ISTITUZIONI, DOMANDA SOCIALE, RIFORME

di Riccardo Terzi
Roma, 11 dicembre 1997

Nel dibattito politico corrente società e istituzioni appaiono spesso come due mondi non comunicanti. Vi sono gli esperti di questioni istituzionali, e quelli di questioni economico-sociali; c’è una parte della sinistra che guarda soltanto al sociale e considera con fastidio le questioni istituzionali, e viceversa.

I problemi istituzionali tendono ad essere affrontati in una logica autoreferenziale, prescindendo dalle relazioni con la società, come se fossero problemi tecnico-giuridici, con il risultato di non far capire qual’ è davvero la posta in gioco, quali sono gli obiettivi, perché, con quali mete, sulla base di quali valori, vogliamo procedere in una operazione complessa di riforma dello Stato.

A me sembra invece che il problema sia proprio la connessione tra società e istituzioni e che la crisi dell’Italia in questa fase sia l’effetto della rottura di tale connessione. Si esce dunque dalla crisi soltanto agendo su entrambi gli aspetti, con una strategia che sia contestualmente sociale ed istituzionale. Oggi non si vede in nessuna forza politica una sufficiente capacità di saldatura di questi due elementi, e si oscilla tra una posizione di conservatorismo istituzionale, che guarda a tutte le ipotesi di innovazione come ad una minaccia, e una posizione inversa che potrebbe essere definita di feticismo istituzionale, in quanto ci si affida alla virtù salvifica delle parole magiche oggi di moda: il bipolarismo, l’alternanza, la democrazia dei cittadini. In entrambe queste rappresentazioni la società scompare, non è vista nella sua dinamica e nelle sue rotture, e restano solo i fantasmi dell’ideologia.

Ma perché società ed istituzioni non comunicano o lo fanno poco e male? Per quel che riguarda il Nord dell’Italia si può dire che la rottura di questo rapporto è l’effetto di un dinamismo sociale ed economico forte, per il quale sono essenziali rapidità delle decisioni, flessibilità, capacità di innovazione e di adattamento ai diversi e mutevoli contesti. Il complesso delle istituzioni pubbliche non risponde a questa domanda sociale, non corrisponde a queste esigenze, e quindi prendono forza le spinte antiistituzionali, fino al limite della proposta secessionista: le istituzioni sono viste come un ostacolo, un freno, un elemento di disturbo.

Da un lato abbiamo una società dinamica e policentrica, fatta di tanti soggetti, di tanti centri decisionali, e dall’altro istituzioni statiche e centralizzate. Sta qui l’origine di una serie di contraddizioni che possono avere effetti dirompenti se non vengono tempestivamente affrontate. C’è una domanda di autogoverno che viene dalle comunità locali ed esprime un chiaro rifiuto del modello centralistico dello Stato tuttora prevalente. C’è una domanda di efficienza delle strutture pubbliche che si contrappone ai processi di burocratizzazione che rendono queste strutture incapaci di rispondere alla domanda sociale. Vi è infine una domanda di partecipazione dei soggetti sociali, la quale entra in conflitto con il potere costituito delle oligarchie di partito. In tutte queste domande sociali c’è una potenzialità innovativa, a partire dalla quale si può costruire un edificio istituzionale più moderno e più democratico. Ma, in assenza di una riforma, questi processi possono rapidamente degenerare. L’autonomia diventa localismo e rottura della solidarietà, e la critica delle istituzioni prende la forma, classicamente di destra, dell’attacco generalizzato all’intervento pubblico e al sistema dei partiti. In alcune regioni del Nord il punto di rottura è già stato superato, e per la prima volta la destra dispone di vere e proprie basi di massa.

La situazione rischia di sfuggire al controllo. Si diffondono comportamenti di carattere eversivo, di illegalità diffusa; c’è un deterioramento dello spirito pubblico e per la prima volta viene avanzata esplicitamente una proposta politica di rottura dell’unità nazionale, di secessione.

Di fronte alla portata di questi processi, che hanno investito le aree più dinamiche del paese c’è una paradossale sordità del ceto politico nazionale, il quale si illude che possa essere sufficiente qualche piccolo aggiustamento istituzionale. Il federalismo può essere una risposta, può essere una strategia adeguata per affrontare le emergenze del Nord? lo credo di sì, ma solo a determinate condizioni, solo se il federalismo viene inteso nella radicalità delle sue implicazioni, e viene impostato come una strategia politica che punta a ricostruire il rapporto tra società e istituzioni.

