IL RELATIVISMO CONTRO L’ALLEANZA TRA FEDE E POTERE

Replica a Comin Olivera

Intervento di Riccardo Terzi

  1. Che cosa è il relativismo

Sono molto grato ad Antoni Comin, che ha voluto impegnarsi in un serrato e puntuale esame critico del mio “elogio del relativismo”, individuando con grande acutezza i punti di convergenza e di dissenso. È un’ottima base, che mi consente di chiarire e di sviluppare meglio la mia posizione.

Innanzitutto, che cosa intendiamo per relativismo? C’è evidentemente, tra me e Comin, una “discrepanza terminologica”, una diversa percezione del significato delle parole. Accade spesso, e il dialogo richiede sempre un preliminare accordo intorno ai concetti in cui si articola il nostro discorso. Per Comin il relativismo si identifica con lo svuotamento morale e culturale che attraversa le nostre società post-moderne, che hanno smarrito lo stesso impulso a ricercare la verità, ad interrogarsi sul giusto e sull’ingiusto, e che sono quindi caratterizzate da una posizione di “indifferenza”, per cui alla fine l’unica cosa che conta è il calcolo individualistico delle convenienze. Il relativismo, in questa accezione, è la rinuncia al pensiero. Nel trionfo del consumismo capitalistico, non c’è più lo spazio per una riflessione sul nostro essere, ma ci lasciamo travolgere, senza pensiero, dal flusso degli impulsi immediati. Si determina così una forma di vita che resta del tutto opaca alle domande della ragione e che si lascia dirigere dalle forze materiali che invadono la nostra esistenza, senza saperle controllare, senza cercare di ricostruire un significato, un criterio che ci guidi in questo mondo dominato dalle leggi del mercato.

Ma davvero è questo il senso della polemica che oggi è aperta intorno al relativismo? Quando Ratzinger denuncia il pericolo di una “dittatura del relativismo”, intende riferirsi alla dittatura del mercato e all’antropologia individualistica che ne discende? A me sembra che la posta in gioco sia un’altra. Nel linguaggio della Chiesa, il relativismo è l’equivalente della ragione che non accetta di essere illuminata e limitata dalla fede e che è decisa a camminare solo con le sue forze. Ed è a questa ragione, autonoma nel suo svolgimento e nella sua ricerca, che viene imputata la responsabilità del decadimento dei valori e dello smarrimento morale. È la ragione stessa che nel suo cammino di autonomia, priva dell’illuminazione che può essere data solo dalla rivelazione cristiana, approda necessariamente ad un esito distruttivo, nel quale tutti i valori morali si trovano senza fondamento.

Alla modernità, che pretende di sottoporre tutto ad una verifica critica e razionale, si contrappone il mito di una comunità compatta, vivificata dal vincolo comune della fede e della religione. Si tratta appunto del conservatorismo dogmatico e pre-moderno, di cui ci parla anche il saggio di Comin, che vede con chiarezza questa possibile traiettoria nell’azione attuale della Chiesa. Il punto centrale non è la critica del capitalismo, ma è la critica della libera razionalità.

Ma torniamo al relativismo. Se stiamo al significato sostanziale della parola, esso non significa che la verità non esiste, o è indifferente, ma che è “in relazione”, che richiede quindi, per essere afferrata o almeno avvicinata, di esaminare tutto il complesso delle relazioni (storiche, sociali, culturali) all’interno delle quali il nostro pensiero si trova ad agire. Relativismo e criticismo non sono significati disgiunti, ma stanno ad indicare la stessa posizione di rifiuto verso qualsiasi pretesa di esibire una verità assoluta, già data in partenza e non soggetta alla critica della ragione.

Continuo quindi a pensare, in base a questa definizione, che il relativismo non è una malattia della ragione, ma è il suo modo di essere, è la sua natura sostanziale, perché la ragione non può mai dire di essere pervenuta alla verità assoluta. Diverso è il discorso sul nichilismo, che attraversa gran parte della cultura moderna. In questo caso la ricerca della verità è destinata al naufragio, perché è il nulla il fondamento dell’essere e tutte le verità sono solo illusioni. Il nichilismo è il sentimento di un vuoto ontologico che non può essere colmato, di una condizione umana che nelle sue stesse radici è priva di senso.

