IL PSI: DAL CENTRO-SINISTRA AD OGGI
Corso operaio bimestrale, ottobre-novembre 1977
di Riccardo Terzi
Credo sia evidente che, per inquadrare la politica del PSI, sia necessario risalire all’esperienza del centro-sinistra, dare una valutazione di quest’esperienza, e seguire il processo politico che ha portato via via il PSI a modificare la propria posizione politica. Quindi mi pare che la prima domanda a cui dobbiamo cercare di rispondere riguarda appunto quali erano le fondamentali premesse politiche e strategiche del centro-sinistra e quali le ragioni del fallimento di questa prospettiva politica. Non si tratta soltanto di una questione di valutazione storica, mi pare che si tratti anche di una questione di estrema attualità: e non soltanto perché si tratta di una vicenda recente e quindi ancora presente nel dibattito politico, ma anche perché, nei confronti della linea politica che il nostro partito cerca di realizzare in questa fase, da varie parti si obietta che con questa linea politica volta a realizzare una nostra partecipazione al governo del paese si rischia di ripercorrere i medesimi errori e le medesime illusioni che avevano appunto caratterizzato il centro-sinistra. Questa osservazione, questa obiezione ce la siamo sentita rivolgere in varie occasioni e da varie parti. E sulla base di questa assimilazione, che io ritengo superficiale, tra la linea nostra e l’esperienza passata del centro-sinistra, si sostiene che anche le nostra linea è destinata ugualmente ad un esito fallimentare. Oppure, anche da parte dei compagni socialisti, ci viene osservato come le posizioni che noi oggi sosteniamo sono soltanto una tardiva accettazione di quanto i socialisti avevano elaborato nel recente passato e come quindi l’errore fu allora nel tipo di opposizione che il nostro partito ha condotto nei confronti della politica del centro-sinistra.
Ora a me pare che per giudicare una linea politica sia necessario non soltanto valutarne gli obiettivi ed i programmi, ma anche vedere quale schieramento di forze si vuole mettere in movimento, a quale schieramento di forze si fa riferimento per realizzare quella linea politica. Da questo punto di vista l’errore fondamentale di tutta l’impostazione politica che il PSI ha seguito in tutto il periodo del centro-sinistra sta nel fatto che quella linea politica si basava ed implicava necessariamente un processo di divisione della classe operaia. E questo ovviamente ha avuto delle ripercussioni politiche particolarmente pericolose che hanno indebolito la forza complessiva delle schieramento di classe, che hanno indebolito anche le possibilità per il PSI di utilizzare la propria partecipazione al governo con una sufficiente forza contrattuale nei confronti della DC e delle altre forze politiche. Cioè in sostanza veniva accettata e subita l’impostazione della DC, secondo la quale il rapporto di collaborazione governativa col PSI era possibile ed accettabile solo in quanto venivano tagliati i rapporti di collaborazione unitaria tra i socialisti ed i comunisti. Questo era chiarissimo nelle elaborazioni della DC, era un obiettivo dichiarato apertamente anche da parte di quegli esponenti più avanzati della DC, per i quali appunto il centro-sinistra doveva essere l’avvio di un processo politico volto a recuperare gradualmente settori consistenti del movimento operaio ad una visione di tipo riformistico, provocando una lacerazione e una rottura nella tradizione di unità di classe che aveva caratterizzato l’esperienza del movimento operaio italiano in tutta la fase precedente. In questo modo il PSI si trovava ed essere come catturato entro un sistema di rapporti politici che rimaneva saldamente in mano alla DC, dominato dall’egemonia della DC e quindi entro questo sistema di rapporti politici il PSI si trovava inevitabilmente in una posizione di debolezza, in una posizione subalterna, impossibilitato a contrastare l’egemonia democristiana ed il predominio dei gruppi più conservatori.
Data questa situazione, è evidente come fosse possibile ottenere dei risultati quanto mai modesti e limitati, e questo indipendentemente dalle intenzioni, dalle volontà e dei propositi riformatori che pure certamente animavano il PSI. Nella polemica di quegli anni – che è stata una polemica molto violenta e molto aspra nell’ambito della sinistra, talora veniva introdotta anche una considerazione di ordine morale, perché si giudicava questa scelta che veniva compiuta dal PSI come il segno di un tradimento, di un passaggio dall’altra parte dello schieramento di classe: credo sia evidente a tutti noi, almeno oggi che abbiamo la possibilità di valutare le cose con maggiore distacco e oggettività, che certamente non si trattava di questo, si trattava invece di una scelta politica che aveva certamente una sua legittimità, ma che apriva una contraddizione profonda nel movimento operaio e quindi l’asprezza delle polemiche di allora erano il riflesso della coscienza presente tra i lavoratori del valore dell’unità di classe e quindi del rischio grave che il movimento di classe incontrava nel momento in cui si apriva un processo di divisione, un processo che metteva a repentaglio tutto un patrimonio unitario che si era costruito nel passato.
