IV CONFERENZA NAZIONALE DELLE DONNE COMUNISTE

Giugno 1965

Intervento di Riccardo Terzi della Segreteria nazionale della FGCI

La Federazione Giovanile Comunista è stata chiamata direttamente in causa dalla relazione della compagna Jotti, sia nel senso di una critica al lavoro compiuto, alle insufficienze dei risultati che noi abbiamo conseguito, sia nel senso di un invito ad un dibattito più aperto e franco sui temi di prospettiva che sono stati posti al centro del dibattito di questa Conferenza.

Io credo che la FGCI nel suo complesso debba fare propri questi due elementi, debba, cioè, da un lato accettare una considerazione autocritica e debba d’altro lato sforzarsi di restituire all’organizzazione dei giovani comunisti la capacità di essere alla avanguardia nel dibattito teorico, con spregiudicatezza e con il massimo di apertura critica, nell’analisi e nella indicazione delle prospettive.

Questo è stato sempre, credo, uno dei tratti essenziali della FGCI ed è appunto questa capacità di considerazione spregiudicata della realtà che noi dobbiamo restituire alla nostra organizzazione. Non per un’esigenza generica di avanguardismo, ma proprio in base alla collocazione obiettiva che ricopre la nostra organizzazione, in base, cioè, al fatto che essa si rivolge a quella parte della società, che più intensamente recepisce i fenomeni nuovi, le linee di tendenza, le contraddizioni più avanzate del capitalismo maturo.

Questo contributo di idee e questa capacità di analisi è giusto che venga richiesta alla FGCI. Noi non possiamo essere soltanto i propagandisti della linea del partito, ma dobbiamo intervenire nel processo di elaborazione per arricchire questa linea, per verificare la sua efficacia al livello delle masse giovanili.

Perché questo contributo possa essere dato in questa sede senza equivoci, senza incertezze, credo che sia necessario da parte nostra battere anzitutto quelle posizioni che negano l’autonomia della questione femminile, posizioni che sono state presenti nel passato anche all’interno della Federazione Giovanile Comunista, anche se non in modo ufficiale.

Per poter battere, quindi, in modo motivato, posizioni di questa natura io credo si debba anzitutto vedere qual è la base su cui esse si appoggiano.

La motivazione che viene presentata è che lo sviluppo produttivo ha provocato l’ingresso in massa delle donne nella produzione, ha liberato la donna dalla sua tradizionale posizione di servitù e, quindi, oggi la questione femminile si troverebbe ad essere completamente confluita nel problema generale della condizione operaia; la conseguenza politica di questo discorso è che non c’è una battaglia specifica da condurre, ma il problema è solo quello di garantire e di realizzare una partecipazione delle donne alla battaglia politica nei suoi termini generali.

Io credo che questa analisi vada respinta in quanto presuppone una visione del processo di emancipazione come fatto spontaneo, come meccanico adeguamento, quindi, del costume, dei rapporti umani allo sviluppo delle forze produttive.

A questo proposito il documento pone una indicazione molto giusta dalla quale noi dobbiamo partire. Si afferma, infatti, che in questa fase dello sviluppo capitalistico è possibile registrare un passo indietro nel processo di emancipazione, sia nel senso che assistiamo ad una recessione dell’occupazione femminile, sia nel senso che denunciamo un ritardo e una involuzione di tutto lo schieramento politico su questo tema.

Quando diciamo queste cose, vuol dire che evitiamo l’immagine artificiale e opportunistica di un processo di emancipazione che va avanti in modo irreversibile e senza rotture, immagine opportunistica perché conduce alla inerzia politica, alla inattività.

Il problema invece non si risolve con la fede in una evoluzione necessaria, ma con l’azione politica, con l’intervento cosciente delle forze di avanguardia.

Questo rilievo di fondo, questa denuncia della involuzione in atto deve essere la premessa per un discorso coraggioso che valorizzi fino in fondo gli elementi di specificità e di autonomia che sono propri della questione femminile.

