IL BIPOLARISMO E LA COSTITUZIONE

La cultura cattolica tra neoliberismo e solidarietà sociale

Tavola rotonda tra Sandro Antoniazzi, Enzo Balboni, Giovanni Cominelli, Don Giuseppe Grampa, Riccardo Terzi, Salvatore Veca, a cura di Renato D’Agostini

Questa Tavola Rotonda è la seconda che Rassegna propone per tentare una riflessione sui cambiamenti del sistema politico italiano “cinquanta anni dopo” la nascita della Repubblica. La prima ha centrato l’attenzione sulla destra, questa propone il tema dei cattolici e della Chiesa, la prossima riguarderà la sinistra. Abbiamo invitato a questa discussione Sandro Antoniazzi, ex dirigente CISL e attualmente presidente della Fondazione S. Carlo (Caritas e Diocesi ambrosiana), Enzo Balboni, docente di diritto pubblico all’Università Cattolica di Milano, Giovanni Cominelli, caporedattore della rivista I Democratici, Don Giuseppe Grampa, docente di filosofia della religione all’Università di Padova, Riccardo Terzi, della CGIL, Salvatore Veca, docente di filosofia politica all’università di Pavia.

Com’è noto i fatti più rilevanti rispetto alle vicende politiche dell’area cattolica sono la fine della Democrazia Cristiana e dell’unità politica dei cattolici dopo la divisione del Partito popolare italiano tra Buttiglione e Bianco. Questo è forse il primo punto sul quale ragionare, e sarebbe interessante capire in quanta parte o in che modo ha inciso la cultura cattolica nelle sue diverse espressioni e come la Chiesa ha vissuto questi eventi. Tenendo conto che, se ripercorriamo cronologicamente gli eventi, c’è una cultura cattolica diffusa che ha abbandonato la DC ancor prima che si configurasse l’operazione politica che ha portato alla nascita e alla divisione del partito popolare.

 

C’è nell’operazione della costituzione del Partito popolare italiano un ruolo della Chiesa che poi, nel momento in cui è venuta meno l’unità del partito, ha mutato atteggiamento passando dall’appoggio esplicito a un almeno apparente disimpegno. Il cardinale Ruini ha detto esplicitamente che la Chiesa non può essere giocata da nessuno, come bandiera politica. Un secondo punto riguarda l’operazione politica messa in campo da Romano Prodi. Sarebbe interessante approfondire quanto lui stesso ha detto al recente Congresso del PDS per quanto riguarda la Costituzione: «L’area che si ritrova qui dentro (la coalizione di centrosinistra, ndr) è sostanzialmente erede di quelli che hanno fatto la Resistenza e di quelli che hanno costruito il progetto costituzionale».

Ancora un elemento di riflessione: la nostra Costituzione ha una forte impronta culturale cristianosociale e proprio quando alcune forze premono per un suo superamento torna in campo una delle figure più rappresentative del mondo cattolico, Dossetti, per una strenua difesa della carta fondamentale.

Il terzo punto riguarda il sindacato visto anche come luogo di confronto tra culture diverse (marxista, laica, cattolica) in un arco di tempo che va dalla separazione dalla vecchia CGIL alla riproposizione dell’unità. Chiedendoci innanzitutto se il superamento delle tre sigle sindacali rientri nel quadro delle trasformazioni che sta vivendo il paese, e, se è così, che cosa implica.

 

Terzi: Si tratta di vedere quello che sta accadendo in un sistema politico che ha avuto un’evoluzione molto intensa dopo l’introduzione del sistema elettorale maggioritario, con la logica del bipolarismo che ha creato in tutti i campi dinamiche completamente nuove, non più paragonabili alla situazione precedente. Questa è la prima questione: il meccanismo che si è avviato che cosa provoca in una realtà come quella del mondo cattolico?

Salta un punto tradizionale e forte del sistema politico: la Democrazia cristiana, come partito, era elemento di stabilità e un modello di unità politica dei cattolici. Questo ruolo centrale è stato colpito al cuore dalle nuove dinamiche, salta l’unità, nasce una costellazione molto varia di forze che si collocano in diverse coalizioni politiche. Si va verso una piena laicizzazione della vita politica? Non ci sarà più una presenza cattolica, come tale, sulla scena per cui conteranno soltanto le posizioni politiche: si sta a destra, o al centrodestra, a sinistra o al centrosinistra, a seconda dei propri convincimenti?

Non credo che sia così, non mi pare che si possa leggere questo processo semplicemente come fine del ruolo dei cattolici come soggetto politico. Mi pare piuttosto che cambiano le forme della presenza politica. Dentro gli schieramenti, sia in quello di centrosinistra che si sta costruendo, sia nello schieramento conservatore, c’è un ruolo, una presenza significativa di forze cattoliche.

A me interessano in particolare i rapporti tra la sinistra e il centro. Questo schieramento che si è messo in moto ha avuto già delle tappe significative, le intese nelle elezioni degli enti locali, nelle elezioni regionali, la candidatura comune di Prodi. Si è creato essenzialmente un rapporto tra le forze della sinistra democratica e un centro che è parte significativa del mondo cattolico, il partito popolare in modo particolare. Che senso ha questa operazione? Da qualcuno viene criticata come puramente tattica ed elettorale, cioè una corsa al centro in chiave elettoralistica da parte del PDS. Nel momento in cu, per tutto quello che è accaduto ne gli anni passati, la fine di una certa idea del socialismo nel mondo, anche la sinistra non è più portatrice di un modello sociale radicalmente alternativo, allora, se è così, anche per la sinistra il problema è quello di come in una società di mercato si recupera una dimensione di valori, di attenzione alla persona. Se questo è il problema, allora l’incontro della sinistra con il mondo cattolico non mi sembra casuale, perché è esattamente il punto su cui più ha scavato la cultura cattolica negli anni passati, quindi mi pare che ci possa essere una base comune e non solo una convergenza elettorale.

Andando, infine, un po’ oltre la dimensione strettamente politica, vorrei ragionare anche su quello che è il ruolo della Chiesa in questa fase. Anche qui, con la fine dell’esperienza comunista nell’Est d’Europa – una battaglia fatta in prima persona dall’attuale pontefice -, mi pare che ci siano dei cambiamenti di scenario. Da quando si è chiusa questa partita storica mi pare che stia aumentando la tensione tra le posizioni della Chiesa e quelli che sono i caratteri dominanti delle società dell’Occidente, con una critica alle forme estreme di individualismo, alla tendenza forte in tutte le società occidentali a rifiutare la dimensione dell’etica. In questo c’è un cambiamento. Nel passato la Chiesa ha contributo in molte situazioni ad essere il cemento di un blocco d’ordine, di un blocco conservatore di fronte, appunto, alla minaccia comunista. Mi parrebbe difficile definire l’attuale pontefice come uomo moderato, uomo d’ordine, anzi prevalgono gli atteggiamenti profetici di chi vuole testimoniare valori molto alti che non sono realizzati e che entrano in conflitto con l’ordinamento sociale presente.

Tutte le posizioni che tendono a interpretare il ruolo dei cattolici nella vita pubblica come un ruolo moderato (e penso a Buttiglione) mi pare non corrispondano a quella che è la l’unzione più profonda che svolge la Chiesa oggi e che non è, appunto, una funzione di moderazione, ma quella di porre interrogativi molto profondi circa il destino delle società moderne.

Persino la questione dell’aborto, che è quella più spinosa e delicata per la cultura laica, in fondo vuoi dire questo: è un richiamo all’etica, alla responsabilità, poi, ovviamente, può essere non accettabile il tipo di risposta. Per concludere, non mi convince molto una rappresentazione del futuro estremamente semplificata, per cui c’è la piena laicizzazione e ci sono soltanto un polo di destra e uno di sinistra. La dinamica è più ricca e una presenza di forze cattoliche su basi politiche proprie continua ad avere un senso.

Sul piano sociale, come sindacato, credo che ci siano oggi condizioni più favorevoli per riproporre l’obiettivo dell’unità, ma non è detto che si possa davvero raggiungere. Dal momento che non credo che sparisca una dimensione propria della presenza cattolica in politica, ci può essere forse anche sul piano sindacale la tendenza a mantenere una organizzazione che faccia riferimento alla cultura cattolica, anche se credo che sarebbe un errore, perché in questo momento dovrebbero prevalere le ragioni dell’unità, con il superamento delle vecchie divisioni.