Nella valutazione di questa esperienza ci si può domandare se non fosse questa fase del centro-sinistra una fase obbligata, una fase di passaggio che in qualche modo doveva pure essere percorsa dal movimento operaio. Ciò significa che il PSI con questa scelta, con questa esperienza politica, avrebbe svolto come una funzione di preparazione, essendo impossibile un processo politico più rapido e più radicale (certamente era impensabile che negli anni ‘60 la DC avviasse direttamente un rapporto di ricerca unitaria, di confronto col PCI, non era maturata nessuna delle condizioni che oggi consentono di guardare le cose in questi termini) e quindi si trattava di avviare un processo, un primo approccio col movimento operaio, ed il PSI, per la sua natura, per la sua collocazione, per il suo modo di essere era l’interlocutore naturale nella DC. In questo senso, con l’esperienza del centro-sinistra, si sarebbero ottenuti alcuni risultati, ad esempio di evitare uno scontro frontale che contrapponesse tutto il movimento operaio alla DC ed alle forze moderate e si sarebbero preparata le condizioni per uno graduale spostamento a sinistra nell’equilibrio politico, rendendo possibile alla fine di tale processo l’avvio di un rapporto di tipo nuovo anche con il nostro partito.
In questa valutazione, non c’è dubbio, vi è anche qualche elemento di verità, ed io credo che noi oggi dobbiamo cercare di giudicare il significato di quella fase politica superando gli elementi di giudizio politico immediato e di polemica che abbiamo direttamente vissuto nel momento in cui gli avvenimenti si svolgevano: possiamo oggi giudicare, con maggiore distacco ed oggettività, e tuttavia a me pare che questo tentativo di giustificazione storica del centro-sinistra come fase obbligata non sia convincente nella sostanza. E questo per una ragione essenzialmente: perché non era questo il disegno politico consapevole con cui il PSI si apprestava a compiere questa esperienza, perché non c’era affatto in quegli anni la convinzione che al di là delle diverse collocazioni tattiche (socialisti al governo e comunisti all’opposizione) fosse necessario ritrovare al fondo una strategia dal respiro unitario. Non c’era quindi la consapevolezza che il centro-sinistra poteva avere un valore ed una funzione positiva solo se riusciva a non logorare il patrimonio unitario complessivo del movimento operaio.
Ed in sostanza questa era la critica che da parte nostra si era sviluppata nei confronti della scelta del centro-sinistra: se andiamo a rivedere le posizioni del partito, e particolarmente le posizioni sostenute da Togliatti in quegli anni, troviamo una valutazione attenta della politica del centro-sinistra, una valutazione non schematica in cui si colgono le potenzialità positive che potevano essere contenute nella politica del centro-sinistra. Togliatti infatti in tutte le dichiarazioni di quegli anni non soltanto non esclude in linea di principio la possibilità e l’opportunità della partecipazione al governo di un partito operaio, ma anche coglie il nuovo ed il positivo della situazione, sostenendo che con l’avvio della politica del centro-sinistra si apre per il movimento operaio una fase più avanzata, un terreno di lotta più avanzato e più favorevole.
Su un punto si concentra la polemica nostra nei confronti del PSI ed è appunto su quella questione che prima ricordavo, sul carattere scissionistico, di divisione, che tutta l’operazione del centro-sinistra assume, almeno nella fase iniziale: la rinuncia a un disegno unitario, a mantenere un rapporto unitario tra socialisti e comunisti sia pure in forme nuove, più articolate rispetto al passato. In realtà nel PSI, anche se con molti travagli e divisioni interne che hanno comportato un lungo periodo di contrasti, il gruppo dirigente che guida l’operazione del centro-sinistra e che fa capo a Nenni, accetta e fa propria la preclusione ideologica verso il PCI: una preclusione ideologica motivata dalle ragioni di carattere internazionale, dai collegamenti con il campo socialista, dalla presunta inconciliabilità della nostra visione della prospettiva socialista con la difesa degli ordinamenti democratici, e così via. Per cui appunto si dice che non esistono le condizioni una comune lotta per il potere.
Quindi da un lato vi è questa rottura di carattere ideologico che si inserisce nel movimento operaio, per cui le divergenze tra socialisti e comunisti impediscono un’azione comune sul terreno propriamente politico, sul terreno cioè dell’azione per conquistare un ruolo di governo nel paese e si ammette soltanto la possibilità che rimanga un’azione unitaria tra comunisti e socialisti su un altro terreno, su quello dell’azione economica e rivendicativa della classe operaia, nel movimento di massa, escludendo però appunto un’azione unitaria nella lotta per il potere.
E nel momento stesso in cui viene elevata questa barriera di carattere ideologico tra comunisti e socialisti, si avvia un rapporto con la DC o con gli altri partiti che invece è caratterizzato da un atteggiamento di estremo empirismo politico: non soltanto qui non vi sono barriere ideologiche, ma non vi è uno sforzo per condurre un’analisi approfondita circa la natura di questi partiti, la natura dello stato, del sistema di potere costruito dalla DC. Questa mi pare essere per grandi linee l’impostazione che ha caratterizzato l’avvio della politica di centro-sinistra; non vi era quindi l’idea di un equilibrio provvisorio da spostare in avanti non appena fosse possibile e facendo leva sul movimento unitario nelle masse; vi era invece nei teorici del centro-sinistra una concezione strategica per cui il centro-sinistra appariva come una risposta compiuta e in qualche modo definitiva ai problemi nella società italiana. Tale concezione rendeva permanente la divisione del movimento operaio e puntava a un logoramento del ruolo del partito comunista, a un isolamento del nostro partito sulla scena politica.
