[LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA]

Bozza di Riccardo Terzi, scritto per “Gli argomenti umani”, datato 24 aprile 2012

Già più volte, su questa rivista, ci siamo interrogati intorno alla crisi della democrazia. Questo è stato il nostro comune filo conduttore: la necessità di una democrazia vivente, partecipata, combattiva, come condizione per metter mano a una profonda riforma degli assetti sociali. Abbiamo pensato la democrazia non in modo statico, come il rispetto formale delle regole, ma nel suo movimento dinamico, come il processo sempre rinnovantesi di una progressiva riconquista dello spazio pubblico, contro le ossificazioni e le chiusure dei poteri costituiti.

È con questa ispirazione di fondo che abbiamo guardato, fin dal suo sorgere, al Partito Democratico, con un misto di diffidenza e di speranza. Tutto dipende da come viene declinato il suo essere “democratico”, se ciò significa voler essere lo strumento in cui si incarna la domanda di una radicale democratizzazione di tutte le strutture di potere, o se viceversa ciò a cui si allude è solo un generico e moderato progressismo, se dunque l’essere democratico è una linea di distinzione, di qualificazione, di lotta politica, o se è l’espediente per restare nell’indistinto, nell’incolore, là dove si consuma tutta la mediocrità della politica corrente. È un nodo che non è stato sciolto.

E tutta la politica attuale resta appesa a questa incertezza, a questa ambiguità irrisolta. Si continua a parlare di “transizione”, ma nessuno ha chiarito quale sia il punto di approdo, se la “nuova politica” che si intende costruire è lo sviluppo creativo di tutta la passata esperienza storica dei grandi partiti di massa, nel solco dei principi costituzionali, o se è solo un ripiegamento, una rinuncia, perché ormai si tratta solo della governabilità del sistema, e non c’è più spazio per altri e più impegnativi progetti. Quello che finora si è visto è solo un movimento di riflusso, di arretramento, non solo perché si sono alterati i rapporti di forza, ma per un generale offuscamento delle culture politiche.

Mi sembra che non sia più rinviabile una chiarificazione, perché a questo punto tutto il tema della democrazia sta assumendo una nuova drammatica attualità, e non è più consentito a nessuno restare nella finzione, nella celebrazione retorica di una democrazia del tutto astratta e formalistica, che non ha più nessun rapporto con la nostra vita reale. Non è solo un problema italiano, ma è la questione decisiva che sta al centro della crisi in cui si dibatte il progetto europeo. Il fatto è che le strade della politica e quelle della democrazia si sono divaricate, e allora o ci si adatta passivamente all’attuale metamorfosi della politica, al suo essere un meccanismo che ruota su stesso, senza più doversi fondare su una legittimazione dal basso, o viceversa si assume l’idea democratica come un nuovo campo di battaglia, per mettere in discussione tutta l’architettura del potere. Non è più questione solo di destra o sinistra, ma di democrazia viva o morta.

Ho formulato in modo molto secco questa alternativa, e posso già da ora prevedere le obiezioni, le prudenze, le retoriche, i distinguo. Abbiamo appena celebrato i nostri gloriosi 150 anni, e non vediamo lo straordinario cammino di progresso che abbiamo compiuto? Già, il progresso, questo mito che troppo spesso ha del tutto accecato il nostro spirito critico. È proprio tutto questo armamentario consolatorio e giustificatorio ciò che inibisce la chiarezza del pensiero. Là dove prevale la retorica, noi ci troviamo a pensare pensieri già pensati, e ormai spenti e inutilizzabili. Insisto quindi sulla domanda cruciale: che rapporto c’è oggi tra politica e democrazia, tra apparato istituzionale e vita reale? Lo scenario che ci sta davanti è quello di una scissione, di due movimenti che non si incontrano, ed entrano in un conflitto distruttivo, senza che si veda all’opera nessun serio lavoro di mediazione.

L’antipolitica, oggi è di moda evocarla come la minaccia che incombe sulle nostre istituzioni. Ma dobbiamo pur domandarci: da dove nasce, perché prende forza, quali sono le ragioni di questa rottura? L’antipolitica non è che il sintomo di una crisi di sistema, e a nulla vale una difesa convenzionale e burocratica, la quale ha solo l’effetto di esasperare il conflitto. È la mediazione, ovvero il raccordo tra società e istituzioni, il compito proprio della democrazia, la sua ragione sostanziale, ed è proprio qui, su questo punto, che tutto il meccanismo politico si è inceppato.