 

Balboni: Credo sia interessante ricostruire gli eventi del ‘93-’94, che hanno portato alla costituzione e alla divisione del PPI, perché credo che emerga una logica di chiarezza da salutare come positiva. L’evento scatenante è la progressiva capacità di penetrazione di quella scheggia che era Segni, all’interno della DC, fino al 29 marzo del ‘93. Segni ha seguito un itinerario suo, è stato sempre coerente e, salvo un momento di ondeggiamento tra destra e sinistra, ha sempre perseguito un suo disegno moderato, di sganciamento da quello che era il modo tradizionale di rapportarsi della Democrazia cristiana ai ceti cui faceva riferimento.

Non dimenticatevi che nelle lettere di Moro, scritte evidentemente nel marzo del 1978, Segni è indicato come una delle persone nuove sulle quali qualcuno, e sono esplicitamente indicati gli americani, aveva fatto un investimento per modernizzare la Democrazia cristiana e, quindi, la presenza dei cattolici in politica

In concomitanza con il conclamarsi delle accuse ad Andreotti di collegamenti con la mafia in Sicilia, Segni esce clamorosamente dalla Democrazia cristiana e, subito dopo, la stessa DC comincia a interrogarsi su una modernizzazione che non può più aspettare. Da parte di Martinazzoli c’è il tentativo di chiamare attorno a sé il meglio del mondo cattolico di tutte le parti, e quindi si rivolge sia all’Azione cattolica, sia all’area culturale della sinistra, sia a quella ciellina. È significativo che alla fine sarà quest’ultima, cioè la coppia Buttiglione-Formigoni, ad avvalersi maggiormente di questa apertura, e prende vita quel Gruppo dei quaranta, tra i quali ero anch’io, che predispongono l’Assemblea costituente. Nel luglio si istituisce l’assemblea, Martinazzoli legge una delle sue più penetranti relazioni, un appello a tutto il mondo cattolico. È significativo che il documento finale dell’Assemblea costituente del luglio del ‘93 si concluda con una votazione quasi unanime, pochi gli astenuti e pochissimi i voti contrari, mi pare tre, ma ne viene segnalato soltanto uno che, peraltro, è molto significativo, quello di Ermanno Gorrieri.

Successivamente i tempi precipitano e si intuisce che l’ala destra, Casini-Mastella, non resterà più all’interno della Democrazia cristiana se non riuscirà a riorientare in una certa direzione l’asse politico. E con Martinazzoli intuiscono che non riusciranno a farlo. Prendendo occasione – e questo è anche significativo di un recupero dei valori – dal settantesimo dell’appello “ai liberi e forti” di Sturzo, il 18 gennaio del ‘94, nella sede dell’Istituto Sturzo di Roma, c’è una cerimonia anche toccante dal punto di vista emotivo in cui si dice: «Ripartiamo dal partito popolare». Martinazzoli dava con i suoi tempi, e anche con tutto il suo orgoglio intellettuale, una risposta a quella che considerava un’intempestiva presa di posizione di Segni quando nove mesi prima gli disse: «Non puoi più stare nella Democrazia cristiana, è uno strumento inattuale». Lo stesso giorno, il 18 gennaio, il Ccd fa la scissione a destra.

In quel momento la decisione folle delle elezioni. Lo stesso D’Alema ha riconosciuto che è stato un errore da parte della dirigenza del PDS. È un fatto: ci si precipita verso le elezioni politiche, cercando di mettere all’incasso la cambiale positiva della vittoria dei sindaci a novembre a Roma, Genova, Venezia ecc. Martinazzoli incontra Berlusconi che cerca di “comprarlo”: «Dite quanti posti volete e ve li daremo». Martinazzoli gli risponde che un partito politico che ha una storia, una cultura e un orgoglio non entra nemmeno in discorsi di questo tipo. A questo punto le elezioni: Martinazzoli, pur scontando una sconfitta, intuisce che doveva essere preservata un’area di centro, sapendo che successivamente sarebbe stata una risorsa. Da quel momento comincia una discesa a precipizio. I quattro milioni di voti ottenuti dal Partito popolare italiano vengono messi a confronto con i dieci ottenuti precedentemente dalla Democrazia cristiana e già il giorno dopo le elezioni ci sono dichiarazioni esplicite di Formigoni e Buttiglione che contestano come accade sempre la dirigenza del partito. E questo probabilmente è uno degli elementi che fanno scattare le dimissioni via fax dello stesso Martinazzoli. Da quel momento in poi CL è l’unico gruppo organizzato, determinato, quello che aveva nei confronti di molti dei nostri iscritti la faccia del nuovo. Bisogna ricordare che la sinistra, alla quale appartengo, ha commesso l’errore di presentare in alternativa a Buttiglione un personaggio come Mancino, che appariva della vecchia nomenclatura, per quanto onesto e per bene dal punto di vista personale. A questo punto la vittoria al Congresso si trasforma in un “prendere tutto ed eliminare gli altri”. Si produce cosi quella situazione che arriva fino al marzo del ‘95, con la presentazione dell’ordine del giorno, sul quale Buttiglione pone la fiducia e sul quale non la ottiene, perché riceve 99 voti contro 102, e poi, contraddicendo anche se stesso, rifiuta di dare le dimissioni.

Alla fine dunque si è prodotto, probabilmente, un chiarimento positivo rispetto alla vecchia dimensione del partito dei cattolici, organizzato in quanto tale, come gruppo di potere che sta obbligatoriamente al centro, e che, in quanto unito, pone l’elemento della stabilità come unico elemento di qualificazione politica. L’operazione di presentarsi come un partito della moderazione, ma non come un partito moderato, alla fine, in qualche modo, ci pone sulla strada giusta.

Il partito clericomoderato c’è già stato nella storia politica italiana e ricorrentemente ritorna, c’è stato il modello del Patto Gentiloni con Giolitti, ci sono stati i clerico-fascisti o i clerico-moderati che hanno appoggialo il fascismo in modo esplicito, anche dopo il delitto Matteotti. Un moderatismo insomma non inteso come stile attraverso il quale fare emergere anche le qualità dell’avversario o le ragioni che possono esserci dall’altra parte, stile che Martinazzoli voleva introdurre nel dibattito politico italiano, nel senso che: «C’è bisogno di un centro, di un centro come moderazione, non di qualcuno che faccia una politica a favore dei gruppi moderati». Questa è una delle grandi contraddizioni latenti e presenti da sempre tra i cattolici italiani.

Nel mondo cattolico hanno convissuto Dossetti e Andreotti. Se pensiamo ai protagonisti della storia della DC vediamo emergere quattro figure: Dossetti, Moro al centro, più spostato De Gasperi e più spostato ancora Andreotti. I due modelli veramente alternativi sono stati quelli di Dossetti e di Andreotti. Soltanto che Dossetti abbandonò la politica dopo aver colto che il suo era un modo estremo di porre i problemi. I modi di essere centrali, probabilmente i più accettabili, furono quelli di Moro, dalla parte dell’attenzione al sociale, e di De Gasperi, dalla parte della governabilità.

La scesa in campo di Prodi in qualche modo chiarisce che si può essere cattolici con i valori di centro della moderazione, appartenendo a un campo che è il centrosinistra, senza dover essere andreottiani. Questo, in sintesi, è il chiarimento che mi sembra finalmente venuto.

 

Cominelli: Penso che si debba distinguere fra il destino del cattolicesimo politico e quello del cattolicesimo inteso come cultura cattolica. Se parliamo del cattolicesimo politico, delle sue prospettive, a me pare che è riuscito a tenere fino a che ha avuto grandi proposte per il paese. L’ultima è stata quella di Moro, con la sua ipotesi di soluzione rispetto all’anomalia politica italiana. Da allora è cominciata una traversata nel deserto e mi pare di poter dire che le truppe si sono perse e che in questa fase di transizione il cattolicesimo politico, frammentato e diviso, si presenti sostanzialmente come soggetto passivo perché sembrano altre le forze che stanno muovendo questa complicata transizione italiana.

Il cattolicesimo politico è ormai un piccolo soggetto, accanto ad altri, e forse non il più importante. Probabilmente il suo destino è molto simile a quello dell’MRP francese. Se si accende, come si è accesa di fatto, una dinamica bipolare ancorché non bipartitica, l’esito più probabile del cattolicesimo politico sembra essere questo. Allora, il discorso del sinistra-centro credo che sia un passaggio necessario, ma del tutto tattico e transitorio, nel senso che il centro non ha più una base sociale specifica. Quali sono le classi o i ceti di centro?

 

Terzi: E quali quelli di sinistra?

 

Cominelli: Infatti. Dal punto di vista della cultura politica del centro, quella che è stata chiamata della moderazione e non del moderatismo, di fatto, proprio per la ragione a cui allude Terzi, se viene meno la base di classe delle culture politiche di sinistra e di centro, obiettivamente, ciò che costituisce l’unità potenziale di questa cosa che chiamiamo sinistra-centro è una versione solidarista, democratica, del liberalismo, che poi è stata per una fase la specificità dei cattolici in Italia. Dov’è che i cattolici si si sono ricavati uno spazio tra liberalismo ottocentesco e socialismo? Nel fatto che hanno piegato a sinistra, in una direzione democratico-solidarista, il vecchio liberalismo ottocentesco. Questo è stato il tentativo di Sturzo, la sua identità culturale più profonda: un liberalismo democratico, popolare solidarista.

