IL MITO PADANO E L’EUROPA
di Riccardo Terzi
Dopo il 15 di settembre, data simbolica di fondazione della Padania, molti commentatori politici hanno precipitosamente espresso un giudizio liquidatorio, sottolineando il fallimento di quello che avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni, un grande evento di massa, una straordinaria prova di forza.
In questo giudizio, affrettato e superficiale, c’è l’ansia di sbarazzarsi del problema della Lega e di rimuovere il tema inquietante della secessione, per sentirsi finalmente ricondotti dentro un quadro di normalità e di razionalità: la Lega ha ormai compiuto la sua parabola – questo è il messaggio consolatorio -, ha esaurito la sua forza eversiva, e allora i riti pagani sul Po sono solo una manifestazione di impotenza, l’estremo gesto velleitario di una minoranza isolata.
Credo che un tale approccio sia del tutto errato, e sia il segno di una cecità culturale di fronte a un fenomeno che esce dagli schemi e dalle categorie tradizionali e che appare perciò indecifrabile. È già accaduto più volte che ad ogni passaggio critico venga decretata la morte politica della Lega e che puntualmente giunga, imprevista e inspiegabile, la smentita dei fatti. Così è accaduto nel momento della rottura dell’alleanza di governo con Forza Italia: un atto di follia che avrebbe dovuto portare la Lega alla disgregazione; o nel momento in cui, violando tutti i sacri principi del bipolarismo e del maggioritario, la Lega sceglieva di affrontare da sola la prova elettorale, segnando l’inizio della sua definitiva emarginazione. E poi si scopre, post factum, che Bossi ha più senso della realtà di tanti politologi accreditati, e che proprio quelle mosse, in apparenza avventate, erano del tutto funzionali alla strategia della Lega.
Dove sta l’enigma, dove stanno le ragioni di questa imprevedibilità e inafferrabilità politica della Lega? Di fronte al fenomeno della Lega e alle sue iniziative provocatorie rischiamo tutti di trovarci spiazzati, perché viene messa in moto una logica politica del tutto particolare ed eccentrica, nella quale il punto di forza consiste nell’elaborazione del mito come elemento fondante dell’identità collettiva.
Il mito non può essere sconfitto dagli argomenti razionali, perché si colloca su un altro terreno, dato che esso funziona come luogo di sintesi di un insieme complesso di sentimenti e di passioni, di stati d’animo sedimentati, in cui, quindi, si costruisce una identità ideologica forte che diviene, sul piano politico, un importante elemento di forza, di radicamento, di identificazione.
Non è, a ben guardare, un fatto nuovo: la storia è continuamente attraversata, e talora dominata, dai fattori ideologici. Come potremmo altrimenti comprendere tutte le tensioni e le tragedie del nostro secolo? Bossi, in fondo, non inventa nulla; si limita a riscoprire le radici emotive e passionali della politica, e torna a intrecciare politica e ideologia, interessi e passioni, realismo e utopia. E ricorre alle forme plebee del linguaggio, perché si tratta di entrare in comunicazione con il sottofondo emotivo che è in ciascuno di noi.
Ne siamo oggi sorpresi, perché ci siamo tutti immersi nell’idea falsa della fine delle ideologie, della laicizzazione compiuta, della modernità come regno del pragmatismo razionalista, e tutto ciò che esce fuori da questa rappresentazione ci sembra un rigurgito di Medioevo. Non comprendiamo come nel cuore della modernizzazione esplodano nuovi bisogni di identità, e come questi possano prendere le forme dell’impolitico e del mitologico. Qui non si tratta solo del problema di Bossi, che rappresenta tutto sommato un episodio di modesta portata, ma di capire il senso della modernità, la cui chiave di comprensione non sta nel dominio del post-ideologico, nel calcolo razionalistico dei mezzi e dei fini, ma piuttosto in un movimento tortuoso, e talora disperato, verso nuovi approdi di certezza, di fede, di identificazione in un sistema di valori.
