INNOVAZIONI TECNOLOGICHE E INTERVENTO SINDACALE

Convegno CGIL nazionale 10 aprile 1984

Introduzione di Riccardo Terzi

Credo che possa risultare a tutti evidente l’opportunità di questo seminario della CGIL, nonostante i tempi di preparazione piuttosto frettolosi entro i quali siamo stati costretti a lavorare; In vista della Conferenza nazionale che si terra nella prossima settimana, ci proponiamo oggi di condurre una riflessione sui problemi di iniziativa sindacale che sono indotti dall’introduzione, su vasta scala, delle nuove tecnologie. È questo un capitolo essenziale di quell’esigenza più generale di rinnovamento delle politiche rivendicative del sindacato che è ormai da tutti riconosciuta.

Ma in realtà, se è comune la convinzione che si è venuta concludendo una stagione dell’esperienza sindacale, che sono già ormai dispiegati processi di trasformazione tali da rendere non rinviabile una svolta, diverse sono le risposte che vengono prospettate. L’ipotesi da cui noi partiamo è che la crisi del sindacato possa essere superata solo attraverso un lavoro sistematico per ristabilire un rapporto con i processi reali, per costruire un modello di organizzazione sindacale che abbia al proprio interno quei requisiti di articolazione e di flessibilità che sono indispensabili per interpretare e guidare le trasformazioni in atto. Insomma, ricorrendo ad una formula un po’ abusata si tratta di contrastare e di invertire le spinte alla centralizzazione che hanno agito in quest’ultima fase.

Al di là delle diverse valutazioni politiche sui contenuti del decreto e sulla manovra economica del governo, di questo vorremmo più apertamente discutere con le diverse componenti del movimento sindacale: se si ritiene, cioè, che il compito preminente nella fase attuale sia quello di ottenere le condizioni più favorevoli per una concertazione tra governo e sindacato, se la partita decisiva viene tutta giocata entro i meccanismi dello “scambio politico”, o se invece non sia un altro il terreno fondamentale su cui costruire un sindacato rinnovato e moderno, se non si debba ripartire da una presa di contatto diretta, con la realtà produttiva, con le sue articolazioni concrete, con i cambiamenti che in essa si verificano.

Il sindacato corre il rischio di un progressivo “slittamento nel politico”, da cui può venire una perdita irreparabile delle sue ragioni specifiche di rappresentanza sociale concreta, e un offuscamento pericoloso dell’attitudine a conoscere e ad interpretare il processo lavorativo in tutta la sua concretezza, i bisogni materiali che al suo interno si esprimono, e ad offrire risposte puntuali e immediate ai problemi del mondo del lavoro.

È per queste ragioni che consideriamo il problema delle innovazioni tecnologiche come un campo privilegiato del lavoro sindacale che è necessario oggi realizzare: se non ci sono risposte ai processi di cambiamento che investono tutta intera la condizione di lavoro (le tecniche, l’organizzazione, la professionalità, l’ambiente), se non c’è questa capacità di risposta, la crisi del sindacato diviene cronica e irreversibile, e non può essere compensata dai risultati, in verità finora piuttosto evanescenti, che possono essere conseguiti in una trattativa di vertice con il governo. Qui c’è un equivoco da sfatare. L’ambizione del sindacato ad essere soggetto politico è un’ambizione vana, senza sbocchi, se non si mette in moto una soggettività politica diffusa, per cui sono i lavoratori, nelle singole situazioni, che divengono capaci di controllo sulle loro condizioni di lavoro e portatori di proposte, di soluzioni, che possano essere vincenti nel confronto con le controparti sociali.

Altrimenti non c’è soggetto politico, ma solo una pratica mediocre di scambio corporativo.

Tornando, dopo questa premessa, al tema dell’innovazione tecnologica, dobbiamo cercare, in questa sede, di andare oltre le analisi specialistiche, e di affrontare il problema dal punto di vista dell’azione sindacale: quali sono i problemi che si pongono al sindacato quali possono essere le risposte. Non possiamo più limitarci all’ osservazione dei fenomeni, ma dobbiamo costruire una linea di politica rivendicativa che di questi fenomeni tenga conto, che a partire da essi definisca obiettivi, piattaforme, iniziative concrete.