A me sembra però che in questa direzione non siamo ancora riusciti a fare tutti i passi necessari, e che in parte, prevalga una analisi di tipo tradizionale, nel senso che al movimento femminile si richiede in sostanza di portare in mezzo alle masse femminili la linea generale del Partito, con la sua articolazione, cioè la linea dell’unità, anti-imperialista e dell’unificazione delle sinistre. C’è in questo, forse, un elemento meccanico che finisce per offuscare la questione dell’emancipazione in quanto questione specifica dalla quale dobbiamo trarre tutte le conseguenze necessarie.

Se, ad esempio, noi vogliamo porci l’obiettivo politico di essere la guida di un processo unitario in mezzo alle masse femminili, bisogna saper cogliere come questo processo può avvenire, in base, appunto, alle condizioni obiettive e ai livelli di coscienza delle masse femminili stesse.

Non basta, quindi, porre genericamente un problema di unità, e la prospettiva dell’unificazione della sinistra non è per se stessa motivo di passione e di intervento politico, lo è solo alla condizione che ad essa si accompagni una prospettiva ravvicinata di soluzione positiva di determinati nodi storici e sociali.

In sostanza, quando parliamo di autonomia della questione femminile, autonomia che noi tutti io credo riconosciamo, questa non deve essere soltanto enunciata, ma deve essere costruita e dimostrata, deve essere, cioè, la base concreta sulla quale costruiamo una linea politica.

Per questo va delineato con chiarezza l’ambito specifico del problema che stiamo trattando, per evitare, appunto, una ripetizione generica e meccanica di una linea che sia già scontata in partenza.

Il punto di partenza è dato dall’ingresso delle donne nella produzione, che per alcuni sarebbe il motivo che annulla l’autonomia del problema femminile.

Quando parliamo di questo processo io credo che, anzitutto, dobbiamo indicarne una caratteristica, e cioè l’ambiguità, l’ambivalenza di questo processo. Ambivalenza, nel senso che da un lato il processo di partecipazione delle donne alla vita produttiva rappresenta una tappa fondamentale dell’emancipazione femminile (e su questo io credo debbano essere fugate tutte le reticenze che possono ancora esistere), e d’altro lato questo stesso processo ha come conseguenza una acutizzazione dei contrasti sociali in quanto, appunto, la donna si conquista sì il lavoro, ma un lavoro alienato, un lavoro soggetto allo sfruttamento.

Questo fenomeno, quindi, non può essere considerato come la conquista di un risultato già, per se stesso positivo, che chiude il capitolo dell’emancipazione femminile, ma è la conquista soltanto delle condizioni materiali per una lotta più avanzata. E senza il riferimento a queste condizioni materiali la lotta acquista un carattere soltanto ideologico e morale e non può, quindi, avere la forza di trasformare la condizione delle masse femminili.

Ora, questa ambiguità, in virtù della quale le conquiste di oggi rimandano ad una lotta successiva, si riflette nella politica della classe dominante, politica che non si oppone frontalmente al processo di emancipazione, ma tende a mantenerlo entro determinati binari di classe. E questo lo possiamo dimostrare guardando ai modi di attuazione del processo, e indicando almeno due dati generali: anzitutto la mano d’opera femminile continua ad essere una mano d’opera a basso costo o a bassa qualificazione professionale, viene collocata precedentemente nei settori arretrati e vi è una carenza profonda della istruzione professionale per le giovani lavoratrici, in secondo luogo il lavoro femminile mantiene tuttora un carattere subalterno e transitorio, per cui si aggiunge all’attività domestica senza poter rovesciare il ruolo tradizionale che alla donna viene affidato. E questo ruolo la logica del capitalismo esige che venga difeso e conservato per mantenere una base di massa alla sua politica conservatrice.

Questo carattere subalterno e transitorio del lavoro femminile viene garantito mediante una serie di strumenti, vecchi e nuovi, della politica padronale quali: i contratti a termine, i licenziamenti per matrimonio, il lavoro a domicilio, e così di seguito. La conclusione politica che di qui possiamo trarre sta nel riconoscimento della precarietà della occupazione femminile, precarietà, resa ancor più visibile oggi dalla crisi economica.