Quando si è nel mezzo della crisi, non c’è nulla di più imprudente della prudenza. La politica peggiore è quindi oggi sicuramente quella di un riformismo minimalista, fatto di aggiustamenti e di misure sempre parziali, graduali, nel timore che accada quello che nei fatti è già accaduto.

Per questo, quando si parla di federalismo, è utile precisare di cosa parliamo, perché ci possono essere diversi modelli e diverse interpretazioni. In molti casi la parola federalismo è soltanto un ornamento retorico, una moda linguistica. E in generale viene visto solo come trasferimento di funzioni e di risorse, verso le Regioni o le autonomie locali. Si rischia così di avere semplicemente una riproduzione su una scala minore, regionale o comunale che sia, del medesimo meccanismo burocratico che fin qui ha imperato, e quindi una proliferazione dell’inefficienza. Il problema non è soltanto il trasferimento di competenze e di apparati, ma una riforma profonda, dall’interno, della macchina amministrativa.

Il federalismo richiede, per essere davvero innovativo, un diverso rapporto tra società e istituzioni, un modo di funzionamento dello Stato aperto alla società, una responsabilizzazione dei soggetti sociali, lo sviluppo dell’autogoverno locale in tutte le sue dimensioni. Il movimento non deve essere solo verticale, dall’alto verso il basso, ma orizzontale, dalle istituzioni alla società.

Occorre pensare il sistema locale come un sistema policentrico nel quale agisce un pluralismo istituzionale e sociale. In questo senso anche il sindacato è chiamato in causa, e dovrà aprire una discussione approfondita sul proprio ruolo e sui propri strumenti organizzativi e contrattuali. Il sindacato si è pronunciato, forse con un po’ di ritardo, a favore di una riforma federalista dello Stato, ma non ha ancora valutato fino in fondo gli effetti che una tale riforma implica sul proprio modo di essere. Se pensiamo al federalismo non come ad una trasferimento burocratico di competenze, ma come alla riorganizzazione dei sistemi territoriali, anche tutto il quadro delle relazioni sindacali va ripensato in questa ottica.

Le istituzioni sono vitali solo se non sono dei contenitori vuoti, ma sono lo spazio pubblico entro il quale interagiscono i diversi soggetti sociali. Se dunque i grandi soggetti collettivi, i partiti, i sindacati, le organizzazioni di massa, continuano ad essere modellati in senso centralistico, con un unico centro decisionale, il federalismo non potrà che risolversi in un fallimento, così come è fallita, per la medesima ragione, l’esperienza regionale. È la dimensione regionale che non è ancora stata costruita nel nostro paese, e questo vuoto, finché dura, impedisce una qualsiasi riforma, perché si giustappongono ed infine si integrano municipalismo e centralismo. Abbiamo bisogno di sistemi territoriali forti, integrati, ricchi al loro interno di un pluralismo istituzionale, e ciò non può che avvenire su una scala territoriale sufficientemente ampia. L’eterna disputa tra regionalisti e municipalisti (e ogni tanto affiora perfino qualche improbabile provincialista) è solo il segno di una condizione di impotenza. Si tratta di una disputa distruttiva, perché è chiaro che la dimensione regionale è essenziale se vogliamo rompere il meccanismo centralizzato dello Stato, ma è altrettanto chiaro che la Regione dovrà essere un grande centro regolatore che riconosce e valorizza il pluralismo dei soggetti istituzionali e dei soggetti sociali: le autonomie locali, le autonomie funzionali, il ruolo delle forze sociali.

Se si perde la visione di insieme del processo di riforma, e ciascuno difende il suo piccolo segmento di potere, c’è per tutti una prospettiva di sconfitta, e quel fossato tra società e istituzioni finisce per allargarsi e per assumere infine un carattere non più rimediabile.