Giacomo Leopardi esprime questa posizione nel modo più conseguente e radicale: «Pare un assurdo, e pure è esattamente vero che tutto il reale essendo un nulla, non v’è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni.»

Si tratta, come è evidente, di una sfida globale alla nostra umana razionalità, una sfida difficile e impegnativa. Ma non credo che sia il nichilismo a minacciare le nostre società contemporanee, quanto piuttosto l’indifferenza. Il nichilismo è pensiero negativo, ma è pur sempre pensiero. Quando c’è pensiero, c’è comunque un interrogarci che dà dignità alla nostra vita. All’inverso, nella società dell’indifferenza e dell’infinita manipolazione, per cui tutte le verità sono fungibili a seconda delle convenienze, è la stessa umanità che si perde, perché si lascia del tutto dominare dalle potenze esterne. Senza pensiero, l’uomo è un nulla in balia degli eventi.

 

  1. L’uomo come relazione

Noi, come esseri umani, siamo un crocevia di relazioni, siamo il luogo di incontro in cui si condensa una pluralità di rapporti, col mondo esterno, con la società organizzata in cui viviamo, con le altre persone, secondo un movimento assai complesso di attrazioni e di repulsioni, di incontro e di scontro. Se l’uomo è relazione, la ragione stessa non può essere esercitata fuori da questa relazione. Essa non è altro che l’attitudine al dialogo, che ha in Socrate il suo simbolo. Il discorso del relativismo ha qui le sue radici, in questa relazione, in questa ricerca che implica il rapporto con gli altri, in un dialogo che resta infinitamente aperto.

Ciò non ha nulla a che fare con l’individualismo corrente, per il quale il soggetto è il singolo irriducibile, narcisista e impotente, che si illude di stare al centro del mondo. Nella società di mercato ci sono relazioni tra le cose, scambi, commerci, ma gli uomini restano separati, e ciascuno si trova solo a calcolare quali sono i suoi vantaggi, nell’universale competizione in cui tutti si oppongono a tutti. Mettere al centro la relazione vuol dire dunque superare l’atomismo individualistico e pensare l’identità del soggetto nel suo contesto sociale. Questo è oggi il problema: un allentarsi dei legami sociali, e una condizione in cui l’individuo è lasciato a se stesso, autonomo nell’apparenza, ma nella realtà dominato da potenze oggettive di cui ha perso ogni possibilità di controllo.

Non c’è affatto, come si teme, un eccesso di libertà, una soggettività sfrenata che in questa sua sfrenatezza si perde. C’è invece, possiamo dire, una dittatura dell’economico sul politico, della necessità sulla libertà, per cui ci muoviamo entro un perimetro di possibilità precostituite. Non è nel relativismo il segno del nostro tempo, ma nel “pensiero unico” che delimita a priori qual è lo spazio del reale e del possibile. L’epoca dell’individualismo dispiegato è nello stesso tempo l’epoca nella quale si dissolve l’autonomia della persona, dando luogo ad un processo di omologazione di massa e di perdita del valore delle differenze. Credo che in questa avversione verso una società in questo senso individualizzata e svuotata, ridotta all’automatismo di movimenti individuali eterodiretti, ci sia piena consonanza con le riflessioni di Comin, nonostante le differenze di linguaggio.

 

  1. L’alleanza di fede e potere

Il libero esercizio della ragione trova oggi, come sempre, due ostacoli. Il primo è l’idea che la verità è già data ed è depositata in un codice dottrinario di cui solo l’autorità costituita possiede la chiave interpretativa. Può trattarsi di religione rivelata, o di ideologia politica, la sostanza non cambia. Se c’è un dogma da osservare, lo spirito di ricerca è per sua natura sospetto. Il secondo ostacolo, meno appariscente e in apparenza meno brutalmente oppressivo, è quell’insieme di comportamenti opportunistici su cui si fonda la logica del potere. Da questo punto di vista, la verità è sempre manipolabile, in ragione degli interessi e delle convenienze del momento.