Quello che sta accadendo è che il cammino della sinistra storica, comunista e socialista, in questa direzione e il perdurare su questa posizione delle correnti della sinistra sociale, della sinistra democratica cattolica, sta di fatto togliendo specificità a quello che si chiama centro cattolico. Ecco perché, secondo me, il discorso sinistra-centro è un discorso tattico, che tiene conto dei soggetti politici prodotti in questa prima Repubblica che non è ancora pervenuta a compiere la transizione. Una transizione che può anche durare molti anni, la transizione francese è durata dal ‘51 al ‘62 e in questi dieci anni l’MRP si è scomposto, è scomparso.

Prodi personalmente è già in questa collocazione liberaldemocratica di sinistra, insomma, per dirla in breve, il socialismo è morto però la storia non si ferma, c’è un liberalismo conservatore e c’è un liberalismo progressista democratico che si misura non più sui temi della classe, ma su quelli della cittadinanza, per cui sei liberaldemocratico se hai una versione estesa della cittadinanza, dei diritti sociali, dei doveri e delle responsabilità, sei liberal-conservatore se ne hai una più ristretta, che prevede accessi ristretti, la difesa delle oligarchie.

A me pare che Prodi sia già un po’ più avanti come collocazione, come simbolo, come tentativo politico rispetto al discorso “centro più sinistra” o “sinistra più centro”. Per questa ragione la sua eventuale vittoria allude a un superamento di questo discorso di centrosinistra che non a caso riprende anche nel nome, nelle parole, un’esperienza che è storicamente passata. Per quanto riguarda le culture cattoliche credo che occorra distinguere tra la Chiesa universale e la Chiesa cattolica italiana. La Chiesa universale, che è rappresentata dal papa, mi pare abbia avuto almeno due segmenti nel suo percorso: il primo è la Chiesa trionfante, la Chiesa di battaglia, che va allo scontro con le potenze del mondo e vince; il secondo è la Chiesa di questi anni, del papa che chiede perdono agli ebrei, alle donne, che indica in maniera sofferente le sfide del millennio o, per meglio dire, del secolo che si chiude. La Chiesa che si candida ad essere comunque una forza, un soggetto di inquietudine e di critica in un mondo in cui vengono avanti potenze enormi: la scienza, l’informazione, che tendono a non porsi il problema della responsabilità, delle conseguenze delle loro azioni. Rispetto a questo, il papa indica un metodo che è quello della responsabilità, cioè a dire: «quando vi muovete diceva Jonas, il filosofo – essenza ed esistenza dell’uomo non possono essere la posta in gioco», poi, naturalmente, è aperta la discussione su che cos’è l’uomo oggi.

Per quel che riguarda la Chiesa italiana penso che, dopo il lampo del Concilio degli anni 60, viva una profonda crisi teologica e culturale. La Chiesa italiana è una delle chiese che ha, secondo me, influito meno sull’evoluzione culturale del paese in cui vive. Se penso alla Chiesa tedesca, alle scuole di teologia o alla Chiesa francese, queste incidono molto di più sulla formazione dei modelli culturali, dell’etica, di quanto non sia in grado di fare la Chiesa italiana che si è schiacciata sul destino del cattolicesimo politico. Non ha agito come forza autonoma. Per noi non è facile vederlo perché poi, in realtà, quando si parla di Chiesa si tende a dire il Vaticano, il papa, ma in generale i vescovi italiani non mi sembra abbiano dato buona prova dal punto di vista dell’elaborazione teologica e, quindi, della loro capacità di influire sulla formazione dei costumi.

In Italia abbiamo avuto un processo acceleratissimo, che viene da lontano, di laicizzazione della politica. Il problema è che se si pensa a una politica che va avanti senza valori, allora il rischio riguarda tutti, i cattolici e chiunque pensi che una società sta insieme se c’è o se si costruisce una tavola di valori. Conclusione: mi pare siamo alla fine del cattolicesimo politico, con una funzione residuale, ma importante, in questa fase di transizione. Per quel pezzo che è rimasto, la sfida è nella costruzione del sistema bipolare, che non sarà bipartitico.

 

D’Agostini: Un po’ paradossalmente, non è forse vero che proprio se muore il cattolicesimo “partitico” forse può rinascere il cattolicesimo politico? Non c’è il rischio che, guardando dall’osservatorio strettamente politico, quindi alle vicende della Democrazia cristiana, alla sua caduta, o anche alla caduta di un certo modo di essere della Chiesa in Italia, si perdano di vista realtà importanti dove già da tempo è avvenuta una separazione tra militanza partitica, professione di fede (qualsiasi fede) e azione sociale? La fine del vecchio stato di cose non può essere un nuovo inizio, la possibilità di offrire a una dimensione del fare tanto diffusa nella società civile una nuova dimensione politica?

 

Antoniazzi: Credo che per i cattolici sia effettivamente un momento di shock, di silenzio, c’è un grande vuoto dopo la DC: dopo 40-45 anni sicuramente si sta cercando, discutendo, facendo, si sta pensando, aspettando. Sono convinto che la DC fosse un eccesso anche dal punto di vista cattolico. Credo che abbia avuto un grande ruolo democratico nei primi 15 anni, forse di più: il problema è che quando arriva il benessere e lo sviluppo c’è una gestione diversa e la DC si identifica con la gestione dell’esistente. L’aggettivo “cristiana” diventa sempre più un’abitudine. Fino a dilapidare tutto un patrimonio

Anche se provengo da un’esperienza che vorrebbe distinguere molto più nettamente fra religione e politica, non credo che siamo di fronte alla fine del partito cattolico e che rimanga solo il punto di riferimento etico, forte e diretto, della Chiesa.

Il ruolo della politica è molto importante, è il momento della ricaduta pubblica dei valori. Per fare un esempio, la riforma delle pensioni ha un valore etico mille volte maggiore di qualunque discorso, perché c’è la ricaduta pubblica, civile. Sarei insomma per una posizione più equilibrata, evidentemente non per ritornare al passato. Credo ci sia una condizione relativamente favorevole di liberazione rispetto a una situazione che si era cristallizzata e che non ha permesso una crescita etica, culturale e religiosa. E penso che un ruolo dei cattolici, non più nelle forme di prima, sia opportuno, almeno nella transizione. Mi sembra molto difficile pensare solamente alla Chiesa come riferimento etico pubblico, anche se credo che la Chiesa possa dare molto di più di quanto ha dato in passato.

Non userei la parola “moderazione” perché è una parola troppo equivoca. Vedo poche distinzioni di contenuto fra le questioni che identificano il centro e quelle che riguardano la sinistra, la moderazione è un’ottima virtù, però non è una linea politica. Mi sembra che le scelte fatte dai cattolici recentemente siano dovute a motivi elettorali contingenti. Una volta, prima di fare una scelta come, per esempio, quella del centrosinistra, si discuteva per dieci anni, documenti, teorie ecc., adesso non ci sono neanche dieci righe di spiegazione. Prima tutto si diluiva e diventava un po’ scialbo, ma la spiegazione a questo modo di procedere ritengo sia legata anche alla necessità di far crescere una cultura e una coscienza che non è facile acquisire. Per esempio, nelle ultime elezioni politiche, il voto cattolico è andato decisamente molto più alla destra, e a destra ci va senza problemi. A sinistra invece le scelte sono ancora tutte molto complesse, anche i cattolici di sinistra fanno fatica a votare il PDS.

Dossetti ha fatto interventi molto importanti, però i primi erano tutti molto difensivi, di reazione al fatto che il nuovo fosse questo tipo di destra. Poi, man mano, discutendo, ci sono state correzioni molto importanti. Non credo – e in questo sono molto convinto – che dobbiamo cambiare la Costituzione. Il problema vero è che non possiamo pensare solo ai riferimenti culturali della Costituzione, che comunque dobbiamo difendere, perché lì c’è un assetto che secondo me è ancora molto importante come punto di riferimento, rispetto ai giovani, rispetto alla società di oggi, rispetto a quello che bisogna fare nella politica.