Sotto questo profilo, quale giudizio si può dare del lavoro della Commissione Bicamerale? Emerge un progetto coerente di riforma, o siamo ancora nel mezzo di contraddizioni non risolte? Per quanto riguarda la riforma federalista dello Stato, la strada da fare mi pare ancora lunga e contrastata. L’unanimismo federalista era ed è un unanimismo finto: in molti si sono dichiarati federalisti per non essere spiazzati dalla Lega, ma adesso che la Lega scommette sul fallimento della riforma per poter rilanciare l’obiettivo della secessione c’è una spinta forte verso una logica di restaurazione dello Stato centralizzato. Il progetto della Bicamerale riflette questa ambiguità, e il sistema istituzionale che esso propone assai difficilmente può essere definito come un assetto federalista. Quali sono infatti i soggetti politici federati? Da un lato c’è un’attribuzione generalizzata di competenze agli enti locali, dall’altro lato c’è inevitabilmente, essendo questa affermazione di principio impraticabile in via di fatto, la possibilità di un processo di ricentralizzazione, nel nome degli interessi generali della nazione. Le Regioni finiscono per essere schiacciate tra il municipalismo sbandierato e il centralismo pronto a prendersi la rivincita.

Assai indicativa è la vicenda della seconda Camera. È stata abbandonata l’idea di una Camera delle autonomie, come architrave di una vera riforma federalista, come condizione per dare ai poteri locali accesso alle scelte di carattere nazionale, per dare loro voce politica, e per costruire un luogo di raccordo e di concertazione istituzionale. A questa proposta, l’unica davvero in grado di segnare una novità rilevante nel funzionamento dello Stato, si è opposta l’obiezione strumentale che si tratterebbe di un ritorno alle logiche consociative, e si è teorizzato il cosiddetto “federalismo competitivo”, nel quale ogni livello istituzionale ha poteri propri e non c’è quindi nessuna esigenza di una sede di concertazione. Ma ciò determinerebbe una frantumazione della coesione nazionale, e per impedire questo esito distruttivo sarebbero inevitabilmente rilegittimate le vecchie pratiche centralistiche. Nella realtà, come è evidente, le resistenze alla “Camera delle Autonomie” sono tutte interne al ceto politico nazionale, che vuole mantenere intatto il proprio controllo su tutte le scelte più rilevanti, lasciando al sistema delle autonomie solo il ruolo di carattere amministrativo, una funzione politica derivata e non primaria.

Per le forze politiche il tema centrale sembra essere la ricostruzione di un centro di comando, la necessità di riaffermare il primato della politica, di stabilizzare i meccanismi di governo, nell’illusione che sia possibile approdare ad una sorta di centralismo buono, che a differenza del passato garantisca pulizia ed efficienza. Non è dunque un caso che la vera discussione tra le forze politiche sia concentrata attorno al tema della forma di governo, lasciando solo sullo sfondo la costruzione del sistema delle autonomie.

Elezione diretta del Presidente della Repubblica, legge elettorale nazionale, bipolarismo, rapporti tra i vertici dello Stato: sono questi i temi al centro dell’agenda politica, con posizioni diverse e spesso contrapposte, ma tutte convergenti in un’analisi secondo la quale la crisi italiana dipende essenzialmente da un deficit di autorità, da una debolezza della funzione di governo. Manca del tutto la comprensione del fatto che solo in un ribaltamento del rapporto tra centro e periferia sta la chiave di una effettiva riforma dello Stato.

C’è qui un elemento di sottovalutazione assai grave, che sta producendo sconcerto e delusione nella classe dirigente locale di quelle Regioni, Emilia e Toscana in primo luogo, che fino ad oggi hanno rappresentato un argine alla diffusione dell’ideologia leghista. La Lega può così continuare nella sua azione distruttiva, e può avere nuovi e più ampi margini di manovra. Occorre dunque impedire che prevalga un’operazione di restauro, in una logica di continuità con il modello tradizionale dello Stato centralizzato e in una logica di autosufficienza del sistema politico e istituzionale. Credo in sostanza che qualunque soluzione venga adottata per una stabilizzazione della funzione di governo sarebbe del tutto inefficace ed illusoria in assenza di un disegno più generale di riforma dello Stato, che parta dai rami bassi dell’ordinamento, dal funzionamento dell’amministrazione, dai punti concreti di interrelazione con la realtà sociale. In assenza di una operazione che abbia questa ampiezza, i processi degenerativi in atto non vengono arrestati e anzi rischiano di diffondersi ulteriormente. Il corretto funzionamento di un sistema sociale, infatti, non dipende solo dall’efficacia del potere decisionale, ma dall’insieme delle relazioni e delle connessioni che tengono unito il corpo sociale. Il decisionismo politico non è tanto un pericolo, quanto un’illusione, perché ci si dimentica di costruire i canali di consenso e di comunicazione sociale che rendono la decisione efficace.