Nella società individualistica è proprio l’individuo l’anello debole, ed esso cerca fuori di sé la propria legittimazione. I segni di questo movimento, di questa ricerca di senso, sono sotto i nostri occhi, anche se spesso non riusciamo a vederli o li travisiamo.
Il reticolo della società moderna non è solo un gioco di interessi, di calcoli utilitaristici; gli stessi interessi hanno bisogno di una forma istituzionale e ideologica; hanno bisogno cioè di attivare processi di consenso e di identificazione. L’impresa capitalistica si configura, in questo senso, come un centro di egemonia culturale, e il suo ruolo economico è inscindibile dalla sua capacità di produrre modelli culturali funzionali alle sue strategie di sviluppo.
Lo stesso fenomeno è verificabile anche nel campo dell’attività criminale; ed è proprio la mafia ad offrire il modello di un’organizzazione perfetta, in quanto ha saputo elaborare le forme culturali, i codici e i riti della propria identità.
Se dunque guardiamo con attenzione, scopriamo che in tutte le forze vitali che agiscono nella società moderna c’è un investimento simbolico e una produzione ideologica e da ciò dipende la capacità di aggregazione sociale e quindi, in ultima istanza, il ruolo nella competizione politica.
Anche la Chiesa cattolica è, in questo senso, una grande istituzione moderna, e la sua forza non è nell’autorità della tradizione, ma nel saper offrire alle incertezze dell’uomo moderno un possibile linguaggio, una rete protettiva fatta di simboli, di rituali, di valori.
Questa, sin troppo lunga, digressione mi serve ad argomentare la mia convinzione circa l’inadeguatezza della interpretazione economicistica della Lega e del suo programma secessionistico, in base alla quale il problema si ridurrebbe a calcoli egoistici, a interessi determinati, a un eccesso di pressione fiscale e a un deficit di efficienza utilitaristica delle prestazioni dello Stato. Tutto ciò esiste, ovviamente, ed è un elemento che entra nel quadro, ma l’operazione compiuta dalla Lega, in quanto operazione ideologica, in quanto elaborazione del mito, trascende gli interessi di carattere immediato e li ricomprende dentro un orizzonte più vasto.
La proposta della secessione e il mito della Padania agiscono appunto come il contenitore ideologico che tiene insieme gli interessi e le passioni di una società che sta attraversando con incertezza e con angoscia il suo processo di modernizzazione. Non si tratta di forzature estremistiche destinate a finire nel nulla, ma di simboli, efficaci proprio in quanto radicali ed eversivi.
Lo scarso successo della grande messinscena sul Po è sicuramente l’indice di una difficoltà, ma è tutto sommato solo un dato empirico e contingente che non muta il quadro d’insieme e non legittima giudizi di tipo liquidatorio. Il fatto è che il tema della secessione, fino a poco tempo fa impensabile e indicibile, è entrato nell’agenda politica, e soprattutto è entrato, in senso positivo o negativo, nel sentimento popolare, nei discorsi quotidiani, nel linguaggio corrente, e quindi ha ricevuto in via di fatto una effettiva legittimazione politica.
Lo stesso giudizio vale per l’invenzione della Padania: la sua totale inconsistenza sotto il profilo storico e culturale non è un argomento conclusivo, perché qui si tratta dell’invenzione politica e mitologica di una nuova identità, e il mito funziona proprio in quanto è indeterminato, è una suggestione aperta a diversi possibili contenuti e significati, e ciascuno vi può trovare la sublimazione delle proprie aspettative. L’idea della Padania, in quanto progetto politico, può essere misurata solo dal punto di vista della sua efficacia simbolica, della sua praticabilità come possibile luogo di connessione e di sintesi di comportamenti, di interessi, di modalità culturali che accomunano una pluralità di soggetti, in una determinata situazione. E allora, usando questo metro di giudizio, la Padania prende corpo e diviene un problema politico reale.