Sull’autonomia della ragione si esercita così una duplice pressione, in nome di un’autorità che detiene il monopolio della verità, e in nome della ragion pratica che decide opportunisticamente, di volta in volta, che cosa si può dire e che cosa si deve tacere. Questi due estremi, ci suggerisce Comin, sono segretamente convergenti. Sono i due lupi, in apparente conflitto tra di loro, ma in fondo alleati, perché interessati a spartirsi il potere. Dogmatismo e opportunismo tendono a convergere, perché la fede può essere usata come un utile ingrediente per la conservazione dell’ordine costituito, e perché l’autorità dogmatica, sia essa religiosa o politica, ha sempre bisogno non solo del consenso, ma anche della forza.

Ma in questo gioco del lupo, il relativismo quale ruolo svolge? Faccio davvero fatica ad immaginare un lupo relativista, dubbioso ed incerto nella sua condotta. Il relativismo può avere molti difetti, ma non certo quello della ferocia. Al contrario, è proprio l’alleanza di fede e potere che tende a mettere fuori gioco ogni atteggiamento critico, ogni libera ricerca. Il relativista finisce per essere il capro espiatorio.

È un fenomeno ricorrente nella storia, e oggi torna ad essere ben visibile. C’è tutto un blocco di forze conservatrici che gioca la carta della cristianità, delle “radici cristiane” dell’Europa, per immobilizzare le nostre società in un ordine chiuso: contro le culture che cercano di dare voce ed identità all’immenso continente degli esclusi, e contro le nuove domande di libertà che si affermano nello stesso cuore dell’Europa. La cristianità viene usata per dire ordine, gerarchia, sacralità intangibile delle forme attuali di dominio. Ora, è proprio da questo blocco di forze che parte l’attacco al relativismo e alla laicità dello Stato, ovvero a quell’ordine costituzionale nel quale lo Stato garantisce uno “spazio comune”, aperto al pluralismo dei progetti e delle culture. L’Europa, che è essenzialmente una forza di libertà e di inclusione, viene rovesciata nel suo opposto. Diviene una fortezza assediata che si difende con le armi dell’intolleranza e con l’arroganza del potere. Tutta la grande stagione dell’illuminismo europeo viene completamente abbandonata e rifiutata. Questo è oggi il terreno sul quale si svolge uno scontro che sarà decisivo per il nostro futuro.

Per chiarire quali sono i termini del problema, possiamo citare le parole di Gustavo Zagrebelsky: «La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, ad eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili.»

Tra democrazia e laicità dello Stato c’è dunque una totale integrazione. La democrazia infatti si affida al libero gioco del confronto e della competizione tra idee diverse, tra diversi modelli possibili, i quali tutti possono concorrere legittimamente a definire le scelte collettive. Non c’è nessuna verità di Stato, perché lo Stato deve essere solo il garante di questa libera competizione. Ed è proprio questo nucleo fondamentale di principi che si tenta oggi di rimettere in discussione.

La battaglia intorno alle “radici cristiane” non è altro che il tentativo di ribaltare il principio di laicità che regola il nostro ordinamento costituzionale, introducendo un vincolo ideologico che seleziona a priori il campo di ciò che è moralmente legittimato. Tra l’altro, a me sembra, da un punto di vista religioso, una tesi del tutto aberrante. Dire che le nostre società europee, in questo inizio del nuovo millennio, sono società “cristiane” equivale a dire che il messaggio della salvezza si è compiuto e che si tratta solo di convivere tranquillamente con il mondo così com’è, ormai pacificati e integrati nella mediocrità della nostra condizione.