In altri termini, va trovato il punto di equilibrio tra il principio della rappresentanza e il principio del potere, o della decisione politica. La rappresentanza configura la politica in termini orizzontali e plurali, in quanto riconosce e legittima tutto quello che emerge nel panorama sociale; il principio del potere, al contrario, configura la politica in termini verticali e monistici, in quanto si pone solo il problema del luogo della decisione. È chiaro che c’è bisogno di entrambi questi elementi, perché è solo nella loro connessione e complementarietà che funziona un determinato sistema politico. Se la rappresentanza non è bilanciata dalla decisione politica, il sistema non funziona e produce una condizione di precarietà e di paralisi dell’azione di governo; se viceversa la decisione politica non è bilanciata dalla rappresentanza si innesca un processo degenerativo di tipo autoritario.

La transizione italiana, dalla prima alla seconda Repubblica, è generalmente intesa come il passaggio da un sistema di rappresentanza (il proporzionalismo, il pluralismo dei partiti, il peso eccessivo delle organizzazioni sociali) a un sistema fondato sull’investitura democratica di un potere politico forte. Ma il bisogno di un riequilibrio, di un rafforzamento della funzione di governo, non deve farci deragliare nella direzione opposta: una società senza rappresentanza è una società che manca della coesione necessaria per stare insieme. Nel delicato passaggio istituzionale che stiamo attraversando è molto forte, quindi, il rischio di imboccare una falsa traiettoria: verso un obiettivo illusorio di restaurazione del centralismo statale, affidando attese taumaturgiche ai meccanismi plebiscitari dell’elezione diretta, e verso una semplificazione decisionistica del sistema che prosciuga il tessuto della rappresentanza (politica, sociale, territoriale) e con ciò prosciuga lo spazio stesso della politica. Al termine di questa falsa traiettoria ci troveremmo in una condizione di crisi aggravata, con una società priva degli elementi necessari di coesione, ridotta alla polverizzazione atomistica degli interessi individuali.

Se pensiamo a come è cambiata negli ultimi anni la rappresentanza politica, che oggi passa tutta attraverso la mediazione del mezzo televisivo, e a come le strutture organizzative del sistema politico si sono indebolite e logorate, ci rendiamo conto che un buon pezzo di strada, in questa direzione, è già stato compiuto.

Al Nord il processo di destrutturazione del sistema politico è particolarmente avanzato. Siamo già ormai oltre il punto di rottura. Siamo nel mezzo di una crisi che è l’effetto della mondializzazione e che si manifesta con una serie di lacerazioni, di rotture della comunità e della coesione sociale, e con fenomeni crescenti di marginalizzazione e di esclusione. Abbiamo interi pezzi di società senza rappresentanza: le forze sociali emergenti, con i nuovi lavori, le nuove professioni, la nuova galassia del lavoro post-fordista, e tutta quella vasta area di sofferenza, al limite dell’esclusione sociale, priva degli strumenti minimi per poter fronteggiare e controllare i processi della modernizzazione. A tutti costoro che resta? Resta l’elemento della protesta.

La Lega in fondo agisce in questo vuoto di rappresentanza, dando identità politica, su una linea di protesta anti-statale, di tipo eversivo, a questo universo di individui spaesati che si trovano a vivere dentro una società sempre più competitiva, e che non trovano strumenti forti per organizzare la propria identità collettiva. La Lega ricostruisce il mito della comunità, e offre a questa società sempre più disgregata una possibile nuova identità, mitologica ma efficace. Essa ha intuito un aspetto essenziale, che sfugge a gran parte della politica italiana, tutta presa dall’idea della deideologizzazione e quindi da una rappresentazione della società come semplice intreccio di interessi economici e di calcoli egoistici. Ha intuito il problema dell’identità, ovvero il ruolo essenziale che svolgono le rappresentazioni ideologiche nella vita e nei comportamenti delle persone, che non sono mai guidate solo dal calcolo economicistico, ma anche, in misura spesso preponderante, dalle passioni e dai miti.

