IL NOSTRO GIUDIZIO SULLA SOCIALDEMOCRAZIA

di Riccardo Terzi

Nei numeri precedenti abbiamo aperto un dibattito sul problema della socialdemocrazia in Italia.

È ora il momento di ricavarne delle conclusioni.

Un primo avvertimento mi sembra opportuno: parlare della socialdemocrazia vuoi dire parlare di un processo politico, che non ha in sé nulla di concluso e di definitivo, e che va compreso attraverso un esame intelligente dei fatti, senza ricorrere a giudizi frettolosi e superficiali.

Perché questo avvertimento? Perché capita spesso di porre la domanda «che cosa è la socialdemocrazia?», e nella risposta si perdono di vista i processi reali e ci si accontenta di qualche formula generica. La socialdemocrazia è l’ala destra della borghesia; è l’espressione politica del capitalismo moderno. Definizioni come queste sono tutte giuste e tutte insufficienti: servono ad orientare l’analisi, ma sfuggono poi al compito necessario di un’analisi puntuale.

Che le correnti “socialdemocratiche” siano il segno dell’influenza della ideologia borghese nell’ambito del movimento operaio, che la socialdemocrazia sia incapace di compiere un solo passo verso il socialismo, è questa una verità acquisita per tutto il nostro movimento, fin da quando Lenin ha messo a nudo, nella sua polemica sferzante, la natura piccolo-borghese di tutte le posizioni revisionistiche. Ma resta aperto un problema: quale è il significato politico «attuale» delle tendenze socialdemocratiche, quale processo mettono in movimento, e come si deve rispondere a questo processo?

La data di nascita del moderno revisionismo si fa risalire spesso al 1956, all’anno della rivolta ungherese e del XX Congresso. E in questo c’è molta verità: il 1956 pone a tutto il movimento di classe nuovi problemi teorici, fornisce l’occasione per un ampio dibattito, e allora vengono alla luce tendenze che non si erano ancora manifestate con chiarezza, prendono forza orientamenti nuovi che avevano avuto prima un ruolo soltanto marginale. Quali sono i problemi da risolvere? La rivolta ungherese pone il movimento operaio di fronte alla necessità di difendere da ogni attacco la conquista delle basi del socialismo. La strada verso il socialismo non è né facile né lineare, dopo la conquista del potere la battaglia non è esaurita, ma può conoscere ancora momenti aspri e drammatici. Ecco che allora le forze si dividono: c’è chi sa vedere in quell’improvvisa esplosione di contrasti all’interno della nuova società socialista la sostanza di classe del problema, e c’è chi si lascia confondere e vorrebbe raggiungere il socialismo senza pagare il prezzo della lotta di classe. Non è stato un dibattito inutile quello che si è aperto con i fatti di Budapest: in questo dibattito si sono perdute delle forze, ma si sono temprate le energie migliori della classe operaia. E il XX Congresso ripropone lo stesso problema, in una dimensione più ampia. Il socialismo si è consolidato nell’Unione Sovietica al prezzo di lacerazioni e contrasti profondi, la storia del socialismo non è solo una storia di vittorie, ma anche di errori, di sconfitte, di contraddizioni.

Quello che oggi chiamiamo stalinismo è appunto questa interna dialettica della costruzione socialista: l’insieme degli ostacoli materiali e politici che al socialismo si oppongono, ed il compito arduo di farli scomparire. E allora? Bisogna tornare indietro e rinnegare questo cammino faticoso che la classe operaia ha percorso, oppure bisogna vincere i nuovi ostacoli e procedere con fiducia nella opera di costruzione di una società nuova?

I comunisti hanno scelto con fermezza e senza esitazione questa seconda strada, e ciò ha salvato Il movimento operaio da una crisi di sfiducia che avrebbe causato danni difficilmente calcolabili.

Con il ‘56 si è messo in movimento un dibattito, che non ha ancora conosciuto la sua conclusione. Ma il terreno della discussione si è venuto allargando, e la questione centrale è oggi quella della strategia nei paesi di capitalismo sviluppato. Il capitalismo degli anni ‘60 deve essere affrontato con nuovi metodi, con una nuova visione delle cose. Ma cessa per questo l’antagonismo fondamentale tra il sistema del socialismo e il sistema dello sfruttamento? Cessa la possibilità di una interpretazione “internazionalista” di tutta la storia mondiale? È questo il grande interrogativo della nostra epoca.

