I REFERENDUM RADICALI: PERCHÉ NO
di Riccardo Terzi
Come era del tutto prevedibile, dopo il successo elettorale della lista Bonino alle elezioni europee, riparte in grande stile la strategia referendaria, con una raffica di venti referendum: mercato del lavoro, sanità, giustizia, pensioni, sindacato, legge elettorale. Un vero e proprio programma di governo. Il duo acrobatico Pannella-Bonino dà spettacolo con numeri di equilibrismo sempre più spericolati. E il pubblico, un po’ sconcertato e disorientato, un po’ affascinato dai miraggi demagogici di un’abile campagna propagandistica, rischia di cadere vittima di una delle più grossolane mistificazioni. Il lavoro del giocoliere consiste nell’abilità di far apparire ciò che non è. Se il trucco viene svelato, crolla tutta la rappresentazione. Ora, si tratta appunto di smascherare i trucchi del famoso duo acrobatico e di mettere i cittadini nella condizione di valutare, senza lenti deformanti, qual è la vera posta in gioco; di vedere, dietro le apparenze fumogene, qual è la sostanza reale. Tutta la propaganda radicale si regge su un messaggio di ambiguità, su una particolare miscela ambivalente: denuncia di “sinistra” di tutto ciò che non funziona nell’organizzazione sociale e nell’amministrazione pubblica, e piena accettazione di tutte le ricette politiche proposte dalla destra neo-liberista. Una fraseologia di sinistra al servizio di una politica di destra. Non è un fenomeno nuovo nella storia. Ma in tutte queste operazioni c’è sempre un effetto di disorientamento e di manipolazione che non è facile da smontare. E la sinistra ha spesso subito queste manovre di aggiramento senza reagire con la necessaria durezza. Ancora oggi, i radicali godono a sinistra di un credito del tutto immeritato. È ora il momento di chiudere i conti e di prendere posizione, con tutta la chiarezza necessaria.
Lo strumento del referendum è stato, in tutti questi anni, il punto di forza della politica radicale, ed è stato usato con estrema spregiudicatezza, forzandone il significato costituzionale e contrapponendo la democrazia referendaria alla democrazia parlamentare.
Secondo la nostra Costituzione, il referendum è uno strumento integrativo, non sostitutivo del ruolo centrale del Parlamento. Quando si determini un possibile divario tra le istituzioni e l’opinione pubblica può essere utile una verifica democratica affidando direttamente ai cittadini la decisione ultima su una determinata questione, che abbia rilevanza generale. Così è stato, in effetti, in una prima fase, con le consultazioni popolari sul divorzio, sull’aborto, su grandi quesiti civili non riconducibili agli schieramenti di partito.
Poi è subentrata, su iniziativa dei radicali, una fase del tutto diversa, nella quale il referendum diveniva uno strumento di delegittimazione e di scardinamento del sistema politico, con continue richieste abrogative, sui più svariati argomenti. A questo punto l’istituto referendario, messo al servizio di una strategia politica, è divenuto come una variabile impazzita, una continua mina vagante, e ha fatto saltare il delicato equilibrio costituzionale, immettendo nel nostro ordinamento una spinta di tipo plebiscitario, contro la democrazia rappresentativa e contro il sistema dei partiti.
È evidente che, a questo punto, questo importante istituto di democrazia diretta deve essere più rigorosamente disciplinato. Numero delle firme richieste, criteri più selettivi di ammissibilità dei quesiti, rifiuto dei referendum manipolativi, fissazione di una soglia numerica che consenta di scegliere con più oculatezza le questioni che sono davvero rilevanti. Già si sono avanzate diverse proposte di razionalizzazione dell’istituto, ma sono mancate finora nel Parlamento le condizioni politiche per una decisione in proposito.
Le forze politiche hanno subito il ricatto demagogico del partito referendario e si sono arrese, temendo di apparire impopolari. Vi sono stati alcuni casi emblematici come, per esempio, nell’ultimo referendum sulla legge elettorale, per il quale si erano schierati a favore quasi tutti i gruppi parlamentari. Ma allora, se c’era questo largo accordo politico, perché non approvare una nuova legge nel Parlamentò? Perché un referendum, se c’è una maggioranza politica che ha il potere di decidere? Evidentemente per alcuni il referendum non è più solo un mezzo, da usare in casi di necessità, ma è il fine, è l’espressione di una democrazia diretta che va comunque privilegiata rispetto alla democrazia rappresentativa. Se il Parlamento vuole intervenire, insorgono i Pannella, i Segni, i Di Pietro, per denunciare lo scippo della volontà popolare, della sovranità dei cittadini; e i partiti allora, spaventati, battono in ritirata.
Da troppo tempo continua questo gioco. E la democrazia si inceppa, perché piccoli gruppi organizzati possono decidere unilateralmente l’agenda politica, e possono determinare una situazione permanente di instabilità. Lo stesso istituto del referendum, sottoposto a queste dosi massicce e a questo uso strumentale, sta perdendo di consenso e di credibilità.
Se guardiamo alla nostra recente storia politica, possiamo distinguere tre fasi. Nella prima le richieste di abrogazione sono state tutte respinte, confermando quindi un grado assai elevato di sintonia tra Parlamento e popolo. Nella seconda fase, la tendenza si è ribaltata e quasi tutti i referendum sono stati accolti, perché era cambiato profondamente l’umore dell’opinione pubblica ed era subentrato un atteggiamento di sfiducia verso i partiti. Infine, pare essere iniziata la fase· dei quorum mancati. Prevale ormai la stanchezza, il fastidio per un sistema politico che scarica sistematicamente sui cittadini le sue responsabilità, incapace di decidere, di scegliere, di far funzionare le istituzioni. Per salvare il referendum come strumento democratico, occorre impedirne l’abuso e restituirlo alla sua originaria funzione costituzionale.
Ma, per ora, sembra continuare il gioco al massacro. I radicali guidano la danza, e gli altri partiti si adeguano. Già è ripartita, ancora una volta con il consenso di quasi tutti, a destra e a sinistra, la campagna contro la famigerata quota proporzionale, nonostante l’esplicito divieto di legge di riproporre una richiesta di abrogazione per almeno cinque anni dopo un eventuale responso negativo. Perseverare diabolicum est.
La strategia referendaria è quindi funzionale a un obiettivo politico e istituzionale assai preciso: delegittimare gli organismi della democrazia rappresentativa, a partire dal Parlamento, e indebolire tutto il sistema delle rappresentanze, politiche e sociali, per aprire la strada a una democrazia di tipo plebiscitario. In questa logica, i partiti politici e le organizzazioni sindacali sono i bersagli naturali. Di qui l’ossessiva campagna contro la partitocrazia e contro le grandi organizzazioni sociali.
Da questo punto di vista, siamo nella più classica tradizione del liberalismo di destra, ostile a qualsiasi forma collettiva di organizzazione degli interessi, per poter far funzionare il merca~ to senza nessun elemento di disturbo, senza nessun contrappeso. Ci sono solo gli individui singoli, e il mercato regola le loro relazioni. La campagna contro i partiti politici è un classico della destra. Senza i partiti, il capitalismo si può sviluppare nella sua pienezza, senza dover rendere conto a nessuno.
Nel passaggio alla cosiddetta democrazia maggioritaria, nella quale non conta più il progetto politico, ma conta solo la persona vincente, il leader di successo, c’è il tentativo di neutralizzare la politica, di addomesticarla, di segnare quindi definitivamente il passaggio dal primato della politica al primato dell’economia. Ormai non si tratta più di decidere dei programmi politici, ma solo di scegliere chi può fare, con più efficienza e professionalità, ciò che è necessario fare. La democrazia non riguarda più il che cosa fare, ma solo il chi lo fa. La politica, come possibile apertura a una alternativa, a un diverso ordine, è messa fuori gioco.
Per ottenere questo risultato, è necessario smantellare le identità collettive e avere solo individui isolati, impotenti nel loro isolamento. Occorre liquidare i partiti politici. Il referendum sulla legge elettorale, per l’abrogazione totale della quota proporzionale, non è quindi solo un fatto tecnico, neutro nel suo significato politico. È la risposta della destra alla crisi della democrazia italiana. La crisi si risolve sacrificando la rappresentanza politica. Nella dialettica tra rappresentanza e decisione, tra pluralismo politico e governo, si decide di rompere il delicato equilibrio tra questi due aspetti, puntando solo sulle ragioni della governabilità. Chi vince decide. È un processo di concentrazione e di verticalizzazione del potere, a cui corrisponde nelle stesse compagini politiche la delega al leader di tutti i poteri decisionali. Tutto il resto non conta, è solo massa di manovra.
Ora, se i partiti sono solo agenzie elettorali, è del tutto logico rimettere in discussione gli attuali meccanismi del finanziamento pubblico. Se la politica è il mercato delle candidature, trovi sul mercato i finanziatori e gli sponsor.
I termini del problema erano già chiari agli inizi del nostro secolo. Scriveva Hans Kelsen negli anni ‘20: «È chiaro che l’individuo isolato non ha, politicamente, alcuna esistenza reale, non potendo esercitare un reale influsso sulla formazione della volontà dello Stato. La democrazia può quindi esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche, allo scopo di indirizzare la volontà generale verso i loro fini politici, cosicché, fra l’individuo e lo Stato, si inseriscono quelle formazioni collettive che, come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei singoli individui. Solo l’illusione o la ipocrisia può credere che la democrazia sia possibile senza partiti politici.»
Kelsen era il massimo teorico della democrazia liberale. Ma ora, chi sostenga queste medesime posizioni passa per un comunista conservatore. È quindi in gioco qualcosa di sostanziale, che riguarda la natura e le prospettive della nostra democrazia.
Su questa medesima linea si colloca l’attacco alle organizzazioni sindacali, con i referendum che riguardano il ruolo dei patronati e le trattenute dell’INPS a favore delle associazioni sindacali dei pensionati. Il sindacato, come il partito politico, è un ostacolo da abbattere. È parte integrante della partitocrazia, in quanto ha conquistato, attraverso le procedure della concertazione, un potere forte di condizionamento degli indirizzi politici nazionali. Nella propaganda radicale l’obiettivo di ridimensionamento del potere sindacale è posto esplicitamente, in quanto i sindacati confederali (la «Trimurti CGIL, CISL, UIL»), per la loro forza organizzativa, hanno il potere di «condizionare in modo assolutamente intollerabile la vita politica e sociale del paese».
È meglio tornare all’800, quando i lavoratori e le loro organizzazioni non avevano nessun peso politico. Sia sul piano politico, sia sul piano sociale, gli obiettivi dei referendum sono esplicitamente di destra, a sostegno di un’economia di mercato che non sia in nessun modo condizionata dalla forza degli attori collettivi.
Il senso politico di tutta l’operazione referendaria è ancora più chiaro quando si tratta dei diritti individuali dei lavoratori. Il “programma di governo” del duo Pannella-Bonino è il programma dell’ala oltranzista della Confindustria: libertà di licenziamento, abbattimento di tutte le barriere giuridiche che impediscono un uso discrezionale della forza-lavoro, liberalizzazione totale del mercato del lavoro. La premessa “ideologica” è quella su cui da tempo insistono i teorici del liberismo: meno diritti, meno vincoli, più flessibilità, come condizione per una nuova fase di sviluppo. Dove queste ricette sono state applicate, c’è una spaventosa precarizzazione del lavoro, uno sviluppo abnorme delle condizioni di marginalità sociale, una società, quindi, con nuove dirompenti disuguaglianze e tensioni sociali.
Ora, con la nuova campagna referendaria, viene finalmente alla luce il nucleo teorico fondamentale della politica dei radicali in Italia. La libertà, secondo questa concezione, è l’assenza di regole, è il libero gioco della competitività individuale e sociale, senza interventi esterni, di carattere politico, che possano condizionare le regole oggettive del mercato.
La politica, nel momento in cui fissa regole, diritti, valori, è una limitazione inaccettabile della libertà. Si tratta di un totale rovesciamento dei principi costituzionali, secondo i quali la libera attività economica deve essere compatibile con l’interesse generale e con i diritti fondamentali della persona. La libertà, in questo contesto, è il calcolo individualistico che si afferma in quanto tale. È il rifiuto della dimensione etica, la quale comporta il rapporto con l’altro e la valutazione responsabile degli effetti sociali delle proprie decisioni.
Se guardiamo retrospettivamente alle battaglie di libertà combattute dal Partito radicale, possiamo forse oggi vederle in una luce diversa, non come la ricerca di un’etica più aperta e tollerante, ma come il rifiuto di confrontarsi con le domande etiche, nel nome di un individualismo senza principi. Ora, nelle condizioni attuali, questa concezione della libertà non è altro che l’espressione della logica capitalistica. Non c’è nulla di progressivo. Siamo liberi di essere ciò che siamo, come individui prigionieri di un meccanismo che non possiamo né controllare né modificare.
Se la sinistra si è spesso illusa di poter costruire la “società giusta”, il messaggio liberale e libertario dei radicali ci ripropone la vecchia risposta del pessimismo conservatore, secondo il quale il mondo va preso per quello che è e ciascuno deve pensare solo al suo interesse individuale.
In questa ottica, anche l’ordinamento giudiziario appare come una interferenza fastidiosa. Tra i partiti da indebolire e ridimensionare c’è sicuramente il “partito delle procure”. Ed ecco che allora il capitolo giustizia viene affrontato con alcuni referendum che hanno solo lo scopo di limitare e condizionare l’autonomia della magistratura. Sul funzionamento dell’organizzazione giudiziaria ci sarebbe naturalmente molto da dire, e soprattutto da fare. Ma certo non serve un messaggio di sfiducia, il quale viene a combinarsi con la violenta campagna contro la magistratura che si è scatenata dopo la sentenza del processo di Palermo.
Il Partito radicale esprime quindi una piattaforma politica coerentemente conservatrice e di destra. Per battere questa operazione politica occorre una risposta chiara, netta, senza ambiguità. Non sono più possibili giochi tattici e ammiccamenti.
La sinistra, se c’è, deve mobilitare tutte le sue forze.
Busta: 8
Estremi cronologici: 1999, ottobre-dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Quale stato”, n.4, ottobre-dicembre 1999, pp. 299-305