Penso all’orrore che avrebbe suscitato in un pensatore cristiano come Kierkegaard l’idea di mettere Cristo in una costituzione politica. La parola di Cristo è la parola che scuote, che ci chiama a rivoluzionare la nostra vita, a liberarla da tutte le inerzie che la appesantiscono. Si vorrebbe invece usare questa parola per santificare la nostra opportunistica agiatezza di uomini dell’Occidente, per sfidare ancora una volta il mondo con il terribile messaggio: Dio è con noi.

Nell’alleanza tra fede e potere, è sempre il potere che vince. La religione è solo usata e travisata, trascinata su un terreno improprio, dove finisce per perdere la sua forza e la sua integrità. Illuminare la religione, dice Comin, vuol dire riportarla nel suo ambito di appartenenza. Cerchiamo allora di costruire una diversa e opposta alleanza, un’alleanza che non ha il suo cemento nel potere, ma nella libertà delle persone e nel loro dialogo.

 

  1. Valori e norme

Dal famoso “homo homini lupus” di Thomas Hobbes, la metafora del lupo è ricorrente nelle rappresentazioni della convivenza umana e dei suoi conflitti. C’è uno straordinario testo di Friedrich Dürrenmatt, “Megaconferenza sulla giustizia e sul diritto”, che è una lunga divagazione sul “gioco del lupo” e sul tentativo di ribaltarlo in un diverso gioco, il “gioco del buon pastore”, nel quale gli istinti animali dovrebbero essere tenuti sotto controllo da un governo delle cose umane affidato alla saggezza di un arbitro, che sostituisce alla competizione l’uguaglianza del diritto. La conclusione è problematica, perché anche il buon pastore, per poter esercitare la sua autorità, tende ad assumere i caratteri del lupo, e infine si può dire che non c’è nessun gioco che ci mette del tutto al riparo dalla violenza che è insita nella lotta per il potere.

Quando si analizza la politica, occorre sempre un grande realismo, una comprensione dei meccanismi concreti che la regolano, i quali hanno sempre una loro autonomia rispetto alle categorie di un’etica astrattamente concepita. Per questo, la politica non può essere decifrata attraverso i “valori” che essa stessa proclama, perché i valori sono spesso solo una copertura, e vanno a loro volta reinterpretati e demistificati, tradotti nel linguaggio politico, il quale tratta essenzialmente dei rapporti di forza. In questo, io continuo ad essere un lontano discepolo del Machiavelli.

Riconosco però di aver trattato del problema dei valori in modo troppo sbrigativo, introducendo una contrapposizione assai forzata tra valori e norme. Per chiarire, il mio bersaglio polemico è solo la retorica dei valori, con la quale la politica finge di essere quello che non è. Dietro lo sbandieramento dei valori, c’è quasi sempre un trucco, una trappola, una manovra strumentale. E allora ho bisogno di sapere come quei valori vengono concretamente incorporati in un determinato sistema di norme. Che si parli di libertà, di famiglia, di solidarietà, o di pace nel mondo, sono parole vuote fino a quando non so come esse vengono tradotte in un programma politico che possa essere valutato nella sua concretezza. I valori, in sostanza, valgono solo in quanto si materializzano, si incorporano in una pratica politica.

Mi pare che Comin dica la stessa cosa, vedendo i valori e le norme come le due facce di uno stesso processo, che si integrano reciprocamente. Posso totalmente convenire. Se invece i valori fluttuano nell’aria, come messaggi ideologici, come suggestioni, come strumenti di propaganda, senza che sia reso visibile il loro rapporto con la realtà, una posizione di diffidenza mi sembra essere l’unica ragionevole. Non per negare i valori, ma per rifiutare la loro manipolazione.

 

  1. Dell’incertezza

Se la politica è il dominio del relativo, è inevitabile estendere questa regola di incertezza e di provvisorietà a tutte le forme dell’attività umana? Su questo punto intervengono le obiezioni e le domande di Comin: «È veramente necessario saltare senza soluzione di continuità dall’autonomia della ragione alla sua incapacità di dare certezze? È obbligatorio identificare la provvisorietà della verità con l’incertezza?»