E, diciamocelo fra noi, anch’io continuo a fare i comitali Prodi, e continuo a dire che lo facciamo sul programma, però dietro di noi non è che ci siano solo i programmi, c’è un modo di sentire, una specie di antropologia non dichiarata, su cui ci troviamo d’accordo. Forse è difficile esplicitare questa realtà, però è quella su cui lavorare. Vengo all’ultima questione che poneva Terzi quando accennava al papa. Credo ci siano nel discorso sociale cattolico posizioni anche molto importanti che potrebbero essere dirompenti Ne cito tre: il papa dice che il problema della popolazione mondiale (più della metà è in una condizione di povertà) è il problema numero uno di qualunque politica. Capisco che se un partito in Italia dice che il problema numero uno da affrontare è quello della povertà e della condizione degli esseri umani nel mondo di voti non ne prende, però è una verità. Il secondo: anche nei paesi ricchi c’è aria di esclusione, di emarginazione, di disuguaglianze che stanno diventando una cosa tremenda. Terza cosa fondamentale è il fatto che l’economia è, non solo strumento di potere, ma anche dimensione di vita. Questi, secondo me, sono i punti critici dell’attuale condizione, il problema è che possano essere declinati in due modi: come le prediche della domenica o come creazione di una coscienza critica comune, anche politica.

C’è in questo contesto anche il meglio di tutta la battaglia sociale, e qui vedo anche il discorso dell’unità sindacale, nel senso che dobbiamo ricreare una prospettiva etico- sociale dove però la politica ha un ruolo fondamentale perché è quella che da concretezza a queste dimensioni. A me sembra che questi punti di riferimento sono per il momento ancora a un livello molto generale, molto vago e non hanno trovato ancora canali per tradursi in un ethos sociale e in una politica reale.

 

Don Grampa: Voglio anch’io partire dalle questioni del cattolicesimo politico. La fine dell’unità politica dei cattolici è un fenomeno liberante che chiude una convivenza equivoca durata per molti anni, ma mi chiedo: questa sorta di diaspora per cui abbiamo visto e vediamo esponenti del mondo cattolico in tutte le formazioni politiche è un fatto semplicemente da salutare come benefica presenza in ogni realtà dei cattolici, o nasconde ancora un equivoco? E possibile che provenendo dalla stessa formazione si possano condividere impostazioni politiche di segno profondamente diverso?

Questa diaspora, allora, pone un interrogativo, non può essere un fatto semplicemente da accettare e da salutare come ovvio, potrebbe essere la premessa per la fine di qualunque presenza politica dei cattolici. Da parte e dall’interno della Chiesa possiamo limitarci ad accettare questa fine? Il venire meno di qualche forma di presenza politica è comunque problematico. Non c’è dubbio che alla Chiesa, come a ogni realtà educativa, stiano massimamente a cuore i valori (se ne parla fino all’eccesso e con un dispiego di retorica incredibile) ma solo se questi valori – e venivano ora ricordati – trovano dei canali e delle strutture politiche adeguate, diventano praticabili. Solo se la Chiesa ritrova dei linguaggi e delle forme politiche evita la retorica, che è l’insidia più facile dei suoi discorsi.

Non a caso negli ultimi decenni questo rapporto è sempre stato mantenuto in forme molto diverse. Il rapporto tra la Chiesa e i partiti nel ‘48 non è stato quello degli anni della svolta conciliare, non è stato quello degli ultimi anni, ma questo rapporto è stato sempre avvertito come decisivo perché, credo, si percepisce la insuperabilità della mediazione politica, pena il decadere dei propri discorsi valoriali, appunto, in retorica.

La diaspora attuale solleva anzitutto un problema per la Chiesa: quali interlocutori potrà avere? In passato ne aveva a modo suo, e non sempre con risultati particolarmente apprezzabili, ma oggi l’assenza o un enorme pluralismo negli interlocutori pone certamente alla Chiesa un problema di elaborazione politica al proprio interno. Temo il rischio che ne deriva, e anche il cardinale Ruini dice: «badiamo a non trasferire all’interno della Chiesa le opposizioni, le divisioni che segnano la vita politica», ma la Chiesa non può neppure sottrarsi a questa responsabilità.

Una visione privatistica della fede non appartiene alla tradizione cattolica, una visione della fede di tipo intimistico che non incide in qualche modo sul piano della storia non appartiene alla coscienza cristiana più matura e, non a caso, l’ultimo tentativo – credo tardivo e gracile – che la Chiesa italiana ha fatto attraverso le scuole di formazione all’impegno sociopolitico sono l’avvertenza di un problema al quale bisogna tentare di dare risposta.

Oggi non si vede quali strade la Chiesa italiana saprà e potrà percorrere, ma rassegnarsi semplicemente alla fine di questa esperienza credo sia pericolosissimo Senza dire che, per altro verso, la politica, l’economia stessa si fanno carico, sovente, di fare appello alla Chiesa, alle sue ragioni etiche. Mai come in questi anni c’è stato un dispendio di appelli all’etica, ma è vero che queste questioni esistono e che soluzioni puramente tecniche non sono di lungo respiro. Che la Chiesa, allora, si ritiri da questo ambito mi pare assolutamente funesto.

La fine dello strumento partitico tradizionale non deve essere, credo, la fine di ogni forma di presenza politica dei cattolici e la diaspora attuale mi pare assolutamente inaccettabile perché consegna alla infecondità la presenza dei cristiani. Non si può andare a braccetto con tutti e mantenere un brandello di identità. Questo mi pare il problema più grave dall’interno della Chiesa.

 

Veca: Terzi aveva posto all’inizio una questione che poi è ritornata, cioè l’effetto del maggioritario: rottura dell’unità politica dei cattolici e diaspora, cioè distribuzione di forze cattoliche di qua o di là dello spettro di questo imperfetto e, comunque, virtuale nel senso di altamente probabile – assestamento bipolare, e non bipartitico. La questione è stata variamente affrontata, l’ultimo intervento ci ha mostrato quanto ciò costituisca motivo di inquietudine dal punto di vista dell’istituzione Chiesa, altri hanno sottolineato il carattere di liberazione, perché si è chiarita una storia, 50 anni dopo, una lunga storia, quell’asse che da Dossetti arrivava al polo estremo di Andreotti. E tutto ciò è stato visto sia dal punto di vista della storia del partito cattolico italiano, sia dal punto di vista delle culture del cattolicesimo italiano. Suggerirei di considerare questo stesso processo, pensando alle possibili risposte alla domanda: “che cosa è prevedibile?”, piuttosto che “che cosa è auspicabile?”. Perché su cosa è auspicabile, attorno a questo tavolo, più o meno, siamo tutti d’accordo, quindi è inutile parlarne. Consideriamo invece il punto di vista dei soggetti politici, nel senso elementare della professione politica. Buona parte di questa complicata vicenda ha a che vedere con uno dei processi più impressionanti che ha subito l’Italia in questi ultimi anni e che è, da un lato, l’effetto referendario, ma dall’altro è l’effetto, divenuto patente, del sistema di scambio e di corruzione. Abbiamo avuto quella che è stata chiamata la rivoluzione giudiziaria, un processo di decapitazione delle professioni della classe politica.

Questo è difficile dimenticarlo, lo sappiamo tutti, guardiamo allora che cosa succede. In realtà dovremmo prendere atto del fatto che chiamiamo cattolici questi frammenti, questi pezzi di classe politica semplicemente perché vengono da esperienze nella Democrazia cristiana ed è solo per questo, non per altro. Voglio dire semplicemente che soggetti politici che si sono formati e che hanno avuto maggiori o minori responsabilità entro la Democrazia cristiana, operano scelte differenti, quindi è probabile che le risposte alla domanda: “che cosa succederà?” potrebbero anche derivare da logiche che riguardano l’interesse della classe politica stessa. Non suggerisco di essere cinici, ma di considerare che la politica non è la salvezza, non sono cattolico ma sono convinto di questo: la politica non deve fare tutto, fa cose importantissime, e sono contro le forme di discredito, che pure l’attività politica si è meritata, e penso che sia un pezzo importantissimo delle vite individuali e collettive, ma non tutto.

Come rispondere, quindi, alla domanda che poneva Riccardo Terzi all’inizio? La mia impressione è che, inevitabilmente, avremo la persistenza di forze politiche, cioè di frammenti di classe politica ex democristiana ora nell’uno, ora nell’altro fronte del tendenziale bipolarismo. Si potrebbe porre un’ulteriore questione: perché abbiamo ex democristiani ovunque? La risposta potrebbe essere: per le loro capacità nell’ambito dell’esercizio della professione politica. Non sto dicendo che abbiano operato bene o male, ma che le competenze professionali politiche in Italia sono state acquisite in modo preponderante nella Democrazia cristiana, per la caratteristica, tutta particolare, di essere stata il centro politico nella lunga storia del dopo guerra, con un quasi totale incollamento sulle istituzioni. Altri, minori e variamente dotati di risorse, hanno fatto buona compagnia. Altri, infine, la sinistra, come ben sappiamo, sono stati anch’essi, anche se in fasi differenti nella storia della Repubblica, in situazioni di scambio con chi deteneva il controllo delle istituzioni in totale coesione con la gerarchia ecclesiastica.