Per alcuni osservatori questa percezione di una crisi della democrazia è solo il riflesso conservatore e nostalgico di chi è rimasto attaccato ai vecchi rituali di una politica ormai tramontata. Non c’è crisi, secondo questa interpretazione, ma c’è solo un mutamento delle forme della politica, e traspare anche un evidente senso di liberazione, perché non siamo più appesantiti dal bagaglio ingombrante delle ideologie, e possiamo camminare ormai leggeri e spensierati. La democrazia viene assunta nella sua versione minimalista, e si riduce tutto sommato al solo fatto elettorale. Non c’è bisogno di nessun’altra legittimazione, e tutto è consentito una volta che sia rispettata la cornice formale e procedurale della democrazia. Con questo metro di giudizio, quasi tutti i governi del mondo potrebbero essere giustificati, con poche eccezioni. In fondo, il loro compito è solo quello di governare, e nell’arte di governo il popolo non ha nessuna competenza; e non ha quindi diritto di parola. C’è una complicità trasversale tra tutti i governanti, perché in fondo tutti sono interessati alla difesa dell’ordine costituito. Berlusconi, in questo, era un maestro, con la sua plateale ed esibita amicizia con tutti i potenti della terra.

Questa idea minimalista della democrazia si presta anche ad un altro tipo di operazione, là dove si sostiene che la democrazia, essendo per sua natura relativista, in quanto non definisce i contenuti, ma solo il processo, le regole della decisione, ha bisogno di un fondamento esterno che faccia da contrappeso alla sua intrinseca fragilità. Per questa via, la democrazia viene messa sotto tutela: viene accettata, ma solo come un momento subordinato, che può funzionare solo se c’è un’autorità superiore, capace di infondere nel processo democratico quei valori sostanziali che esso, data la sua fragilità, non è in grado di definire con le proprie forze. È questa, in sostanza, la posizione delle istituzioni religiose, cattoliche o islamiche o di altro indirizzo dogmatico. È la religione che offre quel fondamento valoriale di cui la democrazia ha disperatamente bisogno, per non sgretolarsi nell’infinita competizione degli interessi, individuali e di gruppo.

È un argomento estremamente insidioso, perché esso apre la strada ad ogni specie di manipolazione autoritaria, in quanto alla democrazia si sottrae proprio ciò che è essenziale: essa si può occupare solo dei mezzi, ma i fini sono già dati, sono fissati dall’esterno. Nella storia questa posizione ha una lunga tradizione: dai filosofi della repubblica di Platone, al ruolo-guida del partito nei regimi del “socialismo reale”, fino alle moderne tecnocrazie del mondo globalizzato. In tutti questi casi, c’è bisogno di un’autorità, di una superiore sorveglianza, per tenere la democrazia sotto controllo, per impedire che essa degeneri nell’irrequietezza degli impulsi individuali, nell’anarchia delle passioni, nella guerra di tutti contro tutti. Ora, la novità dell’attuale panorama politico, in Italia e in tutto il mondo occidentale, è che questa lunga tradizione aristocratica, elitaria, torna ad irrompere nella nostra vita e a scompaginare le fragili roccaforti della democrazia. Si apre un conflitto tra il principio democratico e il principio di autorità. Tornano in campo tutti gli antichi argomenti che si sono contrapposti all’idea democratica, i quali tutti si riassumono nell’idea che la decisione non può essere un affare di tutti, ma solo di quei pochi che hanno la competenza, la saggezza, la capacità di interpretare l’interesse generale. Ma con ciò si opera non una correzione degli eccessi della democrazia, ma l’adozione di un altro e opposto principio.

Il punto di approdo della crisi italiana, con la formazione del governo Monti, è il segnale evidente di questo mutamento di clima, e ciò è il risultato di una serie di movimenti, di processi, di linee di azione in cui sono coinvolti soggetti anche molto diversi tra loro, ma comunemente interessati a ripristinare il valore dell’autorità, di un potere esercitato dall’alto, in nome degli interessi superiori della nazione, o della civiltà cristiana, o del mercato. È questo blocco di forze che si esprime nell’attuale governo, e che può rappresentare l’inizio di una riorganizzazione del nostro sistema politico.