Il movimento della ragione è un processo di approssimazione alla verità, che non può mai dirsi compiuto, esaurito. Esistono sempre delle incognite, su cui ulteriormente lavorare, ed esiste sempre la possibilità che nel cammino della nostra ricerca ci si trovi nella necessità di ribaltare, o di correggere profondamente, le nostre precedenti convinzioni. In questo senso, un certo grado di incertezza è nella natura stessa della ricerca razionale e non può essere eliminato. Ma ciò non significa affatto che l’esercizio della ragione sia un’inutile fatica di Sisifo, che ci fa ogni volta ricominciare daccapo, senza mai approdare a nessun risultato. L’incertezza che inevitabilmente ci accompagna non è una nebbia che ci avvolge e ci lascia senza punti di riferimento, ma è la condizione di chi sperimenta, e procede per passi, e verifica di volta in volta il suo cammino, pronto a correggerlo e a perfezionarlo. Lo spirito scientifico è esattamente questo: non il senso di vuoto e di smarrimento di fronte ad un mondo impenetrabile, ma la testarda volontà di venirne a capo, anche se sempre e necessariamente per passi graduali, per avanzamenti successivi, tutti utili e importanti, ma mai definitivi.

«Trattando di filosofia – diceva Giordano Bruno – tutte le cose saranno per me ugualmente dubbie: non solo le affermazioni più ardue e lontane dal senso comune, ma anche quelle che sembrano sin troppo certe ed evidenti, dovunque e comunque saranno oggetto di controversia.» Qui è evidente come l’incertezza scientifica non è un arrendersi, ma uno sfidare il mondo e le sue apparenti evidenze, per cercare la verità lungo i sentieri più impervi, con l’unica guida della ragione.

Questo vale in generale per tutta l’esperienza umana: saper stare nell’incertezza, senza esserne sopraffatti, senza smarrimento, e saperla sempre superare in un processo continuo di approssimazione alla verità. L’incertezza agisce come uno stimolo, come una spinta ad andare più a fondo nella comprensione delle cose. Chi non la sperimenta, chi non ha dubbi, è l’uomo appagato, che si ferma alle apparenze e che perciò non sente il bisogno di pensare.

 

  1. La religione come verità e come simbolo

Ma veniamo ora al punto più impegnativo e più intricato del discorso di Comino Qual è il ruolo della religione? Come si rapporta la nostra moderna razionalità al fenomeno religioso? È un tema che posso affrontare solo con molta discrezione e prudenza, proprio perché della religiosità non ho nessuna esperienza diretta.

Comin ci propone una sua interpretazione: «Per mezzo della religione e dell’arte esprimiamo ciò che è inafferrabile alla ragione umana, esprimiamo l’inesprimibile, vale a dire la nostra risposta alla domanda: perché il mondo è? Poiché non sappiamo la risposta, possiamo fare una cosa diversa, possiamo credere, desiderare, sperare questa risposta. Ma il contenuto di questa fede, di questa speranza, di questo desiderio può solo essere espresso attraverso il linguaggio simbolico. Le verità della fede sono delle verità di un altro ordine rispetto alle verità della ragione e della scienza. Se le conoscessimo non ci sarebbe bisogno di credere.»

Se si tratta di due ordini assolutamente distinti, se il movimento della fede travalica tutto il quadro delle certezze razionali e si colloca in una diversa dimensione, allora la prima conseguenza è che non c’è conflitto possibile, perché diverso è l’oggetto, diverso è il problema a cui si cerca di rispondere. Può essere un buon punto di partenza, ma restano molti aspetti da chiarire, molti lati oscuri da illuminare.