Mi pare che sia questa la ragione fondamentale per cui è stata giusta nella sostanza, anche se forse talora con qualche asprezza, la lotta a fondo, la battaglia molto netta che noi abbiamo condotto contro la politica del centro-sinistra. Si trattava di una battaglia contro la divisione che si voleva introdurre nel movimento operaio, contro la logica della spaccatura di carattere ideologico, e a me pare che tutta la linea di condotta seguita dal nostro partito fosse dettata essenzialmente da questo tipo di preoccupazione. E proprio perché era questa l’impostazione della nostra polemica, perché al centro vi era l’esigenza di salvaguardare il patrimonio unitario del movimento operaio, proprio per questo noi abbiamo fatto uno sforzo per evitare che il processo che si avviava divenisse un processo irreversibile. Per fare un esempio concreto: quando le vicende interne del Partito Socialista giungono a un punto di crisi acuta e si profila la scissione del ‘64, che darà vita al PSIUP, il nostro partito in quel momento ha avuto una posizione estremamente cauta, che tendeva a non incoraggiare la scissione, anzi se possibile a evitarla.
Infatti la scissione del partito socialista rischiava di rendere definitiva, irreversibile, la divisione del movimento operaio, e indebolire nel Partito Socialista, quella parte, quelle forze che si richiamavano ad una visione unitaria: la scissione rendeva permanente una divisione fra quanti avevano la preoccupazione per l’unità dei movimento operaio e quanti andavano invece diritti su una linea di rottura e di divisione.
Noi abbiamo sempre rifiutato di accogliere la tesi, che circolava nel movimento operaio ed anche in alcuni settori del nostro partito, secondo cui ormai il partito socialista era irrecuperabile il processo di socialdemocratizzazione di questo partito non più essere arrestato. Questa in fondo era la motivazione della scissione, e anche all’interno del nostro partito ci fu una discussione su questo problema: lo sforzo compiuto dal gruppo dirigente del partito fu quello di non accogliere questa posizione, di respingere queste conclusioni frettolose considerando sempre necessario, anche nella condizioni più difficili, agire verso il Partito Socialista e sviluppare una iniziativa politica di segno unitario.
A me pare che questa impostazione si sia dimostrata storicamente giusta, tanto è vero che a un certo punto si è invertita la tendenza, ed anche dopo la scissione il Partito Socialista ha avuto ancora una dialettica interna e ha dimostrato quindi che la linea di socialdemocratizzazione incontrava delle resistente interne forti, che hanno consentito a un certo punto di invertire la tendenza. Dopo il fallimento della unificazione socialdemocratica, dal ‘69 in avanti, appunto, vi è un recupero da parte del PSI della propria tradizione, di una propria collocazione di classe, di un rapporto con il movimento operaio: fra l’altro vi è un collegamento tra le vicende politiche e quelle che sono le esperienze concrete del movimento di classe: non a caso è il ‘69 l’anno in cui comincia questo processo di inversione di rotta del PSI, ed è anche il momento della più forte iniziativa unitaria della classe operaia sul terreno economico e sindacale.
Un capitolo che dovrebbe essere considerato a parte, e che naturalmente io qui non sviluppo, è quello che riguarda le conseguenze che i processi politici hanno avuto sul movimento di classe, sulle organizzazioni unitarie e di massa, particolarmente sul movimento sindacale. Anche qui il processo di divisione che era avvenuto sul terreno politico ha avuto delle ripercussioni serie: l’unità del movimento sindacale è stata esposta a rischi e a tensioni estremamente difficili. Si poneva cioè il problema di come mantenere intatta l’unità del movimento sindacale, e particolarmente l’unità della CGIL, nel momento in cui i socialisti erano al governo e il nostro partito all’opposizione, in una situazione di polemica anche aspra sul terreno politico tra i due partiti della classe operaia, ed è appunto in quel clima che a un certo punto viene anche affacciata l’ipotesi del “sindacato socialista”, una ipotesi che anche sul terreno sindacale avrebbe dovuto provocare una divisione netta delle responsabilità tra socialisti e comunisti.
A queste difficoltà nel movimento sindacale abbiamo fatto fronte ricorrendo ad una linea responsabile e duttile: ad esempio, quando a un certo punto si pone il problema di come si debbano comportare in alcune votazioni in parlamento, i parlamentari sindacalisti (allora non c’erano ancora le regole di incompatibilità, i maggiori dirigenti sindacali, sia comunisti che socialisti, erano nel Parlamento). Questa difficoltà veniva superata con una soluzione che evitava di aprire una polemica all’interno del movimento Sindacale per cui i parlamentari sindacalisti, caso della legge per la programmazione, hanno assunto una posizione di astensione.
Ma soprattutto si è riusciti a uscire delle secche in cui rischiava di cacciarsi anche il movimento sindacale, rilanciando l’obbiettivo più generale della unità sindacale riaprendo quindi un dialogo con le altre organizzazioni sindacali e avviando con decisione il processo di autonomia nel sindacato: un processo di autonomia che la consentito di non vedere immediatamente riflesse nel movimento sindacale le divisioni di carattere politico. Quindi questi due obbiettivi di fondo che sono oggi per noi acquisiti, l’obiettivo della unità sindacale e dell’autonomia sindacale nascono in questo clima.