Ciò che deve allarmare non è solo la concretezza delle misure di politica economica, assunte nel quadro di una coerente ortodossia liberista, senza vedere che è proprio questa ortodossia la causa scatenante della crisi mondiale. Dietro queste misure, c’è un messaggio ideologico, simbolico, culturale, che si riassume in questa idea di un’autorità extra-democratica, che deve essere ripristinata e che deve potersi imporre sul pluralismo degli interessi e delle culture politiche, sulla loro dialettica, perché questo pluralismo rappresenta le parzialità che devono cedere il passo all’interesse superiore della nazione. La logica è chiara: l’Italia si salva solo se riesce a contenere le turbolenze della democrazia, se riconosce che c’è bisogno di una guida super partes e a questa guida affida tutti i poteri necessari. Il minimalismo democratico è salvaguardato, perché non c’è nessuna rottura delle procedure, ma il paradosso è che si decide democraticamente di non aver più bisogno della democrazia.

È un’uscita dalla crisi, dal marasma istituzionale e dall’infezione di un sistema di potere corrotto? Questo effetto liberatorio l’abbiamo tutti avvertito, ma questo non può essere un alibi permanente per tutto giustificare e tutto accettare. Il merito di Monti è proprio quello di rendere nitida la situazione, e nitide le alternative, non dovendoci più occupare delle infinite vicende esistenziali e giudiziarie del suo predecessore. Egli traccia una strada ben precisa, chiara nei suoi risvolti politici, istituzionali e ideologici, e spetta a ciascuno pronunciarsi con altrettanta chiarezza.

In questa morsa tra principio democratico e principio di autorità, i partiti dove stanno, e in particolare la sinistra che cosa ha da dire? Ci si può barcamenare, ma entro certi limiti. Si può dire: appoggiamo il governo Monti senza se e senza ma, e quando toccherà a noi governare faremo tutto il contrario, ma è un equilibrismo che non regge.

Di fronte alla nettezza delle alternative in campo, di fronte alla crisi che ha investito la nostra vita democratica, i partiti, tutti i partiti, sembrano incerti, oscillanti, tentati dall’essere parte del sistema di comando, dell’oligarchia che ha nelle sue mani le leve del potere, e tentati anche, nello stesso tempo, dal cavalcare gli umori dell’antipolitica, della protesta. Ma restare nel mezzo significa restare schiacciati, e offrire un’immagine confusa, contraddittoria, senza poter ricostruire un nuovo rapporto di fiducia. Non è facile essere insieme, coerentemente, forza di massa e forza di governo. Ciò è possibile solo se c’è un pensiero politico, una strategia, una visione del presente e del futuro. Altrimenti c’è solo la furbizia di chi vuole stare con il piede in due scarpe, con una linea oscillante, che dice e non dice, e non riesce a produrre nessuna sintesi.

Per tutte queste ragioni, il dopo-Monti si presenta denso di incognite, perché in fondo nessuna delle forze politiche ha ancora deciso con chiarezza la sua linea di marcia, e la stessa opinione pubblica appare incerta e disorientata. Tutto può ancora accadere. Ma devo dire che sono assi poco interessato alle diverse possibili alchimie del sistema politico, al gioco delle alleanze e delle leadership, all’annuncio di nuovi soggetti politici, e all’infinita disputa sulle riforme istituzionali, perché, come ho cercato di chiarire, il problema è più di fondo e più radicale, e riguarda il destino stesso della democrazia. Per chiarire, in modo crudo, il mio personale punto di vista, il mio assillo non è affatto la vittoria elettorale della sinistra, ma è la salvezza dell’idea democratica e il suo rilancio. E non è affatto scontato che vi sia una linea di coerenza fra questi due aspetti.