Il linguaggio simbolico di che cosa è simbolo? È un modo per giungere alla verità, a quelle verità ultime irraggiungibili dalla ragione, per una via più elevata, che è quella dell’intuizione e dell’unione mistica con Dio? O è il linguaggio della saggezza, che non si pone il problema del vero, ma solo quello del giusto, di ciò che è umanamente desiderabile per una vita secondo giustizia? Sono due diverse possibili traiettorie, che conducono in luoghi diversi. Da un lato il misticismo, che guarda con una certa irrisione agli sforzi della ragione, perché possiede una via più diretta e più sicura per raggiungere la verità; dall’altro la saggezza, il Tao dei cinesi, il concentrarsi non sulla verità ma sul perfezionamento di sé, alla ricerca di una vita autentica. Ci può essere infine la risposta di Pascal: la fede come scommessa, come calcolo razionale che decide di investire sulla fede, anche se non ci sono certezze ed evidenze, perché è in gioco il nostro possibile futuro oltre la vita terrena. Non mi è del tutto chiaro che cosa significhi per Comin la religione come simbolo.

Mi è più chiaro il fatto storico che le religioni, e quella cattolica in particolare, si sono costituite su una diversa base, intendendo il loro linguaggio come l’espressione di un contenuto positivo di verità. Ratzinger non fa che ribadire questa tradizione, rifiutando con grande fermezza tutte le interpretazioni misticheggianti, e polemizzando con vigore contro l’idea che le religioni positive si differenziano solo nei loro simboli, dietro i quali c’è un’unica e comune verità nascosta. La croce non è un simbolo, ma è l’evento storico concreto, umano e sovrannaturale allo stesso tempo, dal quale passa l’unica possibile via di salvezza.

Nella denuncia del relativismo, forse è proprio questo il primo bersaglio, l’idea di una fede che possa essere scissa dalla verità. Anche l’amico Comin, sotto questo profilo, non mi sembra essere messo al riparo.

Comunque, mi sembra del tutto giusto chiedere alla razionalità una posizione di attenzione e di rispetto per il fenomeno religioso, il quale rappresenta una delle dimensioni fondamentali, e non provvisorie, dell’esperienza umana. Il suo fondamento è nel continuo riproporsi delle domande fondamentali sul perché della vita e della morte, sul perché dell’uomo e del mondo, domande alle quali la ragione non può mai dare una risposta conclusiva. È in questo senso che Comin introduce il concetto di “relativismo ontologico”, che significa appunto sapere che la ragione ha un limite oltre il quale non è in grado di procedere.

Posso convenire. Ma, di fronte all’inconoscibile, possiamo compiere diverse scelte. Possiamo cercare di allargare il più possibile il campo delle nostre conoscenze razionali, lasciando che i problemi insolubili restino irrisolti, accettando cioè l’idea che noi, esseri finiti, ci muoviamo all’interno di un limite, che può essere progressivamente spostato in avanti, ma mai eliminato. Oppure, possiamo scegliere la fede come tentativo di risposta ai problemi che non sono razionalmente risolvibili. Sono due scelte altrettanto legittime, e non vedo nessun motivo per considerare l’uno o l’altro di questi possibili atteggiamenti come moralmente superiore. Sono due diversi modi di intendere e di orientare la nostra vita, che si possono reciprocamente riconoscere, senza arroganza, senza dover competere per un primato. Non so se Comin può accettare questa risposta, che è la risposta del relativismo, per il quale non c’è solo una via, ma ciascuno è libero di scegliere quella che meglio corrisponde al suo essere. La via, il Tao, è essere in cammino, e non c’è nessuna meta precostituita. Se siamo in cammino, con un autentico spirito di verità e di ricerca, da qualche parte si dovrà pur arrivare, e i nostri diversi cammini si potranno forse alla fine incontrare.

 

  1. L’imperativo morale

Dobbiamo infine fare i conti con l’argomento classico di Dostojevskij: se Dio non esiste tutto è lecito, e non c’è nessun argine che può contenere i nostri impulsi egoistici e distruttivi. Comin usa questo argomento con molta discrezione e cautela, ma non rinuncia ad utilizzarlo. Si domanda quale può essere la forza morale che rende praticabile l’imperativo categorico di Kant, il dovere cioè di agire secondo un criterio di universalità. E risponde: l’idea di Dio come amore è l’impulso che può offrire le motivazioni soggettive per una condotta morale rigorosa. La religiosità si configura così come una necessaria integrazione della razionalità, in grado di sorreggere la stessa ragione nel campo dell’etica, in grado cioè di dare forza cogente al dover-essere, che la ragione vede per via intellettuale, ma poi non ha la forza emotiva per fame un principio efficace nell’esperienza vitale della persona. Si riaffaccia così la vecchia tesi che la ragione, senza l’illuminazione della fede, è destinata a perdersi.