Ed è appunto questa tenuta unitaria nel movimento di massa e anche sul terreno politico, in molti Enti locali, ha impedito che il centro-sinistra si trasformasse in una specie di regime, che si stabilizzasse, che provocasse una rottura verticale della sinistra o del movimento operaio, è questa tenuta unitaria che ha provocato la crisi e il fallimento del centro Sinistra.
All’errore fondamentale di seguire una politica di divisione, si aggiungono anche altri limiti di fondo, che io cerco di riassumere rapidamente. In primo luogo l’assenza di una strategia per la trasformazione dello Stato. Questo problema veniva affrontato assai superficialmente, considerando lo Stato come una strumento neutro che può essere piegato a rappresentare interessi di classe diversi a seconda delle maggioranze governative che di volta in volta si costituiscono. Non si era compiuta una riflessione più profonda sul tipo di meccanismo che lo Stato, così com’è, rappresenta, ed ecco la difficoltà di utilizzare la macchina dello Stato trasformarla dall’interno per ottenere determinati risultati. Di qui appunto, le illusioni sul significato di rinnovamento che automaticamente avrebbe avuto il fatto stesso, puro e semplice, dell’ingresso del PSI nel governo nella stanza dei bottoni. Certo si tratta di un problema abbastanza complesso di un problema strategico, quanto mai difficile che anche noi, non credo possiamo ritenere di avere compiutamente risolto, e dall’altra parte siamo anche consapevoli che non possono valere oggi le formulazioni classiche del Leninismo, perché siamo di fronte a una situazione, a un tipo di organizzazione statale, democratica e quindi diversa da quella a cui faceva riferimento l’analisi leninista: tuttavia di problema non può essere certo risolto nel modo superficiale che aveva caratterizzato la posizione del PSI durante il centro-sinistra. Durante tutta questa fase la macchina dello Stato rimane sostanzialmente inalterata, non viene avviato nessun processo di rinnovamento e questo è stato riconosciuto autocriticamente nel periodo più recente anche da alcuni esponenti socialisti, un riconoscimento autocritico basato soprattutto sulla considerazione delle gravi conseguenze politiche che sono venute dall’azione dei corpi separati dello Stato, dal fatto appunto che in tutto questo campo il centro-sinistra non aveva modificato assolutamente nulla, aveva lasciato intatto quindi un certo tipo di situazione che ha consentita alla Democrazia Cristiana di esercitare perennemente un ricatto nei confronti dei propri alleati. Limiti analoghi li troviamo anche nel campo della politica economica; l’idea fondamentale – ed è un’idea certamente giusta – era quella dell’avvio di una politica di programmazione ma questa idea che guidava l’azione del Partito Socialista rimaneva qualche cosa di astratto, di indefinito senza ricercare, senza costruire strumenti effettivi di programmazione della vita economica, per cui in sostanza anche su questo terreno economico l’incontro con la DC avveniva sull’ipotesi di un processo di razionalizzazione e di ammodernamento del sistema capitalistico un processo di razionalizzazione e di ammodernamento che lasciava quindi inalterate le caratteristiche di fondo dell’assetto sociale ad economico, e questa ipotesi che non aveva in sé nessun contenuto di rinnovamento, nessun indirizzo di tipo socialista, ma anche si è rivelata una ipotesi illusoria perché in realtà i gruppi capitalistici dominanti si sono dimostrati assai meno illuminati di quanto si volesse far credere e il capitalismo italiano ai è dimostrato anche negli anni del centro-sinistra incapace di superare i propri squilibri storici. Nella letteratura di quegli anni, in cui discuteva delle caratteristiche del nuovo capitalismo, del neocapitalismo sembrava che ormai fossero destinati rapidamente ad essere risolti alcuni nodi storici, il Mezzogiorno, che il capitalismo avesse definitivamente superato quegli elementi di arretratezza che hanno caratterizzato la storia del nostra paese; l’esperienza ha dimostrato quanto fossero illusorie non fondate queste previsioni. Per cui il bilancio della politica del centro-sinistra è un bilancio che presenta alla fine inalterati; in alcuni casi aggravati; questi squilibri: il problema nel Mezzogiorno si è inasprito il divario tra le regioni sviluppate e le regioni meridionali si è accentuato e l’intervento pubblico nell’economia – un intervento pubblico che certamente si è dilatato, si è ampliato durante il centro-sinistra – è avvenuto sotto il segno della inefficienza e della corruzione cioè non è avvenuto come in avvio serio di un intervento programmatorio nello Stato nella vita economica. Per cui appunto il bilancio che può essere ricavato da tutta l’esperienza del centro-sinistra è un bilancio che presenta questi tratti negativi evidenti nel campo del rinnovamento democratico dello Stato e nel campo nell’intervento pubblico nella vite economica. Questi limiti organici del centro-sinistra si rivelano in realtà assai presto già nei primi anni; per cui risulta prevalente l’aspetto di “normalizzazione moderata” che caratterizza la politica del centro-sinistra: già nelle Tesi che preparano l’XI Congresso del nostro partito, quindi nel ‘64, noi, parliamo di fallimento del centro-sinistra, esprimiamo un giudizio che parte da questa considerazione, dal fatto che i propositi di rinnovamento, i