È importante, quindi, un approccio capace di capire le ragioni della Lega e di prendere sul serio il suo progetto politico, per non finire in una polemica fuori bersaglio, come spesso accade in tutta una serie di dichiarazioni autorevolissime a sostegno del valore di principio dell’unità nazionale.
Le risorse retoriche del nazionalismo patriottico sono, a questo punto, prive di qualsiasi efficacia, perché è appunto la forma classica dello Stato-nazione a essere oggettivamente messa in discussione, in quanto ha prodotto una miscela di centralizzazione autoritaria e di inefficienza. Fini può cercare un suo spazio nel nome degli ideali tradizionali di nazione e di patria, e può tentare su questo terreno di promuovere una mobilitazione di massa, ma si tratta con tutta evidenza di una battaglia arretrata, difensiva, inaccettabile, che le forze della sinistra riformatrice non possono in nessun modo prestarsi a legittimare.
Per questa via, alla domanda di innovazione, che la Lega esprime in forme distorte, si risponde con l’immagine di una estrema azione di difesa e di conservazione del vecchio apparato statale, con tutti i suoi elementi di sclerosi, di inefficienza, di corruzione. A questo punto davvero la secessione rischierebbe di divenire l’unica risposta possibile.
Nei momenti di crisi e di transizione, vince chi sa guidare l’innovazione, e, nel momento in cui si problematizza anche il tema della nazione, c’è bisogno di una iniziativa politica che ridefinisca, su nuove basi, le ragioni della coesione nazionale. Solo un progetto nuovo ci può salvare dai pericoli di disgregazione.
La risposta corrente è che il secessionismo leghista può essere battuto attuando in modo coerente una riforma federalista dello Stato, che garantisca una combinazione virtuosa di responsabilità e di efficienza. Il governo si sta già muovendo in questa direzione, con i disegni di legge presentati dal ministro Bassanini. Il federalismo dovrà essere un elemento centrale nel lavoro di progettazione della nuova architettura costituzionale.
Credo però che tutto ciò non sia sufficiente, e che ci sia bisogno di un livello di risposta alla Lega, che agisca più in profondità. Vi è anzitutto il rischio che il tema del federalismo venga via via smorzato, attenuato e ricondotto dentro il filone tradizionale del decentramento e dello sviluppo delle autonomie locali.
Se alla fine si tratta solo di allargare gli spazi di autonomia per i comuni e le province, che cosa abbiamo davvero cambiato? E sembra essere questa oggi la tendenza prevalente, che si manifesta nella riscoperta della storia italiana come storia di città, nel protagonismo personale dei sindaci, nella continua evocazione dei pericoli di neo-centralismo regionale, nella teorizzazione del ‘federalismo delle città’.
Allo stato attuale del dibattito politico, il punto di approdo più probabile sembra essere quello di una struttura dello Stato rafforzata con soluzioni di tipo presidenzialistico, e solo debolmente bilanciata da misure autonomistiche a vantaggio soprattutto delle grandi città: un premier forte e una decina di sindaci autorevoli. Mi sembra un rischio reale. In questo caso il progetto federalista verrebbe totalmente travisato, perché resterebbe sostanzialmente intatta la struttura centralizzata dello Stato.
A questo travisamento lavorano molte forze, e mi sembra mancare una controffensiva efficace. Ci si sta da più parti adattando all’idea di una riforma a metà, di un compromesso, nel timore di troppo brusche e radicali rotture. In queste condizioni è chiaro che il disegno della Lega non viene bloccato: un riformismo timido e pasticciato non ha nessuna forza di attrazione. E le forze politiche sembrano essere tutte interessate quasi esclusivamente al problema della forma di governo: cancellierato, bozza Fisichella, semipresidenzialismo. La riforma è pensata per rafforzare il potere di comando del centro. Sulla forma di governo c’è uno scontro politico aspro, sul federalismo sembra esserci l’accordo di tutti. Il che non è una buona notizia, perché significa che il primo punto è l’unico punto vero della discussione politica.