La mia spiegazione dell’ubiqua presenza di classe politica ex democristiana o cattolica può sembrare un po’ bizzarra: dipende dal fatto che lì vi è buona parte delle risorse di professionalità politica. La moderazione, come capacità di ponderare, è una tipica capacità della competenza professionale politica in sistemi che vanno a regime, come la cosiddetta prima Repubblica.

Abbiamo avuto l’esperienza un po’ “goffa” del governo Berlusconi e si è visto quanto non sapessero fare persone che non erano state reclutate, selezionate, e non avevano fatto l’apprentissage per la professione politica.

Per quanto bizzarra la mia risposta, che non riguarda i problemi del cattolicesimo, è semplice e delimitata, ma quando parliamo di “questione” cattolica bisogna capire di che cosa stiamo parlando. Ci è stata fatta una storia molto precisa dei ceti politici ex democristiani, ora ubicati di qua o di là, nell’ambito degli attuali schieramenti, ma dobbiamo tener conto anche della professionalizzazione politica, perché non potremo reggere a lungo – e questo indipendentemente dal problema dei cattolici – in questa lunga fase di transizione, se non riprofessionalizzeremo la politica.

Sulla questione del sinistra-centro come tattica provvisoria evocata da Cominelli dico che comunque, se è provvisoria per dieci anni, per me va bene perché nella situazione politica italiana dieci anni sono quasi una dimensione strategica. È chiaro che poi sul lungo periodo siamo tutti morti. Quando Terzi ha posto il problema delle logiche dell’azione o dell’agire politico, che si esprime semplificando: «la sinistra perde non solo il suo incollamento a un referente sociale o a una base di classe, ecc., ma perde anche buona parte del suo arsenale ideologico», ebbene, mi è venuto in mente che per il cattolicesimo (e qui non parlo degli ex democristiani, poi può capitare che siano le stesse persone) il problema non si pone perché ovviamente mantiene il riferimento a valori.

È evidente che se parliamo tanto di valori è perché su questi abbiamo incertezze. Allora il riferimento al valore della persona è quello che può tenere assieme, al di là di un mero accordo elettorale – che tuttavia avrebbe una sua logica una prospettiva di centrosinistra o di sinistra-centro. In qualche modo riposa su una coerenza più che di “valori”, di motivazione, all’agire politico, perché l’agire politico non è solo quello della classe politica, è quello del militante, del votante (diminuisce quello del militante ed aumenta quello del votante, questa è la tendenza).

Mi ha fatto pensare a questo Antoniazzi quando ha detto: «Sono del comitato Prodi non tanto per i programmi. Il motivo per cui stiamo assieme è perché in fondo abbiamo un sentire comune che dovremmo sviluppare». Mi sembra che Antoniazzi non ponga il problema delle ragioni programmatiche, ma quello delle motivazioni che legano, nel senso che fanno sì che tu ed io, che abbiamo storie differenti, ci troviamo insieme.

L’indistinzione programmatica non è certo una novità di questi anni. Ora, la mia impressione è che c’è una cultura, nel senso elementare del termine che può rendere conto di questo «idem sentire», come dice Bossi. Quale è il messaggio, la prospettiva, come, che cosa la politica può fare per la vita delle persone, per dare identità a una coalizione che vede il rapporto, qui sì, con la cultura del cattolicesimo sociale?

Una delle maggiori fonti di sofferenza nelle società ricche è il rischio della solitudine involontaria, la solitudine di chi per la trasformazione dei modi del lavoro starà a casa tutto il giorno davanti al modem e avrà magari lo stesso reddito, lo stesso salario e tuttavia non avrà lo stesso tipo di vita relazionale, la solitudine di chi confronta sé con altri e resta indietro per ragioni che non dipendono dalla sua responsabilità, di chi dovrà affrontare lo stigma sociale derivante, per esempio, da handicap naturali, di chi ha perso speranze di lungo termine, comprese le celeberrime ideologie di salvezza, mondane ed extra mondane. Ora, quello che il centrosinistra può proporre, al di là dell’accordo tattico, che non è da escludere, è che ci sia la promessa che la classe politica, qualora ottenga consenso, tenderà a prendere sul serio questa sfida della solitudine, cercando solidarietà o reciprocità.

L’idea non è che tutti debbano ricevere ma che se ciascuno da qualche cosa allora c’è la possibilità di non lasciare nessuno al destino della solitudine sociale. Chi è che non ha paura della solitudine? Chi ha risorse, è tutto qui. Questo è cattolicesimo sociale? No, è un mix, uno strano insieme che probabilmente risponde oggi, nelle società ricche, alle sfide cui sono di fronte le classi politiche che competono per governare.

Il problema della Chiesa. C’è una differenza, suppongo che sia vero quello che diceva Cominelli, cioè il riferimento da un lato alla Chiesa cattolica, pontificale, e quindi alla sua missione nel senso proprio, e dall’altra alla Conferenza episcopale italiana. Il pontificato di Wojtyla è uno di quelli che resteranno nella storia. È stato da un lato papa di guerra, e dall’altro papa di sofferenza. Certamente è un papato intransigente, sofferente e testimone. Questo papa che chiede scusa e al tempo stesso denuncia ma dove e come trasforma motivazioni e atteggiamenti perché non siano soltanto retorica? Nei paesi ricchi le cose non funzionano un granché, può darsi che mi sbagli, ma questo cattolicesimo interpretato dal pontefice, parla di Africa, e non è che la gente non stia a sentire, ma in fondo è una serie di grida di dolore. Come per il massacro in Bosnia, ma poi il Vaticano riconosce la Croazia.

C’è una bella frase di Martinazzoli: «In fondo noi viviamo un’epoca ricchissima di mezzi e scarsissima di fini». Sulle sfide del futuro, le questioni bioetiche, i problemi soprattutto dell’ingegneria genetica, il papa non viene a patti con il mondo, ma ho l’impressione che sia ascoltato laddove, se posso dire, è più messo in dubbio il suo messaggio. Pensiamo al problema della bomba demografica, a quello molto discusso sulla contraccezione, ecc. Ed è meno ascoltato laddove il benessere e le società ricche rendono scarsi i fini quanto più aumentano i mezzi. E a questo punto voglio porre una domanda. E stato citato Moro, uno potrebbe pensare che in condizioni molto mutate l’idea di proporre il centrosinistra come strategico in questo momento, sia in fondo un ricollegarsi da parte di alcuni pezzi della classe politica formala dai vecchi schieramenti a una fase già provata della storia politica italiana.

In cauda venenum? È solo il desiderio di chiarirci le idee. La Democrazia cristiana da un lato e il PCI dall’altro, a metà degli anni Settanta, hanno garantito che il paese stesse assieme con il patriottismo costituzionale, per cui il fatto che torni il riferimento alla Costituzione è interessante.

In Italia le fasi di vero cambiamento sono quelle in cui il riferimento va sempre alla Costituzione, e sono sempre di emergenza. I partiti politici allora, oggi le cose sono cambiate e su questo bisognerebbe interrogarsi, con l’esclusione del Movimento sociale italiano in quanto non appartenente all’arco costituzionale c’è una logica in tutto questo – essendo loro uniti, garantivano l’unità del paese, del sistema, come se la percezione della possibile disintegrazione italiana, ricevesse la risposta politica come risposta partitica. Come dire: noi ci uniamo e così confermiamo che voi siete uniti. Questa è stata la nostra storia. Ora, uno potrebbe dire: oggi lealtà nel senso di fede politica non se ne vede granché.

Perché non si fanno grandi discorsi per giustificare un’alleanza, dice Antoniazzi. Come mai? Ma perché la politica era insieme provvedimento, scelta e discorso, nel senso più tecnico, cioè era la componente retorica della politica perché in quel modo elaboravi il messaggio di riconoscimento per le tue cerchie di referenti. Sono tra quelli che pensano che uno possa vivere la propria esperienza religiosa non necessariamente privatizzandola perché è vero che c’è una dimensione intimistica e privatistica che è legata ad altre tradizioni cristiane, e non certo a quella cattolica, ma vi sono dimensioni di cerchie sociali che non sono politico-istituzionali. Ritengo che chi ha formazione, fede, convincimento religioso cattolico possa trovare in quell’ambito motivazioni per lealtà verso opzioni politiche.