Mi pare che in tutta la discussione vasta che c’è stata in questi anni intorno alle nuove tecnologie, si possano rintracciare alcune conclusioni sufficientemente fondate e largamente condivise. Anzitutto, va sottolineato il carattere dell’innovazione, nel senso che non aperto c’è un rapporto cogente e meccanico tra i nuovi strumenti tecnologici e l’organizzazione del lavoro. Sono possibili diversi modelli.

Può avvenire una più accentuata centralizzazione del comando, e quindi un’ulteriore dequalificazione e parcellizzazione del lavoro, o all’inverso si possono innescare processi di segno contrario, che accrescono i livelli di responsabilità, di autonomia, di conoscenza, di professionalità per fasce sempre più larghe di lavoratori. Si apre quindi un terreno di iniziativa che può avere sbocchi diversi, non scontati.

In questa battaglia il sindacato non si trova in condizioni più svantaggiose: può anzi far leva su una tendenza oggettiva che agisce nel senso della costruzione di “modelli partecipativi” all’interno delle aziende.

Per ottenere una piena efficacia delle nuove tecnologie informatiche, sono ormai di ostacolo le rigidità gerarchiche della vecchia organizzazione del lavoro, e c’è bisogno di allargare gli spazi di autonomia per l’insieme dei lavoratori. Di notevole interesse sono le esperienze dei “gruppi di produzione” all`interno dei quali si realizza una rotazione e un’integrazione delle mansioni, una socializzazione delle informazioni, un’attribuzione collettiva di determinati traguardi produttivi.

Ci sono, certamente, delle forti controtendenze che sono alimentate da una logica di classe da una volontà di rivincita del padronato che si propone di spezzare gli strumenti di controllo e di contrattazione del sindacato.

Ma soprattutto, dando per scontata la resistenza delle forze conservatrici, si tratta per il movimento sindacale di assumere fino in fondo il terreno dell’innovazione tecnologica, di agire nella prospettiva di uno sviluppo pieno delle potenzialità produttive, e di costruire nuovi strumenti di controllo, nuovi modelli contrattuali.

L’esperienza delle prime parti dei contratti ha dato dei risultati complessivamente modesti, e spesso del tutto negativi. Gli accordi sulle grandi scelte strategiche dell’impresa (investimenti, occupazione, programmi produttivi) non hanno avuto un effettivo valore di vincolo, e sono stati largamente disattesi. D’altra parte, in una situazione di mercato turbolento e di accentuata concorrenzialità internazionale, i programmi delle imprese richiedono continui adattamenti, e tutte le previsioni devono essere periodicamente verificate, il che comporta una notevole elasticità delle scelte.

Le possibilità di intervento del sindacato sono dunque, su questo terreno, piuttosto aleatorie una volta concordati determinati programmi di sviluppo, sarà sempre possibile all’impresa dimostrare che le variazioni del mercato hanno reso irrealizzabile la loro attuazione.

Occorre allora un sistema di relazioni industriali che consenta, in via continuativa un controllo delle decisioni. E occorre che il sistema delle informazioni sia più direttamente finalizzato alla contrattazione preventiva delle scelte di innovazione e di organizzazione del lavoro. Deve essere ripensato tutto il circuito informazione-contrattazione-controllo, nel duplice senso di avere un`informazione più puntuale ed efficace, e di esercitare un ruolo di contrattazione in cui l`accento si sposti dalla difesa delle rigidità alla ricerca di obiettivi produttivi, organizzativi, e sociali, che definiscano un terreno positivo di sviluppo del ruolo dell’impresa.

Le difficoltà non dipendono quindi solo dalle chiusure della controparte, dalla volontà di ricostruire un sistema di decisione unilaterale, di escludere i lavoratori e i loro rappresentanti da tutte le decisioni di ristrutturazione dell’apparato industriale, ma anche dai limiti di una cultura sindacale tutta conflittuale e contrattualistica, che non sa ancora cogliere i termini nuovi della situazione e la necessità di procedere alla costruzione di nuove esperienze di democrazia industriale.

Ora, è proprio di fronte all’introduzione delle nuove tecnologie che il “modello conflittuale” finisce per essere disarmato: perché si riduce ad una azione difensiva dei livelli di occupazione, delle vecchie professionalità e non sa prospettare soluzioni in avanti, che assumono l’innovazione come un’occasione positiva per una generale trasformazione dei modelli organizzativi, delle figure professionali, delle procedure di decisione all’interno delle imprese.