Il tema della riforma dello Stato è quindi ancora tutto aperto, e non è affatto scontato che l’evoluzione del processo di riforma si muova nella direzione giusta. C’è una battaglia politica da fare ora con chiarezza, ed è essenziale coinvolgere in questa discussione tutte le forze rappresentative della società italiana e il maggior numero possibile di cittadini; è necessaria cioè una larga azione di massa, che interagisca efficacemente con i lavori della commissione bicamerale. Il nuovo patto costituzionale sarà forte solo se è costruito sul consenso e sulla partecipazione attiva, il che comporta un’assunzione di responsabilità da parte delle organizzazioni di massa, a partire dalle confederazioni sindacali.
In caso contrario, la Lega avrà il campo libero, e le spinte alla disgregazione finiranno per mettere radici profonde nella coscienza civile del paese. Non dimentichiamo: il tema della secessione è stato posto, l’idea di nazione è stata messa in discussione. Come rispondiamo? Sono in gioco elementi profondi di identità, e il processo di globalizzazione mette in crisi le tradizionali appartenenze e ci espone così al rischio di una situazione di vuoto, di indeterminatezza, di impotenza di fronte a processi che non controlliamo.
La Lega risponde con il mito, con l’illusione di un recupero di una identità etnica originaria, del tutto evanescente e indefinibile. L’idea-forza da opporre al mito secessionista è la costruzione di un livello più alto di unità politica e di sovranità, in linea con i processi reali di integrazione economica. È l’idea dell’Europa, della costruzione delle sue istituzioni democratiche, degli strumenti di regolazione e di governo che ci consentano di controllare e di finalizzare il processo di mondializzazione dei mercati.
Per controllare il nostro destino, per non dover subire passivamente gli effetti di decisioni che sono fuori dalla nostra portata, dobbiamo agire su una scala più vasta e ripensare quindi le forme della politica, oltre i limiti ristretti dello Stato-nazione. Questo è il grande tema del nostro tempo. E nella prospettiva della nuova Europa, possono anche essere ricostruiti gli elementi di identità, di cultura, di appartenenza comune che sono necessari per tenere insieme la società, per garantire un livello sufficiente di coesione e di solidarietà. Certo, l’Europa non può essere solo l’Europa di Maastricht, dei vincoli finanziari, dei sacrifici economici, ma deve prendere forma come progetto politico e sociale. Se l’Europa diviene esplicitamente il nostro orizzonte, la nostra prospettiva, l’edificio politico comune da costruire, il compito storico che ci è affidato in questa fase, allora si ridimensiona il mito della Padania, e si attutisce la sua portata eversiva, perché può apparire finalmente chiaro che stiamo costruendo qualcosa di nuovo, all’altezza dei problemi e dei processi reali che sono in atto; che in questo più largo orizzonte possono essere costruiti momenti forti di autogoverno territoriale, nell’ottica di un effettivo federalismo.
Il dibattito politico-istituzionale non si sta muovendo su questa lunghezza d’onda: la dimensione europea è assente e il federalismo è manipolato con grande disinvoltura. Alla coppia concettuale Europa-federalismo si sostituisce la coppia concettuale presidenzialismo-autonomie locali: è possibile prevedere che per questa via non si esce dalla crisi dello Stato e non si offre nessuna risposta alla radicalità delle domande che solleva il movimento della Lega.
In ogni caso, una risposta solo istituzionale è una risposta insufficiente. È la coesione sociale del paese che è entrata in crisi, e il problema aperto nel Nord dell’Italia è il problema di una società travolta dai meccanismi della competizione, incapace di ricostruire le legature sociali che si sono spezzate, guidata ormai solo da strategie individuali o di gruppo, comunque di corto respiro. È quello che Aldo Bonomi chiama il «trionfo della moltitudine»: il dissolversi della comunità, la crisi delle rappresentanze politiche e sociali, il dominio dell’indistinto, dell’indifferenziato, nel quale si perde ogni capacità di progetto, di trascendenza, di cultura. «Se viene meno lo spazio di socializzazione nulla può più unire gli uomini, se non le interconnessioni vincolanti date dall’economia generalizzata», e quindi «il vero conflitto è tra socialità e culture contro plebiscitarismo e dominio».