Devo dire che questo argomento mi è sempre sembrato del tutto sofistico, e largamente smentito dal corso reale della storia. I delitti contro Dio sono largamente bilanciati dai delitti che si sono compiuti nel nome di Dio. La religione non ha mai dimostrato di essere un argine sufficiente per contenere la violenza, e anzi è stata spesso il veicolo di questa violenza. Che la rettitudine morale dipenda dalla fede religiosa è una tesi che non può in nessun modo essere dimostrata, e che io sento, personalmente, come un’offesa, perché insinua l’idea che i “non credenti” siano soggetti moralmente vulnerabili. Non c’è bisogno di Dio per indignarsi di fronte al male e alle ingiustizie. E non basta Dio per decidersi a combattere in nome della giustizia.

Nella storia, e anche nella nostra esperienza attuale, vediamo sempre all’opera una grande complessità, nella quale si incrociano le più diverse motivazioni, con gli esiti più svariati e spesso non prevedibili. La religione è solo una componente di questa storia, e può agire in diverse direzioni, può essere di volta in volta strumento di oppressione o di liberazione. Nella storia non rintracciamo una regola, ma vediamo come i confini del giusto e dell’ingiusto sono sempre in divenire, e spesso l’uno si capovolge nell’altro.

L’unica conclusione possibile è che abbiamo bisogno del dialogo e del rispetto reciproco, e che nessuno ha i titoli per vantare un primato morale. Il dialogo è ricerca, è inquietudine, è percezione dei propri limiti e della provvisorietà delle proprie certezze. Per Comin la fede è sempre accompagnata da un certo tremore: «Se la fede fosse certezza, se fosse sicurezza, non sarebbe più fede. La fede, per essere tale, deve necessariamente riconoscere la propria precarietà.» Lo stesso vale per la ragione, se è consapevole dei suoi limiti e non si chiude, a sua volta, nella fortezza del dogmatismo.

 

  1. Conclusione

Spero di avere risposto alle obiezioni e alle domande, e di avere chiarito a sufficienza il significato che attribuisco al relativismo, intendendolo come la condizione per una libera ricerca e per un dialogo, nel quale ciascuno si mette in relazione con l’altro, si mette in ascolto, e attraverso questo rapporto rielabora il proprio pensiero, e cerca di rispondere alle criticità e ai punti deboli che si sono evidenziati. Questo nostro stesso dialogo si è sviluppato su queste basi. E naturalmente potremmo continuare, con ulteriori precisazioni e correzioni. Spero che ce ne sia data l’occasione.

Ciò che infine voglio sottolineare è che ci ritroviamo, partendo da una diversa impostazione culturale, in una comune percezione degli impegni etici e politici che incombono sul nostro tempo. In un mondo dove continuano a imperversare i lupi dell’intolleranza e del potere, dove sembrano tornare gli antichi fantasmi delle guerre di religione e degli scontri di civiltà, è urgente agire per rendere possibile uno sbocco diverso. In questa direzione possiamo essere mossi da motivazioni religiose o semplicemente umane, dalla fede o dalla ragione, ma in fondo non importa molto da dove veniamo, importa dove andiamo. Nel frattempo, continueremo a discutere, a confrontarci, a interrogarci intorno alla verità.


Numero progressivo: V65
Busta: 74
Estremi cronologici: 2006
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Rivista
Tipo: Scritti
Serie: Cultura -
Pubblicazione: “Gli Olivetti e il socialismo. Interventi al convegno organizzato da Communitas 2006”, I quaderni le scienze dell’uomo, Milano, 2006, pp. 43-57