, che andavano nella direzione del contenimento della spesa pubblica, del riequilibrio di certe situazioni. Però siamo riusciti poco a indirizzare la protesta, la rabbia e la lotta nella direzione dello sviluppo del paese…»
Novelli «Scusate, ma insisto sul fatto che è stata lasciata passare un’immagine caricaturale dell’austerità, e questo per responsabilità anche di nostri compagni dirigenti, e di un certo modo assurdo di fare politica. Che così non potessimo aspettarci dei buoni risultati era prevedibile, l’esistenza di un profondo malcontento era stata segnalata per tempo, ma non abbiamo fatto nulla per porvi riparo.»
Rinascita «Torniamo al tema specifico di questa tavola rotonda. Un punto sul quale ci si interroga è se il voto del 3 giugno rispecchia soltanto un giudizio negativo sulla nostra politica, il mutamento di orientamento politico da parte di un’aggregazione sociale sostanzialmente invariata rispetto a quella che determinò la nostra avanzata del ‘75 ’76, oppure dietro questo voto si intravedono anche spostamenti sociali, modifiche più di fondo nel tessuto urbano.»
Imbeni «Se guardiamo a quello che è successo in questo triennio, bisogna cominciare dal 1977, perché il marzo di quell’anno ha segnato l’inizio di una situazione, dal punto di vista democratico, molto seria; una situazione di grande ambiguità e di forti contrasti sia all’interno di quel movimento sia, più in generale, anche in una parte dell’opinione pubblica e di forze sociali intermedie. Ma, come il ‘68, anche il ’77 mette in evidenza processi di trasformazione sociale. Noi non l’abbiamo visto per tempo, perché ci ha fatto velo il modo come si è manifestata questa trasformazione sociale che, se nel 1968 era scolarizzazione di massa, nel 1977 è disoccupazione qualificata di massa. Ci ha fatto velo fatto che il fenomeno si è espresso in gran parte in termini di violenza diffusa, di estremismo, di intolleranza, di intimidazione. Il PCI è divenuto partito di massa quando i contadini erano otto milioni, adesso sono meno di tre; gli studenti, se sommiamo universitari e medi, sono molti di più. Vedere un movimento che emerge confusamente in forme violente, ripeto, ci ha impedito di vederne la dimensione sociale e di cogliere in tempo la nuova contraddizione emergente tra questo fenomeno e una organizzazione del lavoro e produttiva incapace di dare una risposta alle sue domande.
Secondo me, non avevamo molti spazi per agire diversamente da come abbiamo agito allora, dovevamo collocarci nettamente sul terreno della difesa della democrazia. Ma, ecco l’altro argomento su cui dobbiamo riflettere, occorreva e occorre vedere con più attenzione qual è il rapporto tra crescita della disoccupazione qualificata e tessuto urbano, e crisi del tessuto urbano.
Ci sono figure sociali meno definite che in passato, e diverso è anche il ruolo del settore terziario. Bisogna essere più attenti verso queste stratificazioni intermedie che non sono definibili secondo i vecchi schemi, prestare più attenzione, oltre che ai dati economici e alla condizione di lavoro, alla condizione di vita complessiva.»
Terzi «Io non credo che si possa parlare di mutamenti radicali avvenuti in questo triennio nelle condizioni della vita urbana. Mi sembra perciò che il cambiamento dei rapporti politici emerso dal voto si debba essenzialmente motivare con ragioni politiche. Intanto va colta l’accentuazione dei fenomeni di mobilità nel voto, in misura non conosciuta in passato: nelle grandi città c’è almeno un 10 per cento di elettori che ha votato in un modo il 3 giugno e in modo diverso la domenica successiva. Questa maggiore mobilità non credo sia da valutare troppo ottimisticamente come segno di incivilimento, di superamento dell’ideologismo. È piuttosto, secondo me, un segno di profonda incertezza, così come lo è anche il livello di astensione raggiunto questa volta.