disegni ambiziosi della politica di riforme che avrebbe profondamente rinnovata le strutture economiche sociali e civili dal paese non si realizzano, ma incontrano delle resistenza accanita nella DC, nei gruppi capitalistici dominanti e quindi il centro-sinistra ben presto appare appunto come una politica di normalizzazione moderata. Questo giudizio contenuto nello Tesi per l’XI Congresso; aveva allora suscitato notevoli discussioni anche all’interno del partito, perché da parte di alcuni si considerava invece realizzati e concluso un disegno di integrazione di alcuni settori fondamentali della classe operaia e quindi di divisione politica del movimento. Io credo che valutando oggi le cose, fosse sostanzialmente giusto quel giudizio anche se certamente era un giudizio un po’ troppo anticipatore, Erano già presenti le ragioni essenziali del fallimento, la battaglia per liquidare in modo definitivo quella politica era una battaglia ancora assai lunga e assai difficile. A questi giudizi critici che mi pare mantengano intatto il loro valore e che anche ci spingono a vedere con estrema attenzione le difficoltà di oggi (perché alcuni di questi problemi ce li troviamo oggi di fronte per evitare un ricadere in quei limiti: come affrontare il problema del rinnovamento dello Stato , come affrontare il problema di un intervento nella economia che non sia astratta che non sia la dichiarazione di buone intenzioni, ma che abbia strumenti effettivi di intervento per superare il carattere di anarchia delle sviluppo capitalistico ecc.), a questi giudizi critici; io vorrei aggiungere due altre considerazioni. Il Partito Socialista con l’avvio della politica del centro-sinistra cerca di affrontare in modo nuovo rispetto al passato il problema della Democrazia Cristiana, del ruolo di questo partito, del rapporto che il movimento operaio può avere con la DC. A me pare che vi sia qui un lato positivo non sufficientemente analizzato neppure da parte socialista (anzi nel partito socialista vi è spesso la tendenza a vedere in modo negative tutto questa vicenda dei rapporti con la DC traendo oggi la conclusione che non sia possibile; non sia utile, non sia produttivo per il movimento operaio una iniziativa nei confronti nella DC). In realtà a me pare che, sia pure con quei tratti di empirismo che hanno caratterizzato la linee di condotta del PSI, vi fosse l’intuizione di un problema reale, del fatto che il processo di trasformazione democratica del paese richiede un coinvolgimento anche della DC, un’azione in positivo verso la DC per trasformarla; per avviare anche all’interno di questo partito e all’interno delle forze sociali che esso rappresenta e organizza un processo di tipo nuovo. La nostra risposta fu per un certo tempo un po’ debole su questo punto : per un certo periodo di tempo non siamo riusciti a vedere con sufficiente chiarezza il legame organico che unisce la questione cattolica alla questione democristiana, facendo un discorso che si rivolgeva genericamente alle masse cattoliche senza intendere appieno che il problema cattolico; pur non identificandosi con quello della DC, ha però un rapporto organico e che l’espressione politica fondamentale del mondo cattolico è la DC anche se poi c’è tutta un’articolazione più vasta altri settori, altri orientamenti nel mondo cattolico. Così anche vi è un rapporto organico tra la questione democristiana e la questione dei ceti medi: la politica delle alleanze che noi rivolgiamo verso certi strati sociali non può prescindere da quelle che sono le rappresentanze politiche di questi strati e in larga misura è appunto la DC che organizza queste forze. La seconda questione è quella dell’autonomia del Partito Socialista. La parola d’ordine dall’ autonomia che viene lanciata a un certo punto è una parola d’ordine che ha una grande efficacia, che trova una rispondenza nel partito, nei suoi quadri, che appunto esprime uno stato d’animo reale diffuso. Credo che anche di questo noi non abbiamo tenuto conto a sufficienza e che nella polemica con il PSI tutta la nostra risposta non teneva conto nella misura necessaria di questa spinta a un ruolo autonomo del Partito Socialista, con il rischio quindi di riproporre una concezione un po’ vecchia del rapporto unitario, Cosi ad esempio quando, per cercare di dare una risposta al processo di socialdemocratizzazione che viene avanti, viene lanciata la proposta da parte nostra del partito unico della riunificazione tra comunisti e socialisti, mi pare non fosse questa una risposta capace di avere una rispondenza effettiva della situazione; proprio perché non teneva conto di questa spinta autonomistica che non era in sé negativa anche se poteva caricarsi come in effetti si caricò nella pratica di una spinta anche alla rottura, alla divisione del movimento operaio. Soltanto recentemente nei abbiamo acquisito in modo chiaro il fatto che il movimento operaio italiano si articola attraverso diverse e irriducibili espressioni politiche, lo abbiamo acquisito almeno nella teoria: io dubito che abbiamo acquisito questo concetto pienamente anche nella pratica, perché spesso si verifica ancora la incapacità di autonomia necessaria delle diverse componenti del movimento operaio. Dobbiamo tra l’altro considerare che durante il periodo del centro-sinistra il PSI si è trasformato e ha mutato profondamente la propria composizione di classe, cessando