In sostanza, si tratta di capire se ci sarà un avanzamento o un arretramento sotto il profilo della partecipazione democratica, partendo da quella che è davvero la domanda decisiva: chi decide, come si decide, in quale misura ciascuno di noi può partecipare al processo decisionale, può condizionarlo, può controllarlo? È vero che la democrazia è una procedura, e che non ci dice nulla sui fini, sui contenuti, i quali non possono che essere il risultato di un libero confronto e di un dibattito pubblico. In questo senso la democrazia è per sua natura relativista. Il suo obiettivo è solo quello di vincolare la decisione politica ad un determinato processo, con il massimo coinvolgimento possibile delle persone, e con il metodo del confronto pubblico tra le diverse proposte alternative. Ma questo relativismo non è affatto un punto di debolezza, ma un punto di forza. Non c’è bisogno di nessuna autorità esterna, perché ciò che decide del “valore” è lo stesso processo democratico, nella convinzione che da esso dipende, e solo da esso, la realizzazione di condizioni accettabili di giustizia. Il metodo si fa sostanza, perché esso implica la pari dignità delle persone e l’universalismo dei diritti, contro ogni posizione di privilegio. Come spiega Sen nella sua opera L’idea di giustizia, la giustizia non è che la risultante di un processo: non dipende da un modello astratto, trascendentale, da un sistema istituzionale in sé perfetto, ma solo da un percorso che mette a confronto le diverse posizioni, i diversi interessi, per giungere ad una conclusione di sintesi, e in questo percorso è essenziale anche il momento del conflitto, il pluralismo delle diverse soggettività politiche e sociali. Se all’inverso si pensa che c’è un’unica possibile soluzione, un’unica risposta, sia essa di ordine religioso, ideologico o tecnocratico, allora si negano in radice le ragioni della democrazia. È il “pensiero unico”, la pretesa oggettività e scientificità con la quale l’ideologia dominante pretende di mettere fuori gioco tutte le possibili alternative.

Questo è oggi il tentativo: c’è un’unica possibile regolazione, quella che si fonda sulla sovranità del mercato, e tutto il gioco politico, pur legittimo, deve restare saldamente ancorato a questo principio. Destra e sinistra possono essere legittimate a governare solo se accettano di restare dentro i confini, dentro il perimetro che è presidiato dalle istituzioni sovranazionali che devono garantire l’equilibrio e la continuità del sistema. È chiaro che, in queste condizioni, la democrazia è solo una parvenza, o può essere avvertita come una minaccia, come un possibile fattore di eversione, di rottura del meccanismo “unico”. È proprio questo il punto: se la democrazia riesce a scompaginare i giochi della politica istituzionalizzata, ad imporre una diversa logica. Sono le due dimensioni dello spazio e del tempo in cui si gioca questa partita. Spazio globale, che annulla le specificità, e impone un unico modello, e velocità della decisione, che aggira il momento della partecipazione, del confronto, della costruzione del consenso. È possibile una diversa organizzazione dello spazio e del tempo? È possibile un controllo democratico sull’uso dello spazio e sui tempi della decisione politica? La sfida democratica ha oggi questa dimensione, questa ampiezza.

Si tratta dunque di rovesciare il paradigma politico oggi dominante, per riorganizzare uno spazio pubblico, aperto al confronto e alla ricognizione di tutte le possibili alternative. Questo mi sembra essere oggi il nodo essenziale: ridare vita ad una democrazia reale, in tutti gli aspetti della nostra vita e della nostra organizzazione sociale. Un caso evidente e clamoroso è quello delle relazioni industriali e della democrazia nei luoghi di lavoro, dove è in atto un attacco violentissimo contro ogni pensiero “alternativo”, contro l’autonomia del lavoro, in nome, naturalmente, della “governabilità” del sistema. Mentre la democrazia prende sul serio il conflitto e costruisce gli strumenti per la sua regolazione, il tentativo oggi in atto è quello di una pregiudiziale delegittimazione di ogni forma di conflitto, e ciò avviene, a guardar bene, in tutti i campi, con una fortissima pressione livellatrice, con la compressione di tutti gli spazi di autonomia: nella cultura, nell’informazione, nella giustizia, nel governo del territorio.

Ecco perché la democrazia deve essere l’esercizio di un combattimento, contro tutti i vincoli autoritari, nei diversi campi. Altrimenti essa diviene una parola morta. Non è un’impresa destinata alla sconfitta, perché c’è un arcipelago di forze potenziali, che sembrano muoversi in questa direzione: sindacati, movimenti, culture giovanili, forme di democrazia dal basso. Ma, per fare il necessario salto di qualità, occorre un progetto politico che sia capace di unificare le esperienze e di dare loro un indirizzo, una strategia, una continuità. Non dovrebbe essere questo il compito della sinistra?



Numero progressivo: H20
Busta: 8
Estremi cronologici: 2012, 24 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”?, 24 aprile 2012