Vi è dunque una relazione molto stretta tra il tema dell’innovazione tecnologica e quello della democrazia industriale. Da un lato l’innovazione crea le premesse per una possibile democratizzazione della vita dell’impresa e moltiplica i bisogni di conoscenza e di partecipazione; e d’altra parte la possibilità di controllare effettivamente i processi di trasformazione dipende dal grado di disponibilità del sindacato e misurarsi con i problemi della gestione, dell`efficienza e della produttività, dalla capacità di uscir fuori dalle vecchie trincee consolidate e di dispiegare con coraggio la propria iniziativa su un terreno nuovo, senza rigidità preconcette. Per questa ragione può essere utile definire sedi di confronto e di consultazione che siano distinte da quelle della contrattazione, e che consentano, anche in modo informale, la più ampia socializzazione delle conoscenze e l’esame preventivo delle diverse possibili soluzioni. La proposta che è stata avanzata all’IRI per la costituzione di comitati bilaterali di consultazione si muove in questa direzione. È un tema da riprendere, sia nelle aziende pubbliche, sia nei grandi gruppi privati, per mettere alla prova l’effettiva disponibilità delle controparti a una sperimentazione di nuove relazioni industriali, per stimolare all`interno dei gruppi dirigenti industriali una feconda dialettica, e insieme per respingere l’organizzazione sindacale verso la ricerca di nuove soluzioni e di nuove esperienze.

Per il sindacato si pone, in ogni caso, la necessità di attrezzare rapidamente le proprie strutture, i propri quadri, i propri modelli di organizzazione del lavoro, per essere in grado di elaborare soluzioni e proposte, per un generale “aggiornamento” della propria cultura. Il rischio finire in una posizione subalterna si può vincere, infatti, solo se c’è una capacità di proposta alternativa.

Non è possibile oggi caricare i consigli di fabbrica, così come sono, di tutti questi compiti. Dobbiamo forse pensare alla costruzione di appositi strumenti di consulenza, a un servizio sindacale che, avvalendosi delle competenze specialistiche, sia in grado di utilizzare e di valutare tutte le informazioni che vengono fornite ai consigli, e di elaborare progetti di intervento sindacale nelle singole situazioni. Nel contempo, va garantita la più ampia rappresentatività dei consigli dei delegati, assicurando la presenza dei tecnici dei quadri, delle figure a più alta professionalità; ciò e necessario sia per ragioni politiche generali, per difendere e rilanciare il ruolo dei consigli come strumenti di rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori, sia per ragioni funzionali , per ottenere una maggiore capacita di conoscenza, di interpretazione dei processi, che può essere certamente accresciuta dall’apporto di queste fasce di lavoratori.

Nel ritardo dell’iniziativa sindacale verso i quadri e i tecnici si e già parlato molto, in numerose sedi. Non e quindi necessario ripercorrere analisi e giudizi che dovrebbero essere già acquisiti.

C’è piuttosto il fatto che a queste analisi non ha finora corrisposto un adeguamento efficace delle politiche rivendicative concrete del sindacato.

Per tentare un passo in avanti, dobbiamo, credo, rimettere in discussione radicalmente le strutture dell’inquadramento professionale.

Il limite non sta tanto nel principio in sé dell’inquadramento unico, quanto piuttosto nei modi in cui esso si e realizzato, nella tendenza ad una progressiva semplificazione, ad un appiattimento, per cui oggi abbiamo tra le mani uno strumento quasi inservibile. Con una struttura di inquadramento che è di fatto limitata a tre o quattro livelli non c’è posto per una politica del sindacato verso tutta la ricchezza delle nuove figure professionali, e si finisce così per subire o accettare il fatto che su queste figure agisce l’iniziativa unilaterale, non contrattata, delle direzioni aziendali.

Per non restare ingabbiati nell’attuale situazione, dobbiamo provocare dei momenti di rottura, di svolta. E ciò può essere fatto a partire da esperienze di contrattazione articolata aziendale, a cui dovrà successivamente seguire una diversa normativa nei contratti nazionali di categoria. Anche in questo caso, la centralizzazione costituisce un impaccio, e deve invece essere valorizzato il momento aziendale, che è il solo a poter riflettere in misura sufficientemente precisa le concrete articolazioni della professionalità dei lavoratori.