D’altra parte noi stessi, nel 1976, eravamo abbastanza consapevoli di aver conquistato una larga fetta di voto di opinione, che aveva tutta la fragilità che caratterizza fenomeni di questo tipo. Quindi il rischio di uno sbandamento, di una corrente d’opinione di segno contrario rispetto al ‘76 l’avevamo presente, soprattutto nelle città, dove il fenomeno e più vistoso essendo più debole il rapporto organico delle forze politiche con la popolazione. Un secondo elemento è il fatto che non siamo riusciti – e probabilmente è difficile dare a questo tema una risposta – a individuare forme di organizzazione della vita democratica che siano all’altezza della dimensione urbana. Anzi il fatto che sia un po’ entrata in crisi l’idea che attraverso la moltiplicazione dei centri di partecipazione si vada avanti in un progetto di rinnovamento, ha ulteriormente accentuato fenomeni di distacco, di disorientamento. Io credo che non siamo riusciti bene a dire come vogliamo riorganizzare la condizione urbana, al di là di certe cose un po’ generiche o cose che, ribadisco, sono un po’ discutibili, come l’austerità. Sento che qui c’è un limite nostro, e questo spiega forse di più anche certe oscillazioni nel comportamento elettorale, l’accentuata mobilità, il voto giovanile. In questo senso c’è certamente una particolarità urbana.»
Castagnola «Nelle città – non solo in esse, ma nelle città certo più acutamente – ci troviamo a vivere un momento in cui alcuni elementi decisivi per lo sviluppo del paese e per il suo rapporto col mondo si presentano con forza maggiore rispetto al passato. Se posso tornare un momento sulla questione dell’austerità, mi sembra di dover dire che noi abbiamo anticipato qualcosa che nell’esperienza della gente veniva considerato non reale, e ci è stato attribuito un desiderio fra il puritano e non so che altro di incapsulare la vita delle masse, prescindendo dalla nostra valutazione sulla crisi e sul fatto che ci troveremo sempre di più a fare i conti con la penuria delle risorse. Bisogna prendere atto di questo elemento, come dell’altro che, oltre ai voti di meno che abbiamo trovato nelle urne, ci sono i voti comunisti e tra di essi i voti di persone che non sono convinte. Ma i problemi restano quelli che sono, e io credo che la validità della indicazione da noi data fosse questa, che si dovesse lavorare d’anticipo rispetto a quanto sarebbe potuto accadere nel 1979, nel 1980 e negli anni successivi. Il fatto che il paese non ha lavorato d’anticipo ha avuto una serie di ripercussioni nelle città.
Nelle città noi, parlo soprattutto di quelle dove abbiamo cominciato ad avere responsabilità di governo dopo il 1975, abbiamo cercato di affermare metodi diversi di gestione. E naturalmente questo lo abbiamo pagato in termini di sviluppo, perché e stato giusto sostenere che le città non devono svilupparsi, nel senso che non ci deve essere lo sviluppo delle aree metropolitane, che non ci dove essere un ulteriore scompenso fra il Nord e il Mezzogiorno; ma poi non abbiamo avuto quello che in tutti i documenti, in tutte le prese di posizione e nei pilastri della strategia veniva considerato indispensabile a questo fine, cioè la crescita del Mezzogiorno, della agricoltura, dell’occupazione. Abbiamo anche dovuto misurarci con questo tipo di problemi avendo un movimento sindacale che tirava in un’altra direzione, secondo un’altra ottica, che si può capire: io ho il massimo di rispetto per i bisogni e per le esigenze. Purtroppo c’è un divario crescente tra la soddisfazione dei bisogni e la realtà delle remunerazioni, della condizione economica, delle risorse.
Fronteggiare le conseguenze della crisi è un grande problema politico, per una linea di trasformazione che vuole avere il consenso.»
Ferrara «Mi pare pertinente il richiamo di Imbeni al ‘77. Io vedo un collegamento tra quel movimento e il voto giovane di oggi, il voto radicale. La contestazione autonoma del 1977 è innanzitutto una contestazione del ruolo del sindacato, della funzione dei comunisti nel sindacato l’aggressione al comizio di Lama nell’università ha questo senso e la ritroviamo poi in forme differenti nella tematica portata avanti dal ‘77 a oggi, in particolare dal Partito radicale. Credo che un elemento di autonomia c’è in questo voto dei giovani, di autonomia in un senso più ampio di ciò che il termine significa in riferimento a questo o quel gruppo, di autonomia, indipendenza, distacco da quelli che sono i centri politici tradizionali del paese. Secondo me, la ricerca di un’aggregazione autonoma dentro la sinistra, contro il PCI, non si esprime solo nell’attività dei gruppi autonomi organizzati e conosciuti, come quello di Padova o via dei Volsci.
Credo che l’area sia più ampia, e che il Partito radicale abbia avuto la capacità, grazie a una particolare formazione e a un particolare metodo di lavoro, di aggregare consensi in quell’area, portandola al voto.
Penso che il richiamo al ‘77 sia da farsi non per andare a riesaminare ciò che dovevamo o non dovevamo fare, ma come richiamo a un momento nel quale, dopo il ‘76, in presenza di un quadro politico che andava determinandosi come nuovo punto di riferimento, scatta – non solo fra gli studenti, perché il ‘77 è l’anno anche della nascita degli scioperi selvaggi, del sindacato autonomo, autonomo dalla CGIL, dalla Federazione unitaria – una molla di nuova opposizione, che, sia pure confusamente, ha avuto una sua incidenza nella società civile e in particolare nelle grandi città.»
Novelli «Cosa dove essere una città?
Questa domanda ce la siamo posta nel momento in cui abbiamo assunto la responsabilità del governo di Torino.
Rifiutata la logica della Fiat, cioè quella dello sviluppo indiscriminato, abbiamo scelto l’altra via: quella di contenere la crescita e di avviare dei processi che tendessero a dare un segno d’inversione di tendenza. Perciò ritengo di non apparire presuntuoso se mi dichiaro convinto di poter escludere che vi sia stata una nostra incapacità di far fronte alla crisi del tessuto urbano. Noi non lanciavamo uno slogan elettorale, quando abbiamo detto: investiamo a livello delle coscienze, creiamo le condizioni perché i bambini che oggi hanno tre anni fra dieci anni siano diversi dai loro fratelli maggiori che oggi ne hanno quattordici. E un progresso nella coscienza generale dei guasti del passato credo che vi sia stato.
Per quanto ritarda il ‘77, che anche per noi ha significato una svolta nella vita della città, è difficile valutare quali conseguenze i problemi del terrorismo avrebbero potuto provocare se non ci fossero state le amministrazioni nostre, se le istituzioni non avessero risposto con una presenza totale, a tempo pieno, non avessero dato alla cittadinanza un punto fermo di riferimento democratico. A Torino non c’è stato un solo episodio di spinta reazionaria, nessuna richiesta in favore dell’inasprimento delle leggi, della pena di morte, di una giustizia sommaria, nemmeno nel momento più feroce dell’attacco terrorista. E quando in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il presidente del tribunale dei minorenni mi dice – cito soltanto un esempio che mi pare significativo – che il nostro lavoro ha avuto dei risultati, che a Torino abbiamo un sensibile calo della delinquenza minorile, mi confermo nell’opinione che, con tutti i correttivi e gli aggiustamenti che si possono apportare, la strada che abbiamo imboccata resta quella giusta.»
Rinascita «Veniamo a un’altra questione, quella del partito. Le difficoltà della sua vita e del suo rapporto con le masse nelle grandi città sono note, non datano da oggi. Il voto del 3 giugno accresce l’urgenza di un esame approfondito su questo tema. Deve cambiare qualcosa nell’organizzazione, nelle strutture, nel modo di far politica.»
Castagnoli «Per quello che riguarda l’esperienza di Genova, posso dire che negli ultimi tre anni il partito si è sentito sempre stretto tra le esigenze della politica di unità nazionale da un lato, e dall’altro la necessità di non moltiplicare i punti di frantumazione e di dissenso. Credo che adesso per poter essere all’altezza come attività nella società, nelle istituzioni, nelle masse, nella classe operaia, sia intanto necessario non restare sulla difensiva.
Non restare sulla difensiva non significa soltanto limitarsi a spiegare o rispondere alle contestazioni, ma farsi di più portatori davvero di un disegno di trasformazione, cioè essere organizzatori di una lotta per realizzarlo.
Una seconda questione, che è un grande problema del funzionamento della democrazia ma anche un problema del nostro partito, è la dimensione nella quale si svolge il lavoro politico; dimensione che è imposta dalla particolarità o della fabbrica, o della scuola, o del quartiere o addirittura della strada, di un pezzo di strada. C’è una frammentazione, e molto spesso la piccola dimensione prevale sulla grande, obbligando anche la stessa nostra organizzazione di partito a muoversi in questo limite, sui piccoli problemi della vita cittadina; anche se magari si tratta di qualcuna delle tante leggi che fanno parte dell’elenco di quelle di cui si discute oggi nel partito, come ad esempio l’equo canone. Un punto, questo, su cui l’iniziativa del partito, in termini di movimento, di lotta e via di seguito, si è trovata in grave difficoltà.
Io penso, per finire, che se il partito deve sottolineare il primato della politica, non deve commettere l’errore di pensare che l’amministrazione sia un gradino diverso dalla politica. Qui il nostro impegno, particolarmente nelle nostre città, deve essere portato avanti.»
Terzi «In questi anni c’è stato un processo di adeguamento organizzativo, di sviluppo del partito: costruzione di nuove sedi, aumento del numero delle sezioni. Con fatica, questo processo mi pare che siamo riusciti a portarlo avanti. Ma c’è qualche considerazione da fare. Una è che, accanto al potenziamento della nostra realtà organizzativa, c’è una perdita di peso politico della sezione: troppo spesso la sezione è soltanto l’ultimo gradino di una macchina organizzativa che prende tutte le sue decisioni ad altri livelli. Una seconda considerazione e che in una realtà urbana complessa, per quanto possiamo potenziare la nostra rete organizzativa, questo non basterà. C’è bisogno di costruire un sistema un po’ più complesso, un sistema di centri di vita democratica, di associazionismo, di collegamento organizzato con la gente, che non può essere dato solo dalla sezione. A Milano, ma credo che il dato sia valido anche per altre città, noi troviamo una differenza considerevole tra alcuni vecchi quartieri che ancora mantengono, anche se con qualche sfilacciamento, un tessuto democratico complesso, e la realtà di quartieri di nuova costruzione, dove siamo riusciti a malapena a trovare il locale per la sezione del partito e al di là della sezione non c’è nulla.
Per quanto riguarda il modo di lavorare del partito e anche il suo orientamento politico, credo che in alcune situazioni noi scontiamo ancora di un certo integralismo di partito, nel senso che sono realtà un po’ chiuse, che non riescono a confrontarsi abbastanza con i movimenti in atto nella società, con la realtà giovanile, la realtà degli strati del ceto medio urbano, che hanno poca capacità di far crescere dal basso processi unitari di tipo nuovo, verso le forze socialiste, le forze cattoliche. Una ultima considerazione: abbiamo avuto, specie in quest’ultimo periodo, una difficoltà a costruire esperienze concrete di movimento, di mobilitazione. Credo anche perché non riusciamo a individuare in modo chiaro e semplice alcune questioni precise, alcuni obiettivi concreti. Parliamo sempre un po’ di tutto Senza volerlo indicare come modello per il partito, mi sembra che una delle ragioni del successo radicale stia nel fatto che hanno preso in mano due o tre questioni e su quelle hanno fatto una campagna.»
Ferrara «Anche a Roma il partito in avuto una crescita organizzativa non indifferente, però abbiamo ancora delle situazioni in cui dall’interno di piccole sezioni di un paio di stanze dobbiamo sentire il polso, orientare, lanciare il messaggio a trecentomila persone. Non si può certo pensare a migliaia di sezioni, ma il problema di informare, il problema di come ci poniamo di fronte all’opinione pubblica se non vogliamo che il nostro messaggio resti nell’ambito dell’attivo del partito. Sono i problemi di come si fa la propaganda, di come la si organizza, di come si utilizzano i nuovi strumenti, comprese le radio e le televisioni private, che nella campagna elettorale hanno avuto il loro peso, anche se per molti si è trattato di una scoperta tardiva.
Ma a parte la questione degli strumenti, io credo di poter rispondere così alla domanda cosa deve cambiare nel modo di far politica; per quanto riguarda Roma il cambiamento deve significare che l’idea per Roma, da noi più volte lanciata e rilanciata, un’idea per Roma nella situazione attuale, non può camminare sulle gambe solo del partito comunista e dei comitati di circoscrizione. Deve camminare sulle gambe di un grande movimento della sinistra romana, che a mio giudizio esiste, copre una vastissima area politica, le famose mezze ali di cui ogni tanto si parla solo per dimenticarsene nel giro di pochi mesi; e deve camminare in un quadro in cui continui a funzionare l’intesa a livello regionale. E quando dico sinistra romana intendo tutte le forze dell’area democratica che non sono egemonizzate direttamente sul piano dell’iniziativa politica dalla Democrazia Cristiana. C’è spazio per creare un’ipotesi politica cittadina romana, che faccia, diciamo, anche cultura cittadina in un senso diverso, in un senso nuovo.