Stiamo passando da identità ascrittive, se vogliamo dirlo in modo un po’ sofisticato, a un aumento del carattere elettivo dell’identità, stiamo passando dall’appartenenza alla scelta, e credo che questo sia, con tutte le difficoltà inevitabili di questi passaggi, un segnale positivo e da ciò probabilmente può venire, non dico necessariamente, un arricchimento non della politica, ma della società italiana. Un terreno di coltura migliore per selezionare, premiare, sanzionare politici che si candidano a governare il paese anormale.

 

D’Agostini: Tenendo conto delle cose dette finora, vi chiederei un approfondimento sul modo in cui si configura l’operazione politica centrata sulla figura di Prodi. Si teme che ci si possa trovare di fronte a una scelta contingente, ad una alleanza puramente elettorale ma ci sono le premesse per la nascita di una nuova cultura politica? Ricordavo la frase detta da Prodi al Congresso del PDS: un riferimento ai valori della Costituzione che sembra alludere proprio all’individuazione di un comune punto di partenza per interlocutori che hanno avuto finora storie e culture diverse. E credo non sia estraneo a questo quadro il ruolo del sindacato. Dico questo con qualche dubbio perché in realtà abbiamo avuto dei referendum che hanno penalizzato il sindacato come soggetto politico; ci sono critiche anche sul fatto che il sindacato in questi anni ha giocato un ruolo sostitutivo rispetto ai partiti pagando prezzi altissimi.

Chi segue un po’ più da vicino il sindacato vede che se ci troviamo di fronte a una operazione politica di breve termine c’è il rischio come in realtà sta avvenendo che anche il sindacato rientri in un gioco politico-elettorale e che lo stesso processo di unificazione del sindacalismo confederale sia logorato da una parte per la mancanza di una prospettiva politico-istituzionale stabile e dall’altra dalle critiche per il ruolo sinora svolto.

 

Balboni: Partirei proprio dalla frase di Prodi che hai ricordato. Il centrosinistra bisognerebbe dargli un altro nome: “Polo della Solidarietà”, non bellissimo, ma individuerebbe almeno una scelta di campo e di valori è erede della Resistenza e del progetto costituzionale, dice Prodi, in quanto assume i valori che allora emersero in un modo tanto nitido.

A questo proposito vorrei dire qualche cosa di più preciso richiamando il dibattito di allora, attualizzato, oggi dalle interpretazioni di Dossetti. Arrivo a dire che questo può essere il tempo nel quale riusciremo a realizzare la parte prima della Costituzione.

È stato un grandissimo merito di Dossetti l’avere ricordato il fatto che la Costituzione sarebbe stata diversa se non ci fosse stata la Resistenza, l’ingombro di dolore, di sofferenza e di speranza che ha cementato poi il popolo italiano, e formato i suoi migliori rappresentanti.

Una classe politica eccellente, tuttavia coloro che pure avevano vinto insieme, scritto insieme le regole, la parte prima improntata ai valori, i diritti ed i doveri dei cittadini, e la seconda impostata sulla centralità del Parlamento, avevano operato sotto il velo dell’ignoranza su chi sarebbe stato vincitore alle elezioni politiche che si sapeva imminenti e che si tennero il 18 aprile del ‘48.

La vittoria del centro, di De Gasperi, portò alla scelta intelligente per la democrazia, per l’Europa, per l’Occidente tuttavia portò anche a un congelamento di diversi istituti della Costituzione, specialmente della parte prima. Allora dico che se avremo una situazione di chiarezza, un sistema maggioritario con due poli, quello del liberismo e quello della solidarietà contrapposti l’uno all’altro, se il secondo prevarrà, sarà possibile far emergere anche la parte prima della Costituzione, perché ci sarebbe solo da far rispettare quanto è già scritto nell’articolo 1. Penso anche all’articolo 2, al valore fondamentale dell’apporto del cattolicesimo democratico di Mounier, Maritain, del personalismo comunitario. Il dovere inderogabile di solidarietà economica, sociale e civile, deve trovare finalmente un momento di espansione e sono tutti valori coniugabili meglio con una vittoria del Polo della solidarietà piuttosto che dell’altro.

Penso alla parte che riguarda l’eguaglianza secondo la quale la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che impedendo di fatto l’eguaglianza dei cittadini non consentono il pieno sviluppo della persona umana. L’articolo 3, ispirato a una cultura tipicamente cattolico-sociale, indica un compito inesauribile della Repubblica, e non a caso si usa la parola Repubblica e non Stato.

E poi il principio lavorista, il principio autonomista e pluralista. E principi fondamentali dell’essere contemporaneo a cominciare da quello internazionalista a favore della pace; fondamentali rispetto al fatto che non viviamo come monadi in una società occidentale fortunata e non possiamo nemmeno stare, lo diceva Antoniazzi, con gli occhi chiusi di fronte a problemi che incombono su di noi.

In questo senso la Chiesa ha rispettato il suo ruolo, specialmente dal Concilio in poi; ha fatto molto bene Paolo VI, come intellettuale, con la Populorum progressio a richiamare l’attenzione del mondo sul fatto che la Chiesa esiste sulla terra per essere la protettrice degli ultimi. E questo papato ha dato il contributo della testimonianza diretta verso coloro che erano privati della libertà, contro il comunismo sovietico. E più che la sconfitta del comunismo c’è stata una vittoria dell’umanità per queste popolazioni acquisite a un destino di libertà. Questo è stato il contributo che la Chiesa ha saputo dare.

Ecco perché dico che Prodi ha possibilità di trasformare questi valori in dati concreti: può essere, se vince, il primo a darci finalmente una Costituzione realizzata. E non è significativo che della Costituzione si ritorna a parlare nel momento in cui la si mette in discussione per il grido di dolore utilissimo e potentissimo di Dossetti?

 

Cominelli: Sentivo che Don Grampa è molto preoccupato di questa diaspora ma vorrei fare, magari comodamente dall’esterno, l’elogio della diaspora. Può non piacere ma se guardiamo le leadership dei partiti socialdemocratici o socialisti in Europa, da Delors, a Rocard, a Kinnock, a Johannes Rau, vengono tutti dal cristianesimo militante, quindi da questa diaspora che può finalmente favorire il rinnovamento anche di culture politiche che a loro volta sono abbastanza estenuate.

Trovo che Prodi ha due facce, una appare come l’effetto del lavoro politico per le alleanze con i diversi soggetti, partiti, partitini e così via, l’altra si vede quando si va nelle assemblee, nei teatri, nelle esperienze di massa e si avverte che c’è quella che Antoniazzi ha definito «una sorta di antropologia diffusa» che in effetti attinge i suoi valori alla Costituzione. C’è un sentire comune che si potrebbe chiamare liberalismo democratico, in cui si mescola socialismo, solidarismo, sturzismo, popolarismo e così via.

Per quanto riguarda il sindacato mi pare che l’esito del referendum si traduca in una caduta della percezione del sindacato come soggetto politico. Cioè viene fuori che il sindacato è importante ma deve essere confinato nel suo ruolo: si occupi dei suoi iscritti, ma, per favore, non di me che sono fuori, che sono giovane, che non sono iscritto al sindacato.

Quello che dico è che queste critiche, le riforme istituzionali che alcuni vorrebbero, possono portare a una ricollocazione del sindacato nel senso di perdita di soggettività politica. Probabilmente questo favorirà l’unità sindacale, però credo che, considerata la storia del sindacato in Italia, favorirà anche una notevole frammentazione o il consolidarsi di sindacatini, perché temo che il modello tedesco o inglese da noi non funzioni perché siamo dentro un’altra storia e un altro sistema politico-istituzionale, rispetto a paesi dove addirittura i sindacati hanno formato i partiti.

 

Terzi: Ripeto che non sono convinto che siamo alla fine del cattolicesimo politico. È la fine di un certo modello di organizzazione delle forze cattoliche che sul piano politico si realizzava attraverso quello strano animale che era la Democrazia cristiana e che sta cercando nuove forme e non le ha ancora trovate. Sicuramente non ci potrà più essere un unico contenitore, una certa diaspora era inevitabile, però non mi pare sia scontato che alla fine di questo processo non ci sarà nulla, ci saranno soltanto dei comportamenti puramente individuali.

Credo che questo non avverrà perché c’è una storia che non si dilapida così facilmente e credo anche che non sia auspicabile perché ciò che ha caratterizzato fin qui tutta la storia del movimento cattolico è il rapporto tra fede e politica in una concezione non intimistica, una fede che ha delle conseguenze sul comportamento, sull’agire sociale, ebbene, questo è importante che resti.

Un mondo in cui nessuno più si domanda quali sono gli effetti delle proprie azioni e in cui esistono soltanto morali private a me piacerebbe poco. Siamo in una fase in cui è difficile dare risposte precise, però credo che un ruolo del cattolicesimo politico, in forme nuove, sia un elemento della costruzione di un nuovo edificio politico per l’Italia.