di essere un partito prevalentemente operaio. Ciò è comprensibile: tutta l’esperienza della partecipazione al governo ha introdotto degli elementi di trasformazione. Che tipo di reclutamento è avvenuto in quegli anni? Quali sono la forze che si sono avvicinate, che hanno scelto di entrare nel PSI? C’è stata appunto una modifica rispetto alla tradizione, rispetto a quella che era la base tradizionale del partito. In non ho dei dati precisi, ma mi pare per quello che conosco della realtà del Partito socialista oggi, che questo partito si presenta essenzialmente come un partito che organizza strati impiegatizi, strati del pubblico impiego, piccola borghesia intellettuale, con una componente operaia che rimane, ma con un paso ridotto, in una posizione relativamente subordinata che non incide, che non dà una impronta fondamentale per cui oggi la diversità, l’autonomia non è soltanto un fatto di ordine politico, ideologico, ma è il riflesso di una realtà sociale diversa, di una caratteristica di classe non coincidente tra il nostro partito e quello socialista. In ogni caso non sono più proponibili gli schemi tradizionali del frontismo, ma è necessario individuare forme nuove di unità, di collaborazione, di intesa che tengano conto di questa situazione. Il fallimento della politica di centro-sinistra, che con tutti i limiti che ho detto era tuttavia una linea generale, organica, era una proposta strategica, ha aperto nel PSI una fase di travaglio e anche di crisi. Infatti si trattava di correggere radicalmente la linea politica del centro-sinistra, di ristabilire un rapporto con l’intero movimento operaio, di impostare in un modo nuovo il rapporto con il nostro partito, ma insieme anche di tenere salda l’autonomia del PSI di non ridursi ad un ruolo subordinato, collaterale. In una prima fase questo problema, questo nuovo equilibrio doveva essere cercato tra la visione unitaria del movimento operaio e l’autonomia politica del PSI si è cercato di risolverlo nell’ambito del centro-sinistra. Nel momento in cui viene lanciata la parola d’ordine degli equilibri più avanzati il PSI si propone di svolgere un ruolo dinamico nell’ambito del centro-sinistra, di operare perché vengano fatte saltare le barriere della delimitazione della maggioranza e quindi una azione dinamica collegata con la realtà più complessiva del movimento operaio. In realtà questa linea non ha dato grandi risultati, il logoramento del PSI è continuato, l’immagine del centro-sinistra non è stata rivitalizzata, l’obiettivo degli equilibri più avanzati è rimasto un obbiettivo un po’ formale, nominalistico cui non ha corrisposto un’azione incalzante. Si apre una seconda fase in questi ultimi anni, quando si chiude definitivamente l’esperienza del centro-sinistra con il voto del 15 giugno del ‘75: il PSI coglie il significato di quel voto, che è una evidente dichiarazione di fallimento di tutta la fase politica precedente: trae subito in quel voto la conclusione che è ormai finita, chiusa, non più proponibile la politica del centro-sinistra. A me pare che si tratti di una scelta non tattica, non strumentale, una scelta maturata e convinta, che è avvenuto effettivamente un momento di rottura che ha comportato un travaglio interno, una revisione profonda, anche autocritica di tutta l’esperienza precedente questo processo ha investito tutto il corpo del partito, i suoi quadri intermedi, i suoi quadri dirigenti, e così via. Dico questo perché a me non pare che siano presenti in modo consistente oggi nel PSI tendenze a ritornare al centro-sinistra: possono essere presenti in misura del tutto marginale, secondaria, e sotto questo profilo quindi non mi pare che siano molto giustificate alcune diffidenze. Perché in realtà è avvenuta una rottura profonda, che non consente di riprendere una esperienza effettivamente chiusa nella realtà politica italiana: d’altra parte tutti i fatti politici concreti dimostrano l’ampiezza di questa rottura, dal ‘75 ad oggi la strada percorsa dal PSI è una strada che punta ovunque a una collaborazione unitaria con il nostro partito tutte le maggioranze del centro-sinistra sono state quasi completamente liquidate anche là dove potrebbero continuare ad avere une maggioranza anche solida dal punto di vista numerico. Tuttavia nonostante questo; nonostante la rottura avvenuta, nonostante che sia aumentato notevolmente le collaborazione unitaria tra i due partiti nelle giunte comunali, nelle regioni e così via, il rapporto non è diventato più facile più semplice, più disteso ma anzi noi vediamo come si siano accentuati alcuni elementi di conflitto, di differenziazione, di tensione nel rapporto tra socialisti e comunisti. Dobbiamo cercare di comprendere meglio le ragioni di queste difficoltà. Il PSI durante il centro-sinistra ha potuto avvalersi, se così posso dire, di una specie di rendita di posizione come partito-cerniera, non soltanto perché qualunque maggioranza aveva necessariamente bisogno del PSI, ma perché nel momento in cui non esisteva nessuna possibilità di rapporto diretto tra il nostro partito e la Democrazia Cristiana, il rapporto avveniva soltanto attraverso la mediazione del PSI e quindi il ruolo, il peso specifico di questo partito nella vita politica italiana era molto alto, di gran lunga superiore alla propria consistenza effettiva: aveva cioè la funzione di un partito-cardine della vita politica.