Bisogna recuperare in pieno la dimensione del sociale, certo con caratteristiche diverse da quelle con cui essa viene assunta da una certa area della sinistra, ma sapendo che, se non vive nel messaggio del partito vive per conto suo e può vivere anche in contrasto con noi. Un terzo punto è il peso che possono avere per questo rilancio di un’idea per Roma le tre giunte, al comune, alla provincia alla regione. Io penso che esse devono diventare l’espressione di un movimento che a questo punto diventa a Roma l’avanguardia per applicare fino in fondo una politica di risanamento e di rinnovamento della città. È il fatto che siamo forza di governo non deve impedirci di essere i rappresentanti di una politica di opposizione a come la città è e alle forze di classe che ancora la dominano, forze per cui la DC resta ancora il punto di riferimento fondamentale.»
Novelli «In questi ultimi tre anni le nostre organizzazioni di base, soprattutto quelle periferiche, sono state sulla difensiva. E noi vedevamo riesplodere la vita del partito solo in occasione delle feste dell’Unità perché lì non c’era polemica, non c’era scontro, non dovevi andare a difendere la 513, la leggina Scotti e tutta una serie di cose che mettevano in difficoltà. Il partito si è un po’ chiuso in se stesso.
Io credo che si deve avere il coraggio di dire che anche alcuni settori della classe operaia, del movimento dei lavoratori, sono stati intaccati da questo chiamiamolo così, morbo del corporativismo, dell’individualismo più deteriore. Aggiungerò che constatare questo non mi sconvolge, e mi domando se il partito ha fatto tutto quanto era possibile e necessario fare per far fronte a questi pericoli, diciamo pure a queste degenerazioni. Credo che ci siano grossi ritardi da questo punto di vista. Non dirò che e cambiata la concezione del partito qual era quella che ci ha ispirato e spinto a militarvi, però io non avverto più il partito come scuola di formazione di quadri, come scuola politica, sociale, culturale e, se mi è consentito, anche morale.
È un patrimonio che deve essere rinvigorito, rilanciato, soprattutto per avere la capacità di stabilire un rapporto con la gente, la capacita di cogliere anche gli stati d’animo, gli atteggiamenti, le tensioni, i malumori, giusti o sbagliati che siano. Non sempre le nostre forze, i nostri strumenti sono in grado di recepire questo cose.
Io penso in definitiva che noi abbiamo bisogno – non vorrei usare l’espressione, ma e per farmi capire – di una rivoluzione culturale, perché solo con un salto culturale si riesce a vincere certe battaglie, solo con una crescita culturale del partito, e poi della gente.»
Imbeni «L’impegno in campagna elettorale è stato grande e ha permesso, credo, di recuperare parte della nostra influenza. Bisogna esaminare il rapporto tra ciò che diciamo e ciò che facciamo concretamente. Prendiamo per esempio alcuni arricchimenti strategici compiuti all’ultimo congresso (questione femminile, questione religiosa, nuovo internazionalismo ecc.) e verifichiamo la coerenza della nostra iniziativa in questo campo. Ciò significa che il dibattito nel partito non deve fermarsi al gruppo dirigente, ma deve coinvolgere tutto il partito. Più democrazia, non meno democrazia.
Molti hanno invitato a votare per noi da posizioni di critica. Penso che dobbiamo essere diffidenti verso chi ci chiede ogni giorno di ripartire da zero, ma aperti a chi ci critica perché vuole essere aiutato a dare risposte.
Non ci deve essere nessun codismo, nessun adeguamento passivo a tutto le spinte, ma una più forte volontà di capire, di far vivere dentro il partito i mutamenti che si determinano in vari campi. Non si può credere che il dibattito si possa esaurire in poche settimane, ma nello stesso tempo e importante fare in modo che la discussione non porti il partito a chiudersi.»
Busta: 7
Estremi cronologici: 1979, 29 giugno
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 25, 29 giugno 1979, pp. 16-19