Il messaggio disperato della secessione può funzionare perché esso viene a cadere in un contesto sociale frantumato, in un deserto di socialità, in un mondo di piccole ambizioni e di grandi frustrazioni, e questo è il terreno privilegiato in cui nascono le mitologie politiche e i progetti di eversione. Anche la Lega, come analoghi movimenti, ha in sé una vocazione totalitaria: la Padania non è il luogo di un pluralismo democratico, ma è il luogo di un dominio esclusivo, di una aristocrazia di casta che si autolegittima in nome dell’indipendenza etnica. L’avanzata della Lega non è quindi solo una minaccia per l’unità nazionale, ma anche per gli equilibri democratici e per la qualità dello spirito pubblico, per la cultura politica del paese. La ricostruzione della socialità è il tema prioritario, perché senza spazio sociale viene meno anche lo spazio della politica; e anche le più sofisticate strategie istituzionali sono destinate al fallimento se non agisce contestualmente una strategia sociale. Per questo anche tutti i problemi di riforma dello Stato vanno pensati nel loro rapporto concreto con la condizione sociale, con le domande della società; e le diverse possibili soluzioni misurano la loro efficacia su questo terreno, in quanto strumenti capaci di riavvicinare istituzioni e cittadini e di ricostruire gli spazi della partecipazione politica.
Il problema istituzionale acquista allora una dimensione più ampia: esso riguarda la struttura materiale dello Stato e della pubblica amministrazione, il suo funzionamento effettivo nei diversi contesti territoriali, ma anche l’insieme delle rappresentanze politiche e sociali, il complesso delle istituzioni che sono necessarie per strutturare in modo organizzato una determinata realtà sociale. Il tema è la costruzione della poliarchia, ovvero delle istituzioni di una società complessa.
All’origine della crisi di oggi sta il divario crescente tra politica e società, tra la forma classica dello Stato, centralizzato, gerarchico, luogo esclusivo della sovranità, e la forma dell’organizzazione sociale, segmentata, differenziata, non riducibile a identità politiche lineari e omogenee, ma popolata da una pluralità di soggetti, di interessi, di motivazioni, di culture. In questa situazione, le istituzioni politiche finiscono per apparire un’astrazione lontana, perché non entrano in comunicazione con la complessità del reale. La società non si riconosce nelle sue istituzioni, ma anzi le avverte come una forma di oppressione. È in questo nodo irrisolto che stanno tutte le contraddizioni e le tensioni di questa fase.
Il federalismo indica una prima e parziale risposta, in quanto disarticola la compattezza e l’uniformità dello Stato-nazione e riconosce il pluralismo delle realtà territoriali. Ma le trasformazioni istituzionali sono solo l’involucro dentro il quale debbono agire le forze reali della società. In fondo, la forza della Lega sta appunto nel fatto che essa ha presidiato il territorio nel momento in cui il vecchio sistema politico si stava decomponendo. E la partita con la Lega non si vince intervenendo sui rami alti dell’ordinamento dello Stato, non si vince da Palazzo Chigi, anche con il migliore dei governi, ma solo organizzando un’azione politica sul territorio, praticando il federalismo come esercizio effettivo di autogoverno. Partiti politici e organizzazioni sociali, istituzioni locali e movimenti, debbono dar vita a una rete istituzionale efficace, a una linea di dialogo e di concertazione, per strutturare in modo forte il territorio, per fare sistema, per produrre socialità, e per riattivare quindi anche i canali della partecipazione politica in rapporto alle domande della società.
Senza questo lavoro concreto, sul campo, saremo sempre in balia di qualche “salvatore della patria”.
Busta: 3
Estremi cronologici: 1996, dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: Pubblicato col titolo “Europa e federalismo. Idee-forza contro i miti padani”, in “Quale stato”, dicembre 1996, pp. 97-106. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 147-157