Oggi questo dato viene progressivamente, se non eliminato, certamente ridotto, perché non esiste più quella situazione; si è avviato sia pure con gradualità, con le difficoltà che sappiamo, un rapporto diretto del nostro partito con tutto l’arco delle forze politiche, e quindi questa rendita di posizione comincia ad essere intaccata e di conseguenza il PSI si pone oggi anche in modo convulso il problema del proprio ruolo del proprio peso e sente il rischio di perdere gran parte della propria funzione di essere quindi assorbito, schiacciato dentro una politica unitaria di vaste intese democratiche che non ha più bisogno di quella specie di mediazione indispensabile. Ecco che allora si pone il problema di trovare una nuova impostazione politica. Quali possono essere le ipotesi su cui lavorare per il PSI? Schematizzando potremmo distinguere due fondamentali impostazioni: la prima è quella della alternativa di sinistra, nel senso più letterale; questa linea comporta un rifiuto definitivo di ogni possibilità di collaborazione con la DC, questa è una conclusione che alcuni socialisti traggono; il centro-sinistra ha dimostrato quanto sia dannoso un rapporto di collaborazione governativa non la DC e su questa linea si va all’insuccesso, alla sconfitta, quindi superare definitivamente questa prospettiva e costringere il nostro partito a modificare la propria linea per costringerlo a lavorare e trascinarlo sulla via della alternativa di sinistra, ostacolando quindi tutti i processi che vanno nel senso di una larga convergenza democratica. Questa posizione, in questa forma così netta e un po’ schematica, la ritroviamo soltanto in alcuni settori della sinistra, e costituisce certamente un certo tipo di risposta che può essere data e che offre al Partito Socialista una sua prospettiva. Una seconda posizione è quella che tende ad assegnare al Partito Socialista ancora in un certo modo un ruolo di mediazione sia pure in una situazione politica mutata. Si tratterebbe cioè di costringere la DC a un rapporto di tipo nuovo con il movimento operaio nella sue varie espressioni quindi anche con il nostro partito. I socialisti hanno infatti posto il problema del superamento della discriminazione a sinistra nella necessità di un apporto dei comunisti all’azione di governo e, nella consapevolezza che comunque si tratta di un processo ancora lungo, graduale, non breve, in tutto il corso di questo processo il PSI può continuare a svolgere un ruolo di cerniera. Prendiamo l’esempio delle giunte aperte che si sono realizzate in numerose regioni, in numerosi comuni. Questa esperienza che cosa dimostra? Dimostra che si è avviato il superamento del centro-sinistra, però soltanto parzialmente, i comunisti hanno acquistato diritto di cittadinanza, partecipano alla elaborazione dei programmi, in alcuni casi fanno anche parte della maggioranza, ma la preclusione è ancora in atto; la preclusione a una partecipazione effettiva del partito comunista all’esercizio pieno del potere, e quindi in questa fase il PSI può avere la funzione di accelerare questo processo, di farsi protagonista di questa battaglia per il superamento definitivo delle barriere e delle preclusioni anticomuniste ma mantenendo però un ruolo, in quanto appunto per un periodo di tempo ancora lungo saranno i socialisti ad assumersi le responsabilità esecutive e quindi questo ruolo di mediazione può dare un certo respiro all’azione del PSI ancora per un certo periodo di tempo. In questo quadro alcuni settori del PSI non escludono la possibilità anche di un ritorno al governo del PSI purché questo avvenga in un contesto politico mutato, avvenga cioè non sulla base della delimitazione della maggioranza ma sulla base di un rapporto di tipo nuovo con il partito comunista, sulla base in un accordo programmatico che coinvolga anche il nostro partito. Queste mi sembrano essere le due ipotesi meglio definite: in realtà la linea su cui si muove l’attuale gruppo dirigente socialista non sceglie in modo preciso una di queste due possibilità, ma cerca piuttosto di combinare queste due ipotesi. Nella posizione della segreteria del partito, di Craxi in particolare, quello che mi pare di cogliere è appunto un tentativo di combinazione perché da un lato non si accetta il massimalismo nella sinistra e certamente non si rinuncia ad un dialogo con tutte le forze politiche, Democrazia Cristiana compresa: appunto per questo viene utilizzata la parola d’ordine del governo di emergenza, e il partito socialista partecipa, sia pure con qualche riserva, all’equilibrio politico che si è costruito con l’accordo a 6. D’altra parte però si cerca di individuare un ruolo per il PSI, in una visione che sia sostanzialmente diversa dalla nostra e si giudica con preoccupazione ogni sviluppo positivo nei rapporti tra la DC e il partito comunista. Di qui la situazione un po’ particolare che si è costituita oggi nel PSI, una situazione basata nell’asse autonomisti-sinistra, che è un fatto un po’ curioso e nuovo nella storia del PSI. Queste due posizioni tradizionalmente distanti, trovano tra loro un punto non soltanto strumentale e tattico di convergenza (non si tratta soltanto di problemi di cucina interna) nella volontà di logorare la nostra strategia, di logorare la strategia che noi abbiamo definito; quella appunto che mira alla costruzione di un quadro politico nuovo basato su larghe convergenze democratiche. Tutto questo non è definito con chiarezza, non possiamo dire che vi sia una precisa strategia in questo momento, e anche per questo c’è appunto una debolezza, una debolezza sostanziale del Partito Socialista. Il punto che ci preoccupa e che ci deve preoccupare è il fatto che in questo contesto emergono elementi di polemica anche forzata, artificiosa, elementi di anticomunismo, da cui derivano poi delle tensioni, delle polemiche acute non facilmente controllabili e superabili.
In conclusione si pone il problema di quale debba essere il nostro atteggiamento, il nostro rapporto con questa realtà del PSI. Io credo che dobbiamo muoverci con estrema accortezza e duttilità evitando in ogni modo di riaprire un conflitto generale, di determinare una sorta di contrapposizione tra i due partiti. E anche dobbiamo evitare di condurre una battaglia che sia volta a ribaltare gli equilibri interni: infatti non abbiamo una situazione interna del PSI dai contorni nitidi, molto precisi; certo avvertiamo che ci sono forze più sensibili a un rapporto unitario con noi, ma la battaglia interna è ancora molto confusa e quindi dobbiamo stare attenti a non avere un tipo di rapporto che possa apparire di interferenza nel dibattito interno. Dobbiamo cercare un rapporto unitario che tenga conto di alcuni capisaldi che nel PSI sono presenti, e anzitutto delle due idee-forza dell’autonomia del partito e della alternativa, che sono i due elementi su cui fa leva il gruppo dirigente e che rispecchiano – io credo – la realtà effettiva di uno stato d’animo, di una coscienza diffusa nei quadri del partito.
Ora dobbiamo cercare di vedere come possiamo riuscire ad inquadrare questi due elementi in una visione che non sia di scontro, di conflitto tra i due partiti, ma che sia di azione unitaria, volta a incalzare le forze moderate a incalzare la stessa DC e a mandare avanti in positivo, un processo di cambiamento del quadro politico. Dobbiamo tenere conto di tutti questi elementi di diversità senza drammatizzare i contrasti e cercare di sviluppare in modo coordinato una azione, una battaglia comune della sinistra mettendo l’accento sul valore fondamentale della alleanza di sinistra. Questo significa modificare la nostra linea, cambiare la strategia che abbiamo definito? Io creno di no, questa conclusione sarebbe ovviamente sbagliata ma dobbiamo anche riuscire ad impostare in modo giusto la nostra azione contrastando nella teoria, e soprattutto nella pratica, alcune interpretazioni della nostra stessa linea che possono portare alla conclusione che il ruolo del PSI è del tutto marginale. Io credo che non sia del tutto assente dal partito, in alcuni settori, in alunne situazioni una tendenza a considerare che a questo punto i conti il facciamo con la DC, ci stia o non ci stia il PSI. Quindi alcuni comportamenti possano avere determinato dalla reazioni da parte socialista e possono avere alimentato questo sospetto, questa diffidenza nei confronti di una impostazione politica che riduce a un ruolo del tutto marginale la funzione dal PSI. Ecco, noi dobbiamo assolutamente evitare questo, combattere contro tendenze che anche involontariamente possono venire avanti in questo senso e mettere l’accento invece sulla necessità di un’azione comune della sinistra. L’azione verso la DC può essere tanto più efficace se si basa su questo impegno comune tra noi e i compagni socialisti. Infine, mi pare che per ottenere questo, per ottenere il risultato di un’azione unitaria sufficientemente solida, abbiamo bisogno di portare il dibattito, il confronto a un livello più alto, altrimenti rischiamo di restare prigionieri delle manovre tattiche dove inevitabilmente prevale di calcolo dell’interesse di parte e quindi si accentuano gli elementi di conflittualità. D’altra parte il PSI è un partito che sul piano tattico è estremamente spregiudicato, ce lo troviamo qualche volta sulla sinistra, qualche volta sulla destra e non riusciamo quindi bene a capire quali sono le questioni vere del confronto. Vi è l’esigenza di superare questo livello della immediatezza tattica e di andare un po’ più a fondo nella discussione, di porre a noi stessi e ai compagni socialisti alcuni interrogativi più generali su quelli che debbono essere i caratteri di fondo della trasformazione socialista in Italia, quali debbano essere i possibili elementi di una strategia comune della sinistra. Il dibattito non è stato molto approfondito su questi temi.
Dobbiamo evitare che la discussione si restringa alle due formule, alternativa o compromesso storico, non soltanto perché con ciò la discussione sarebbe del tutto schematica, ma anche perché ciò farebbe cogliere soltanto l’aspetto degli schieramenti politici.
Lo sforzo che dobbiamo compiere per riuscire a migliorare complessivamente i rapporti nell’ambito della sinistra è uno sforzo di elaborazione e di ricerca attorno ad alcune questioni di carattere strategico, tenendo conto che oggi possiamo andare a questa discussione con delle condizioni più favorevoli, in un modo più aperto, perché oggi non esistono più alcune remore del passato. Possiamo andare cioè a una ricerca politica, strategica e teorica non immobilizzata da antagonismi dogmatici: non siamo più al tempo dalla discussione del ‘56 o dei primi anni del centro-sinistra, ma c’è tutto un cammino che è stato percorso, un cammino sia nostro sia dei compagni socialisti, che può consentire oggi di affrontare in modo più saldamente unitario tutta una serie di questioni. Io credo che questo sforzo e questa autentica ispirazione unitaria ci possano consentire di ottenere dei risultati, delle basi più salde per un rapporto unitario che è essenziale per la nostra azione politica.
Busta: 6
Estremi cronologici: 1977, ottobre-novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
Note: Bozza con correzioni