L’alleanza che si sta mettendo insieme, partita con la leadership di Prodi, è un’alleanza che ha ancora bisogno di fare passi avanti, sarebbe sbagliato infatti considerarla soltanto un fatto elettorale: se così fosse, la sconfitta è quasi sicura. Se i cittadini italiani avranno la percezione che il PDS, i popolari e qualcun altro si sono messi assieme, senza avere delle motivazioni comuni profonde, soltanto per fare argine alla destra, si perde.

Servono una base programmatica più definita e motivazioni forti, e qui c’è sicuramente ancora molto da fare. Può darsi che la sinistra non ha fatto fino in fondo i conti con la sua storia, con le ragioni della svolta, non si è ancora data basi culturali nuove, sufficientemente elaborate e motivate nell’incontro con il partito popolare, così come con altri pezzi dello schieramento, penso alla cultura “verde”.

Non basta fare un’alleanza elettorale, bisogna cercare di mettere in luce le ragioni di una politica che dà luogo a un’alleanza, che non durerà all’infinito, ma che si propone quanto meno di durare una o due legislature.

Un punto importante è la politica costituzionale, su cui ha insistito giustamente Balboni: torna ad esserci un ragionamento sulla Costituzione di fronte ai tentativi di smantellamento. È molto importante una linea non di pura difesa ma di innovazione dinamica della Costituzione nei punti in cui è necessario fare degli aggiornamenti.

È decisivo che ci siano forze che hanno un’idea comune della politica costituzionale. Se guardiamo allo schieramento di centrosinistra non c’è sempre una piena sintonia, c’è con alcune aree mentre sento più estranea una posizione come quella di Segni che ha in mente un’altra cosa: il presidenzialismo, l’uninominale all’inglese e cose di questo genere.

Così anche su altri temi bisogna far venire avanti le basi comuni dell’alleanza; si parla ormai troppo poco in Italia di politica internazionale, del ruolo dell’Italia in Europa, del tipo di prospettiva che ha l’Europa, del grande nodo del rapporto Europa, Terzo mondo e politiche sociali. Sul sindacato darei una lettura diversa: è abbastanza assurdo che alcune materie siano state affidate al referendum, ma in realtà in quel voto non c’è il senso di una caduta del ruolo politico del sindacato, semmai c’è una preoccupazione per un eccesso di ruolo politico.

L’accordo sulle pensioni ha creato due contraccolpi: uno a destra da parte di coloro che dicono, appunto: «Perché il sindacato? Ci sono i partiti, c’è il Parlamento, il sindacato che titoli ha per occuparsi di politica economica?»; un secondo contraccolpo è interno, viene da aree anche vaste di lavoratori che non hanno condiviso del tutto la conclusione di questa trattativa, quelli che hanno manifestato il loro voto negativo nella consultazione sindacale sull’accordo per le pensioni.

In questa tenaglia di contraccolpi a destra e a sinistra il sindacato ha pagato un prezzo. Ma da questo non ricavo che siamo a una crisi storica, c’è un ruolo politico che il sindacato deve saper svolgere con intelligenza, sapendo che c’è un problema di verifica democratica nel rapporto con i lavoratori, che bisogna anche stare attenti a non sconfinare. E non credo che abbia sconfinato.

Certo, in una fase di vuoto politico, di carenza di capacità di direzione da parte dei partiti, il sindacato ha in qualche modo svolto un ruolo di supplenza, e qui – appunto – c’è da sperare che si ricostituisca una classe dirigente, una professionalità politica, altrimenti il sindacato è sovraccaricato di domande, di compiti che difficilmente da solo riesce a portare sulle spalle.

Insisto sulla necessità di porre con urgenza l’obiettivo dell’unità sindacale. Se il processo che si avvia con Prodi non è tattico, elettoralistico, ma corrisponde a motivazioni comuni forti, vengono davvero meno le ragioni dell’attuale divisione, non si tratta di innescare un processo collaterale per creare il sindacato del centrosinistra o il sindacato amico di Prodi, ma di far avanzare complessivamente un processo di rinnovamento e questo dovrebbe essere un punto su cui anche le forze del centrosinistra si impegnano per creare tutte le condizioni politiche perché si arrivi presto a costruire un sindacato unitario.

 

Antoniazzi: Per quanto riguarda Prodi credo che sia fondamentale mettere insieme questa banda così differenziata, al di là dei programmi e anche dell’alleanza politica, infatti in questi Comitati Prodi metà della gente non è di nessun partito, ma vede che c’è una battaglia che vale la pena di combattere.

A me non dispiace la parola centrosinistra, ma la scriverei tutta attaccata, perché la mia preoccupazione è che si stiano riformando un centro e una sinistra che poi si alleano e quindi un centro e una sinistra che poi non hanno bisogno di modificarsi, e allora avremo la sinistra di sempre ed il centro di sempre.

Il rischio è che il partito popolare, Segni ecc., si collochino di qua, adesso, ma che poi la loro funzione sia sostanzialmente sempre quella di ripetere quello che facevano prima, anche se evidentemente in condizioni nuove. Personalmente penso a una cosa diversa: creiamo un substrato che abbia una prospettiva differente. E Prodi mi sembra che in questo sia sempre stato uno stimolo. Ritengo molto importante quello che veniva chiamato l’“idem sentire”, e un po’ in polemica con quanto scriveva Bobbio su destra e sinistra, per cui secondo lui la differenza è nel modo d’intendere libertà e eguaglianza, vedo nell’area della sinistra proprio questo interesse che in termini cattolici chiamerei “bene comune” e in termini più laici “preoccuparsi di tutti” o come dicevamo una volta “interesse generale”.

È chiaro che la libertà la sostengono coloro che i mezzi li hanno e quindi sono in grado di fare da soli. Lavoro ogni giorno con migliaia e migliaia di persone che da sole, poverette, non sanno neanche dove andare. Questa preoccupazione, secondo me, è stata della sinistra e dell’ambito cattolico. Detto in termini diversi, per me è molto più importante la fratellanza, non in senso retorico, ma come preoccupazione della condizione comune, della convivenza civile, della vita di tutti, della vita delle nostre città.

Veca parlava della dimensione etica e della grande difficoltà del papa, ma è una grande difficoltà nostra, il problema è che noi avevamo un modo di sentire fondato sulla realtà della classe operaia e che nelle società ricche trovare un’etica sociale forte è difficile.

C’è una corrente di pensiero che viene dall’America, che qui viene tradotta “capitalismo cristiano” o “liberismo cristiano”, secondo la quale il capitalismo è, malgrado i difetti, la realtà più vicina al cristianesimo; nello spirito della enciclica Centesimus annus, dicono, ormai fra dottrina sociale della Chiesa e capitalismo non ci sarebbero più contraddizioni; ritengono insomma che il capitalismo, evidentemente sempre perfettibile, realizzi il regno della libertà, la migliore difesa della persona e tutto il resto.

Il problema è che queste idee sono molto diffuse perché la gente prende come naturale la situazione esistente, il suo modo di vita, i consumi, il modo con cui lavora in azienda, le regole del lavoro, queste sono la vita di ogni giorno che si dà per scontata.

Non solo il papa, ma secondo me anche la sinistra o il centrosinistra si trovano a lavorare in salita. L’altro giorno ho comperato un libro, una lunga intervista a Delors, l’ho sfogliato, e ho visto la frase in cui gli si chiede: «quale è lo scopo della tua vita?»; lui risponde: «Sono un contestatore dell’ordine stabilito». Se lo dice Delors… L’insoddisfazione rispetto a questa situazione è tentare di cambiarla: questo mi sembra l’obiettivo mentre l’altra parte tende a dire che questo è il migliore dei mondi possibili.

Qui vedo anche il problema del sindacato che è lo stesso problema della società e della politica, non un altro, cioè riuscire a creare una condizione diversa, un modo di sentire su cui possiamo basarci per cercare di orientare il cambiamento di questa società. Non sarà più un programma rivoluzionario ma almeno la definizione dei punti fondamentali comuni, una comune idea di convivenza civile.

Il problema vero con cui dovremmo tentare di combattere oggi è anche del sindacato, perché se non c’è più dietro la forza della classe operaia di una volta, qual è l’etica sociale di riferimento? Il rischio è tornare a fare pura contrattazione in un mondo in cui, poi, gli spazi di contrattazione sono molto minori del passato.

La vera difficoltà è alla base, cioè quale motivazione ha il delegato dal punto di vista che chiamiamo ancora “antropologico”. Questo il vero problema: quale è la spinta, la dimensione e la realtà di un sindacato legato alla società di oggi. Sono d’accordo con Terzi, non si tratta di fare il sindacato di centrosinistra. Se si fa l’unità sindacale, e lo spero, e se il sindacato entrasse veramente in gioco su queste problematiche e cercasse anche lui di ricostruire un’etica sociale, partendo dalla gente, darebbe un contributo enorme, secondo me, alle prospettive politiche, alle prospettive della società.

Viceversa, se non vanno avanti queste prospettive nel paese, che cosa fa il sindacato? Non ha più nessun riferimento, chiederà un po’ più per i piloti, farà in qualche caso magari contratti migliori di una volta, ma con quale futuro?

 

D’Agostini: Rispetto alle cose dette ci sono scelte da fare imposte dai tempi della politica. Se, come sembra, tra pochi mesi si va alle urne il mondo cattolico, la Chiesa, si troverà a dover scegliere.

 

Don Grampa: E speriamo che scelga! Di nuovo contro la diaspora: è una maniera egregia per non scegliere, per dire che tutte le soluzioni sono buone e in qualche modo accettabili. Credo che qualche discriminante ci debba essere, pena l’irrilevanza della fede stessa nella storia; se tutte le soluzioni sono ugualmente accettabili, vuoi dire che la fede è assolutamente irrilevante. Credo, allora, che sarebbe preziosa questa discesa in campo perché porrebbe un’alternativa estremamente significativa che ritengo raccomandabile e che non a caso riprenderebbe un’esperienza che almeno in altri tempi è già stata tentata.

Più volte si è ricordata la Costituzione, non bisogna dimenticare che è stata anche il frutto di un dialogo di alto profilo tra la componente cattolica e le componenti socialista e comunista. La Carta costituzionale porta al proprio interno i segni di questa tradizione di alto livello: il valore della persona e, insieme, delle formazioni sociali nelle quali la persona si realizza.

Negli anni 60 il mondo cattolico ha conosciuto una stagione intensa, con molte ingenuità forse, ma anche con un tentativo di dialogo che nasceva dalla persuasione che la fede senza una strumentazione politica non potesse camminare ma che viceversa le scelte politiche non potevano non avere dei riferimenti.

Prima si ricordava che una società che incrementa i suoi mezzi, ma manca di fini, è letteralmente disorientata o malamente orientata. Credo che questa discesa in campo possa offrire al cattolicesimo politico una possibilità significativa, e permettere appunto la saldatura di queste istanze, quella politica e quella etica che non possono non dialogare reciprocamente.

 

Veca: È vero quello che diceva Balboni, ed è stato richiamato adesso da don Grampa, sappiamo che la Carta costituzionale è il frutto di un’intersezione fra tre grandi tradizioni, perché c’era quella liberale quella cattolica e quella, in senso lato, marxista. È vero che è stata fatta sotto un velo di ignoranza, come diceva Balboni, vero però che era un velo di ignoranza particolare: c’era un altissimo livello – è stato richiamato da tutti ed è una cosa su cui rifletterei attentamente -, c’erano queste tre grandi tradizioni culturali, la questione della Resistenza, le lotte di liberazione, però c’era anche una straordinaria, reciproca, diffidenza.

Nella carta costituzionale, non tanto nella prima parte, ma nella seconda, si vede benissimo l’estrema enfasi su tutti i sistemi di controllo reciproco, che ovviamente si spiegava per due motivi. Il primo per l’esperienza passata, perché poi tutti questi gruppi dirigenti quando si erano formati? Si erano formati durante il fascismo – anche per questo bisognerebbe riflettere sull’alto livello di questa tradizione – e questo era uno dei motivi della sfiducia mutua. L’altro motivo era nei confronti del futuro perché, come diceva Balboni, non si sapeva chi avrebbe vinto, quindi il sistema era tale per cui chiunque vincesse nessuno, in realtà, avrebbe vinto. Questo ha consentito alle forze politiche, a quelle classi dirigenti di alto livello, al paese di stare assieme.

È chiaro che la lealtà nei confronti della Costituzione, dei suoi valori, quello che potremmo chiamare patriottismo costituzionale, non può essere indifferente alla revisione di molte parti, e naturalmente la difficoltà sta nel fatto che c’è una coerenza, e quando si dice che si deve modificare la parte seconda non bisogna dimenticare che ovviamente c’è una coerenza di disegno costituzionale perché alcuni dei principi della prima parte richiedono applicazione sulla seconda. Chi come me ritiene che non si tratti di fare un’altra Costituzione, ma di procedere alla riforma di alcuni pezzi dell’edificio in modo coerente con la parie dei principi, pensa anche che questo potrebbe essere un modo per la coalizione di centrosinistra, di individuare nella competizione elettorale gli elementi di quella che chiamo la condivisione politica.

Che non si riduca tutto a un accordo tattico, perché quella è la via migliore per perdere. Probabilmente qui bisognerebbe fare molto. L’unica cosa che segnalo, diciamo la verità, è che non abbiamo elaborato granché. Il PDS ha avuto altro da fare. Ci sono stati problemi, non sto facendo critiche, sto solo accertando i fatti: non c’è elaborazione. Qui bisognerebbe cercare di dare dei nomi a ciò che accomuna. Quando parlavo della solitudine e in fondo anche quando Delors si impegna nello spazio sociale europeo, qual è l’idea? Esattamente che siamo sulla stessa barca. Delors si riferisce alla cittadinanza europea: se a te accade di nascere in Portogallo o in Germania, nel Regno Unito, in Italia ecc., ebbene, in quanto concittadino o concittadina europea siamo sulla stessa barca, ci dobbiamo tutti reciprocamente qualcosa.

È l’idea della condivisione, di qualcosa che ciascuno deve a qualcun altro. Questa è un’idea molto semplice e naturalmente incontra grandi difficoltà perché non può riferirsi a esperienze condivise o a fraternità di classe né di ceto né di posizione sociale, questa è la difficoltà di cui parlava Antoniazzi, questa volta non con la politica, ma con la cultura politica, ed è su questo che bisognerebbe vedere chiaro. Qual è la cultura di coloro con cui noi competiamo? Dicono che non siamo sulla stessa barca, perché in realtà il paese può andare avanti soltanto se ciascuno marcia per se stesso. Se poi qualcuno cade, ebbene, ragazzi miei, nessun pasto è gratis! Questa è una visione che lavora sugli spiriti animali, come usava dire il vecchio Keynes, quindi non va sottovalutata, e a questa va contrapposta l’idea che hanno usato in campagna elettorale i democratici americani, dicendo: «Tu stai benissimo, ma anche a te potrebbe andare male. Vedi tutti questi a cui andata male? C’è una qualche responsabilità di tutti noi, potresti essere uno di loro, e i tuoi figli potrebbero non essere certi di avere il livello di benessere che hai tu». Questa è la percezione della sorte condivisa. Mi sembra un punto importante: condividere i rischi. La politica non salva le anime ma è quell’insieme di provvedimenti, di azioni, di scelte collettive che può consentire di vivere meglio.

Il problema del sindacato. Sono d’accordo, il sindacato è stato nell’ultima fase, non solo quella dell’accordo sulle pensioni di quest’anno, ma a partire almeno dal primo governo di questa strana fase, cioè dal governo Amato, è stato l’unico attore collettivo rimasto sulla scena mentre gli attori della rappresentanza politica collassavano in vari modi.

È naturale, allora, che il sindacato abbia esercitato una supplenza, è naturale però costa. Si potrebbe pensare che la caduta delle ragioni di lunga durata potrebbero disincentivare invece che incentivare il processo per un sindacato unitario. Mi sembra ci siano segnali di difficoltà. Ma sono di quelli che pensano che qui c’è un problema di auspicabilità. C’è una grande incertezza su che cosa vuol dire azione politica, che cosa motiva chi decide di agire in politica, ma c’è anche un problema, lo accennava Antoniazzi, di agire sindacale. C’è un problema che secondo me riguarda le motivazioni di quella professione. Essendo un grande fanatico del carattere professionale dell’agire in società che abbiano superato certe soglie, credo ci sia il problema di partile dalle ragioni dell’azione sindacale, perché allora forse il problema della supplenza, dello sconfinamento diventa l’uso di ragioni non pertinenti all’agire sindacale, quello che vede sconfinare e utilizzare arene non appropriate al sindacato.

Si è detto: non facciamo il sindacato della coalizione di centrosinistra, certo, una coalizione che si muove nel senso che abbiamo auspicato non può dire: il sindacato deve fare l’unità sindacale ma può porre il problema della responsabilità del sindacato di lavorare al progetto unitario.



Numero progressivo: C46
Busta: 3
Estremi cronologici: 1995, 27 novembre
Autore: Dibattito
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Interviste/Dibattiti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Nuova Rassegna Sindacale”, n. 42, 27 novembre 1995, pp. II-XII