Il fenomeno della Lega è interessante proprio sotto questo profilo, in quanto invenzione politica e progettazione di un futuro avvolto nel mito: la Padania, la secessione, il recupero dell’identità perduta. Si può spiegare, sul piano storico-scientifico, che la Padania non esiste, ma l’ideologia non è mai smentita da argomenti razionalistici, in quanto risponde ad un bisogno profondo di identità. Naturalmente, ciò non significa che si debba rinunciare ad uno sforzo di razionalità e di realismo, e subire quindi una regressione ideologica. Ma la partita politica non può essere vinta senza forti motivazioni ideali e senza idee-forza, e di ciò sembrano oggi essere scarsamente provviste le forze politiche, che sono avvertite spesso dai cittadini solo come macchine burocratiche per la gestione del potere.

Al Sud i fenomeni di disgregazione sono di segno diverso, ma altrettanto evidenti e profondi. Anche il Sud può uscire dalla crisi solo con una prospettiva di autogoverno, con una politica capace di ricostruire il senso della comunità e di riconnettere società e istituzioni. Il federalismo è, anche per il Sud, l’occasione di una rinascita e di un nuovo sviluppo, non più dipendente dai vecchi meccanismi assistenziali e clientelari. Tutto questo richiede un forte protagonismo dei soggetti sociali. Non bastano le riforme istituzionali e le misure, sicuramente necessarie, di ammodernamento e di snellimento della Pubblica Amministrazione. Un processo positivo si è avviato con le leggi Bassanini, e le riforme costituzionali possono completare e rafforzare questo processo. Ma le trasformazioni istituzionali servono a poco se non c’è, contestualmente, un processo sociale, se non si costruiscono gli strumenti della coesione e dell’autoregolazione sociale. Gli interventi dall’alto, di tipo giacobino, non funzionano e non producono effetti duraturi se non si crea un contesto, sociale e politico, che sia capace di accogliere l’innovazione e di vivificarla nella pratica sociale. Provo perciò molta diffidenza verso la formula, che sento ricorrere spesso, della ricostruzione del primato della politica. È una formula insidiosa, perché può significare appunto la riproposizione di un modello giacobino, di comando gerarchico, che prescinde dal ruolo dei soggetti sociali e nega le ragioni del consenso e della concertazione. Per questa via il divario con la società e con la sua dinamica reale può essere ulteriormente esasperato.

Per il sindacato e per l’insieme della sinistra, costruire una strategia che tenga conto di questi elementi mi pare assolutamente indispensabile. L’asse di questa strategia dovrebbe proprio consistere nella definizione degli strumenti di concertazione e di autogoverno sociale, rovesciando la tesi del primato della politica. Da questo punto di vista, è bene guardare con attenzione alle intuizioni tradizionali del pensiero cattolico democratico, che da sempre ha tematizzato il problema dei corpi intermedi e delle autonomie. Contro i pericoli del modello plebiscitario, nel quale esistono solo i cittadini atomizzati e il leader politico, occorre organizzare la “società di mezzo”, ovvero l’insieme delle autonomie territoriali e delle rappresentanze sociali. Così possiamo costruire un modello istituzionale che sia in grado di interagire efficacemente con il dinamismo sociale di una società complessa, e possiamo dare risposte positive alle esigenze di riforma della società e delle istituzioni.

Lo Stato centralizzato non funziona e non è riformabile. Esso va ricostruito dalle basi, dalle fondamenta, ed il federalismo è il tentativo di realizzare questa complessiva trasformazione dell’intera macchina amministrativa statale, partendo dalla concretezza dei diversi contesti territoriali e sociali e dalle loro domande differenziate. Lo stesso compromesso con la destra sulla forma di governo regge ed è accettabile solo se c’è un impianto forte di riforma federalista dello Stato. Nell’esito della Bicamerale non c’è ancora un equilibrio soddisfacente, e quindi c’è ancora un grande lavoro da realizzare, per un progetto che sia davvero innovativo. In questo contesto, è importante il ruolo delle organizzazioni sociali, a partire dal sindacato, per aprire nel paese una discussione politica di massa intorno agli obiettivi dell’azione di riforma. Dobbiamo essere presenti e attivi oggi, nel dibattito politico, per non trovarci schiacciati domani da un modello istituzionale che sacrifica le ragioni della società civile sull’altare del primato della politica.



Numero progressivo: C37
Busta: 3
Estremi cronologici: 1997, 11 dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Note: 2 copie