Non basta allora vedere nella sua apparenza, nella sua superficie l’ingresso delle donne nella produzione, ed è errato annullare il problema in quello più generale della condizione operaia.

Vi è una politica padronale da battere, una politica padronale specifica che si rivolge con strumenti specifici verso le lavoratrici, verso le masse femminili impiegate nell’industria e nella agricoltura.

È questo il primo punto sui quale deve poggiare la affermazione dell’autonomia della battaglia che noi vogliamo condurre e, quindi, il primo compito sta nella ricerca di una linea capace di battere questa politica padronale.

A me sembra che qui possa trovare conferma un elemento dell’analisi condotta dalla Federazione Giovanile Comunista (può valere come punto di riferimento la Conferenza operaia di Milano della FGCI) analisi secondo la quale il problema di fondo per la giovane classe operaia è quello della qualificazione intesa come aumento del valore della forza lavoro e da cui discenda una linea di lotta operaia che si colloca al livello più alto, che si propone come tentativo di unificazione della classe operaia, ai livelli più alti, comprendendo in modo organico gli strati più avanzati e più qualificati.

È appunto nella lotta per la qualificazione e, di conseguenza nella battaglia per una scuola che non sia integrata, che non sia subordinata agli interessi privati, che il movimento femminile può contrastare nella loro sostanza le linee della politica padronale.

Di qui credo che venga una conseguenza molto importante per quanto riguarda la definizione del ruolo del movimento di emancipazione. L’obiettivo che noi dobbiamo affidare a questo movimento non deve essere soltanto la partecipazione della donna alle lotte operaie in modo indifferenziato; non basta più oggi una battaglia per la parità, battaglia che nelle condizioni attuali sarebbe di retroguardia, ma in base alle condizioni specifiche della donna nell’ambito dei rapporti sociali è possibile e necessario condurre una battaglia che già per se stessa abbia un valore avanzato e contribuisca, quindi, alla crescita complessiva del movimento operaio.

Non basta, allora riconoscersi nella affermazione di principio della autonomia, ma bisogna vedere in quale direzione tale autonomia si realizza e tentare la definizione di una linea autonoma che sia di avanguardia.

In secondo luogo la politica padronale viene sorretta da una vasta azione ideologica, con la quale si viene delineando una via alla emancipazione che non intacca le strutture sociali. A questo fine ideologico risultano operanti una serie di elementi, dalla tradizione cattolica, falsamente mediatrice dei contrasti, all’influenza della sociologia neo capitalista che offusca i problemi di struttura e da tutto ciò deriva una concezione soltanto paritaria, che si risolve in un semplice ammodernamento del costume.

Una lotta di avanguardia delle donne è possibile alla condizione che si accompagni ad una forte tensione ideale, ad una considerazione seriamente critica dell’interferenza di queste componenti ideologiche.

Senza questo impegno sul terreno ideale la battaglia che noi possiamo suscitare, il movimento che noi possiamo avviare rifluiscono necessariamente su posizioni di tipo riformista.

È quindi necessario, e credo che sia questa una delle conclusioni forse più importanti che possiamo trarre da questa Conferenza, rilanciare con forza tutta la problematica della emancipazione nella sua complessità e col rigore teorico proprio del marxismo.

Nel documento si sostiene che la questione femminile si è venuta offuscando nel movimento operaio. Quali sono i motivi dai quali possiamo far derivare questo denunciato offuscamento?

Io credo che, anzitutto, questo sia avvenuto perché si è considerata la battaglia per l’emancipazione come una lotta di retroguardia di tipo democratico-borghese, e in secondo luogo perché si è smorzata l’acutezza dell’analisi marxista per recuperare dei valori tradizionali al fine di rendere possibile una vasta alleanza con una serie di forze politiche e ideali.

Qui va trovata la svolta che dobbiamo compiere nel nostro lavoro, ed è questo anche l’impegno che dobbiamo assumere come FGCI, per uscire dai limiti che il nostro lavoro fino a questo momento ha avuto.

È innanzitutto necessario respingere il riformismo femminile, la via indolore alla emancipazione, perché questo fa arretrare tutto lo schieramento di classe; alle nuove generazioni noi dobbiamo presentarci dando il senso di una battaglia politica e sociale di fondo che deve essere condotta, dando la coscienza che c’è uno schieramento di forze da battere e che c’è una battaglia da condurre contro un avversario ben definito.

Rivolgendoci alle masse giovanili, alle ragazze, dobbiamo saper accogliere positivamente, senza moralismi, le istanze di ribellione e di libertà che si esprimono in mezzo alle nuove generazioni, affinché la battaglia per l’emancipazione possa essere un fatto di massa, un movimento reale e non soltanto un residuo del passato, una cosa vecchia che non riesce più ad incidere al livello delle nuove generazioni.

Naturalmente questo movimento deve essere diretto, orientato dal partito politico, ma per dirigere e orientare il movimento bisogna innanzitutto comprendere qual è la sua tendenza oggettiva, capire, quindi, che questo movimento è anzitutto un elemento di rottura all’interno della società capitalistica.

Si tratta altresì di vincere la tentazione che ci spinge a fornire noi una nuova morale, a costruire un edificio ideale prima che siano superate le basi dell’edificio presente; si tratta di affrontare con il massimo di spregiudicatezza e di realismo tutte le questioni che si aprono al livello del costume, al livello dei rapporti umani.

Questo non credo voglia essere una rinuncia ad una alleanza, ad un incontro con il mondo cattolico; l’incontro coi cattolici non deve avvenire sulla base di un compromesso con i loro principi; sulla base, per esempio, di una nuova formulazione del principio della priorità della famiglia, deve avvenire invece sulla sostanza delle esigenze liberatrici, e comporta quindi una crisi profonda della tradizione di pensiero cattolico.

È questo il motivo per cui diciamo di no al centro sinistra, perché questa politica è sorta e si è sviluppata senza mettere in crisi gli aspetti più arretrati dell’ideologia cattolica, perché ha lasciato intatta la mediazione clericale e tutta l’angustia di una morale vecchia che soffoca l’aspirazione a rapporti umani più liberi.

Questo senso della battaglia politica da condurre, contro un preciso avversario di classe, contro il blocco politico sociale che si esprime nel centro sinistra, deve essere riacquistato, deve essere portato in mezzo alle giovani generazioni.

Quando il processo di emancipazione avviene senza rotture, senza sovvertire un equilibrio sociale e politico, il nostro compito è allora quello di intervenire su questo processo in atto per dirigerlo verso uno sbocco socialista, senza avere paura delle rotture e delle lacerazioni, senza pretendere che subito, senza scosse, venga ricostruito un ordine nuovo.

Per questo si richiede un impegno di tutto il Partito, per assicurare la capacità di dirigere e di controllare questo processo. E perché ci sia questo impegno di tutto il partito io credo, infine, che dobbiamo rivedere alcuni strumenti di lavoro e di organizzazione che il partito si è dato, e in particolare il funzionamento delle commissioni femminili le quali mi sembra abbiano avuto il senso di una separazione nel quadro femminile dal quadro complessivo di partito, piuttosto che di una loro valorizzazione con la conseguenza di ostacolare la formazione qualificata di quadri femminili e l’utilizzazione di tutte le energie che esistono all’interno del partito.

Non si tratta certo di abolire quel poco che esiste, si tratta piuttosto di trovare un metodo di lavoro diverso, di concepire le commissioni femminili, se cosi continuiamo a chiamarle, come dei gruppi di lavoro, come dei centri di elaborazione non settoriali che impegnano il complesso del partito e, soprattutto, si tratta di organizzare la partecipazione delle compagne, delle donne comuniste a tutta l’attività del partito, ai vari livelli che la sua articolazione complessa comporta.

È questa la condizione per promuovere noi stessi, nel partito, un effettivo rapporto di parità, per superare, quindi, i condizionamenti esterni che si riflettono anche all’interno della nostra organizzazione.


Numero progressivo: F13
Busta: 6
Estremi cronologici: 1965, giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
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