Noi crediamo di dover combattere ogni posizione politica che non parta da una visione chiara dell’antagonismo fondamentale della storia moderna. Combattiamo le posizioni cinesi che pongono nello stesso piano “tutti” i paesi sviluppati; rifiutiamo l’umanitarismo cattolico che parte dallo stesso schema per predicare la cooperazione fra paesi ricchi e paesi poveri, dimenticando l’esistenza sia dell’Imperialismo che del socialismo. E combattiamo contro il socialismo che si vergogna di se stesso, delle sue origini proletarie e delle sue lotte, combattiamo contro i complessi di inferiorità che ci condannano a subire il ricatto ideologico della borghesia.

È vero: abbiamo ancora dei grandi problemi da risolvere, ma li sapremo risolvere «da soli», senza ricorrere alle stampelle che la borghesia ci vuole offrire, senza vendere al banco dei pegni gli strumenti teorici insostituibili del marxismo.

Il socialismo che si vergogna di pronunciare una condanna totale del capitalismo, e che si vergogna della passione politica rivoluzionaria. Non c’è dunque una posizione dottrinaria «autonoma» della socialdemocrazia come tale: il suo patrimonio ideologico è fatto di brandelli del pensiero socialista e di concetti presi a prestito dalla tradizione borghese.

È un socialismo rimescolato e reso incoerente: una specie di ritorno alle origini, senza aver più il fascino dell’utopia e della nuova avventura intellettuale.

Ma proprio per questo, per la povertà della sua ideologia, per lo spirito di stanchezza che la pervade, sarebbe errato attribuire alla socialdemocrazia una funzione di portata storica, vedere in essa il «nemico principale» ed armarsi da capo a piedi contro una forza che per la sua natura non può diventare la forza dominante. Su tutte le questioni di fondo, la socialdemocrazia esprime una posizione «intermedia» fra quella rivoluzionaria e quella consapevolmente conservatrice. Essa occupa lo spazio che le viene lasciato scoperto dalle concessioni della borghesia e dalle nostre debolezze.

Nulla di più sbagliato quindi che prendere sul serio l’alta opinione di sé che hanno i moderni revisionisti. Sarebbe sbagliato correre precipitosamente ai ripari, cercando qualsiasi forma di accordo, cercare l’unità senza occuparsi dei contenuti politici sui quali si realizza.

E sarebbe ancor più sbagliato vedere in questa socialdemocrazia il nostro avversario storico.

Oggi, per un insieme di circostanze, che non possiamo qui indagare, la socialdemocrazia è una forza di una certa consistenza, anche se non può certo celebrare il suo trionfo. Ma forse per questo dovremmo lasciarci dominare da un senso di impotenza? Al contrario, di fronte alle unificazioni che non unificano, alle revisioni ideologiche senza idee, ai socialisti «moderni» che ripetono gli errori del passato, è nostro compito procedere nella nostra elaborazione, trovare risposte più sicure e più convincenti, portare avanti dunque l’interpretazione e la soluzione materialistica dei problemi.

Noi non offriamo alla socialdemocrazia i ponti dell’equivoco e della confusione, ma offriamo il ponte dell’unità di classe, riproponiamo cioè con la nostra politica tutto il valore del metodo rivoluzionario.

C’è un ultimo aspetto del problema che deve essere chiarito. Oggi, nella moderna società borghese, non c’è un unico fronte di lotta, non c’è una contrapposizione rigida e assoluta fra forze del progresso e forze della reazione. È, la nostra, una società articolata, in cui ogni battaglia ha la sua strategia, il suo schieramento di forze.

Ed è tipico della socialdemocrazia essere disponibile per battaglie democratiche, ed anche per avventure autoritarie, scegliere ora questo ora quello schieramento. Sarebbe certo una cattiva politica spingere i socialisti incerti e vergognosi nelle braccia della reazione, e rinunciare alla lotta unitaria anche quando si presenta possibile.

Non ci sono dunque, nella situazione politica di oggi, elementi tali da farci mutare strategia.

Non siamo noi in una crisi dalla quale uscire, ma dobbiamo rendere chiara e far maturare la crisi degli altri.


Numero progressivo: G99
Busta: 7
Estremi cronologici: 1967, giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: “La nostra lotta”, maggio-giugno 1967, pp. 11-12