Una “rottura” degli schemi attuali di inquadramento è necessaria in due direzioni. Occorre in primo luogo superare la concezione e la pratica dell’egualitarismo, e quindi impostare una struttura di inquadramento fortemente differenziata, aperta verso l’alto, e quindi capace di riportare entro la contrattazione sindacale i salari di fatto e di dare risposte concrete e realistiche ai problemi della professionalità. In secondo luogo, si tratta di ricostruire una gerarchia dei valori professionali che sia corrispondente ai mutamenti in atto, alle nuove caratteristiche dell’organizzazione del lavoro.

Se è vero che vengono sconvolte le vecchie gerarchie, che perdono significato le tradizionali classificazioni del lavoro operaio e del lavoro impiegatizio, allora l’operazione da farsi non può essere solo quella di allargare i ventagli retributivi tenendo ferme le classificazioni attuali, ma è necessariamente un’operazione più complessa, in cui occorre saper distinguere tra esigenze reali di valorizzazione professionale e spinte corporative non accettabili. Nel movimento dei quadri convivono questi due aspetti, e per questo esso assume una connotazione ambigua, in quanto esprime ad un tempo un’istanza di rinnovamento e una di conservazione e di restaurazione di privilegi di status sociale che non hanno più alcuna ragione d’essere.

Un’altra grande questione che viene posta dall’innovazione tecnologica è quella degli effetti sull’occupazione. Il fenomeno della disoccupazione tecnologica non potrà essere affrontato senza un intervento fortemente innovativo sugli orari di lavoro. Sta probabilmente qui, in questo rapporto occupazione-orario, il centro e l’elemento propulsore della contrattazione articolata che va costruita nei prossimi mesi.

Nuovi regimi di orario, flessibilità, regolamentazione del part-time, contratti di solidarietà, uso a rotazione della cassa integrazione, riduzioni di orario correlate a una diversa utilizzazione degli impianti, nuovi strumenti di controllo della mobilità del lavoro e della formazione professionale: è su questo insieme di temi che occorre intervenire, con una linea di grande articolazione, non essendo percorribile, come l’esperienza ha dimostrato, un obiettivo generalizzato di riduzione dell’orario.

Con i più recenti contratti di categoria è stata tentata questa strada, ma non si è andati oltre risultati molto contenuti, solo simbolici che non hanno un effetto pratico sull’occupazione.

Occorre dunque seguire una strada diversa, che tenga conto delle caratteristiche peculiari dei diversi settori produttivi e delle singole aziende, dei loro problemi di efficienza delle diverse situazioni di mercato, costruendo così piattaforme che siano percorribili e che siano direttamente finalizzate alla difesa dell’occupazione e alla costruzione di nuovi posti di lavoro.

Infine, l’ultimo campo di intervento che deve essere esaminato è quello che riguarda gli strumenti di politica industriale e di programmazione. Concreti obiettivi possono essere individuati per il sostegno alla ricerca e all’innovazione, per il finanziamento alle sperimentazioni di nuove forme di organizzazione del lavoro.

Ci sono in questo campo importanti esperienze realizzate in altri paesi europei, che possono costituire un utile punto di riferimento.

Ed è da valutare anche l’opportunità di interventi legislativi che facciano da supporto ai diritti di informazione, che sanciscano procedure obbligatorie di consultazione su determinate materie.

Mi limito a questa rassegna di problemi. Abbiamo chiesto il contributo di studiosi, di specialisti; abbiamo sollecitato la testimonianza di alcune esperienze sindacali significative che si sono realizzate in questi ultimi anni. Chiediamo a tutti un contributo e un dibattito aperto, un apporto di idee, di esperienze, di proposte, di suggerimenti critici, Il materiale di questo dibattito sarà un’utile base di riflessione per le scelte di politica rivendicativa e contrattuale che dovremo compiere, e che dovremo discutere coinvolgendo tutti i lavoratori in un vasto e democratico confronto di massa, che possa rilanciare il ruolo del sindacato e farlo uscire dalle presenti difficoltà.


Numero progressivo: A57
Busta: 1
Estremi cronologici: 1984, 10 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -