IL PROCESSO UNITARIO È POSSIBILE
di Riccardo Terzi
Considero assolutamente prioritario per il movimento sindacale il problema delle rappresentanze di base nei luoghi di lavoro. Protrarre ancora a lungo l’attuale situazione di incertezza, di assenza di regole, significa pagare il prezzo di una crisi forse irreversibile nel rapporto di fiducia tra il sindacato e i lavoratori. Abbiamo dunque tempi strettissimi.
Gli straordinari cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo del lavoro, con i processi di terziarizzazione, di decentramento produttivo, di innovazione tecnologica, rendono sempre più essenziale, per una moderna strategia sindacale, la capacità di un’iniziativa flessibile, articolata, che intervenga nel vivo di questi processi. Se nel passato poteva essere sufficiente l’azione di un’avanguardia operaia nei grandi gruppi industriali, che determinava un più vasto effetto di trascinamento, oggi non esistono più le basi materiali di un movimento “a centralità operaia”, e occorre pertanto una rete organizzativa diffusa, che in ogni suo punto sia regolata secondo rigorosi criteri di democrazia rappresentativa.
Non si tratta dunque di ripristinare il modello del sindacato dei Consigli così come si era formato negli anni ‘60, ma di affrontare problemi assolutamente nuovi, di costruire strutture di rappresentanza là dove non ci sono mai state: nella piccola impresa, nei settori nuovi del terziario, nell’area del pubblico impiego. Il che comporta l’adozione di alcune regole generali, e insieme la definizione di meccanismi differenziati e originali che tengano conto delle caratteristiche peculiari dei diversi settori.
La regola generale non può che essere, a mio giudizio, la regola classica della democrazia: i lavoratori eleggono liberamente i loro rappresentanti scegliendo tra diverse liste di candidati, e ciascuna lista avrà un numero di delegati proporzionale al consenso ricevuto.
Non mi sembra che sia stato trovato da nessuna parte un criterio più razionale e più convincente. Non mi ha mai convinto la tesi secondo la quale la democrazia sindacale è intrinsecamente altra cosa rispetto alla democrazia politica. Gli effetti di questa tesi, che è stata a lungo prevalente in tutto il movimento sindacale, sono nell’attuale situazione di arbitrio: un monopolio delle tre confederazioni, che sono per definizione “maggiormente rappresentative”, negando legittimità ad ogni altro momento di organizzazione dei lavoratori, e un patto unitario tra le confederazioni che stravolge i criteri di proporzionalità e blocca qualsiasi capacità di decisione quando non c’è l’accordo di tutti.
Una forma di consociativismo paralizzante e intollerante. Il pluralismo sindacale deve essere garantito, in forme limpide e trasparenti. Sindacati autonomi, corporativi e localistici, possono essere combattuti anche aspramente sul terreno politico, ma devono aver garantiti tutti i diritti democratici, e il loro peso sarà misurato con la verifica della loro reale rappresentatività.
Oggi essi possono sfruttare a loro vantaggio una situazione di malessere e di protesta, senza assumersi la responsabilità delle decisioni. Sono solo un elemento di crisi e di destabilizzazione, mentre nel quadro di un sistema democratico di rappresentanza dovrebbero necessariamente qualificarsi sulla base di una proposta e di un programma sindacale.
Le tre confederazioni, non hanno nulla da guadagnare dall’attuale situazione di monopolio, che alimenta tra i lavoratori uno stato d’animo di sfiducia e rafforza le varie spinte centrifughe e corporative.
Per queste ragioni non è sufficiente la definizione di un nuovo patto unitario. Occorre invece un intervento legislativo che fissi le regole democratiche fondamentali e dia certezza di diritto a tutti i lavoratori.
Le riserve che ancora esistono nei confronti di questa ipotesi mi sembrano essere l’effetto ritardato di una stagione sindacale che è ormai da tempo finita. Esse hanno senso solo nell’ottica di una concezione tutta movimentista, che si affida di volta in volta alla spontaneità del movimento reale e ai rapporti di forza, rifiutando regole, procedure, che sarebbero solo “gabbie” che imbrigliano il movimento. Ma se il sindacato dichiara di essere un “soggetto politico”, un protagonista della vita politica del paese, è allora evidente che le regole della sua democrazia interna diventano un problema politico-istituzionale che interessa l’intera vita democratica, che il sindacato si configura come una grande istituzione sociale, di cui vanno definite le funzioni, gli ambiti di azione, e le regole.
È ormai un passaggio obbligato. L’alternativa è la concezione del sindacato come lobby corporativa, con una concezione chiusa della democrazia come “democrazia dei soci”.
Ma così viene meno ogni distinzione tra il sindacato confederale, che tende a rappresentare l’universalità del mondo dei lavoro, e i vari sindacati autonomi e di mestiere. Ci troveremmo tutti sul medesimo, angusto terreno di una rappresentanza passiva di interessi segmentati, immediati, senza progetto. Esattamente il contrario di ciò che può significare il sindacato come soggetto politico.
Mi restano da toccare due questioni: il rapporto tra rappresentanza e potere contrattuale, e il tema dell’unità sindacale.
Da varie parti si è avanzata l’ipotesi di un “doppio binario”: organismi rappresentativi eletti democraticamente da tutti i lavoratori, e poteri negoziali che restano attribuiti alle organizzazioni sindacali. Un tale dualismo non mi sembra accettabile. La democrazia non è un esercizio vuoto, ma è lo strumento per decidere circa la distribuzione del potere.
Con la costituzione di rappresentanze democratiche nei luoghi di lavoro, è a tali rappresentanze che va delegata interamente la funzione contrattuale sui problemi di carattere aziendale. Si tratterà piuttosto di definire l’ambito di questo potere contrattuale, di chiarire le connessioni tra contrattazione nazionale e aziendale, di avere un quadro di riferimento generale per non scadere in una logica di tipo aziendalistico.
Ci sono infatti temi e materie che coinvolgono anche interessi esterni all’azienda: gli effetti ambientali, gli interessi degli utenti, la promozione di nuova occupazione, ecc….
Si presenta così un problema complesso che riguarda le regole della democrazia nel rapporto tra rappresentanza aziendale e sindacato generale.
La dimensione aziendale non è autosufficiente, e rimanda ad una dimensione più ampia, di carattere territoriale e nazionale, le cui regole sono tutte da definire.
In sostanza, io penso ad un sistema forte e strutturato di democrazia rappresentativa, che da un lato limiti i poteri discrezionali dei gruppi dirigenti del sindacato, e dall’altro superi le concezioni referendarie e assembleari della democrazia.
Il ricorso alla democrazia diretta va a sua volta regolato, intendendolo come un momento necessario di verifica del consenso intorno a scelte rilevanti che chiamano in causa l’interesse generale dei lavoratori che il sindacato si propone di rappresentare.
Infine, tutta la discussione sulle strutture di rappresentanza può assumere diversi significati a seconda della prospettiva in cui viene collocata. Si può infatti prospettare per il prossimo futuro uno scenario caratterizzato da una permanente concorrenzialità fra le confederazioni sindacali, o viceversa si può ritenere possibile un processo unitario.
Io sono per scommettere su questa seconda ipotesi, perché mi sembrano storicamente superate le ragioni della divisione sindacale e perché l’impegno unitario mi sembra la garanzia migliore per affrontare, con qualche possibilità di successo, i problemi e le contraddizioni di uno sviluppo che è sempre più integrato su scala mondiale.
In questa prospettiva unitaria, vengono tendenzialmente meno le difficoltà e le diffidenze che hanno finora ostacolato un accordo sulle regole e il ricorso a criteri limpidi di democrazia non assume il carattere di uno scontro frontale fra le organizzazioni, perché le attuali divisioni vengono concepite come un dato storico che è possibile superare.
L’unità può essere il frutto di un’esplicita volontà politica dei gruppi dirigenti e dei lavoratori. Può essere una scelta; mentre l’attuale sistema “consociativo” vincola ad un patto unitario che è intrinsecamente fragile e che rischia di capovolgersi, di fronte a momenti di dissenso, in una lacerazione drammatica. Liberare il sindacato dai ceppi di questo consociativismo è il modo non solo per rispondere a esigenze ormai insopprimibili di democrazia, ma anche per riaprire su basi nuove le prospettive dell’unità.
Busta: 2
Estremi cronologici: 1990, novembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Politica e amicizia”, novembre 1990