FARE MEMORIA, FARE SINDACATO

Festa di LiberEtà di Salerno, 17 giugno 2011

Relazione di Riccardo Terzi – Segretario nazionale SPI CGIL

Il punto di vista che qui intendo sostenere è che la memoria è un fare. Nei confronti del nostro passato, individuale e collettivo, noi non siamo mai in una condizione di passività, perché quel passato lo dobbiamo selezionare, interpretare, e ricostruire in vista di un progetto. Il passato è una forza attiva che agisce su di noi, ci condiziona e ci determina, e nello stesso tempo siamo noi a decidere le chiavi di lettura con le quali il passato viene interpretato. È in questa operazione complessa che prende forma la nostra identità, la quale non è altro che la linea di connessione che tiene insieme passato e futuro, memoria e progetto, è la coerenza che riusciamo a costruire tra questi diversi piani, riconducendo ad un tutto unitario i diversi frammenti della nostra esperienza.

La memoria è un fattore essenziale dell’identità, ma siamo anche esposti, con l’invecchiamento, al rischio di essere schiacciati dal peso della memoria, di avere lo sguardo indirizzato in modo esclusivo sul passato, di essere così del tutto dominati dai sentimenti di nostalgia, di rimpianto, vedendo il cambiamento storico solo come decadenza, come tramonto dei valori. Quando il passato ci domina e ci impedisce di restare aperti e disponibili a un nuovo progetto di vita, allora davvero siamo entrati nella fase acuta e patologica dell’invecchiamento. Come accade al protagonista di un racconto di Borges, che tutto ricorda, nei minimi dettagli, e nulla dimentica, la vita diviene insostenibile, perché la vita è fatta anche di oblio, di rimozione, e il passato va messo al servizio dei nostri progetti futuri.

L’identità è quindi il risultato di un’operazione complessa, di un equilibrio che è tutto da costruire, e in questo senso appunto parliamo della memoria come di un fare. Se questo fare fallisce, se questo equilibrio non viene costruito, abbiamo allora due opposti esiti entrambi fallimentari, due opposte forme di alienazione, nelle quali si perde l’autonomia della persona. In un primo caso, c’è la figura del nostalgico, che non sa vivere il suo presente, non sa orientarsi nel mondo attuale, perché il suo mondo è tutto proiettato su un passato idealizzato e mitizzato. Ne viene un sentimento rabbioso e inconcludente di rifiuto del presente, di rancore, e quindi di chiusura egocentrica, perché l’apertura all’altro richiede un atteggiamento di fiducia e di disponibilità. Nella letteratura, questa figura del vecchio rancoroso ed egoista è stata più volte rappresentata con efficacia.

Il rovescio di questa tipologia umana è rappresentato dal giovanilista, da colui che finge di essere ciò che non è, e che rincorre, in modo patetico, tutte le mode, tutte le novità, illudendosi che sia sempre possibile un nuovo inizio, che si possa ricominciare daccapo, nell’ebbrezza ingannevole di un’eterna giovinezza. L’esito inevitabile, anche in questo caso, è il fallimento, perché non c’è consapevolezza delle proprie risorse, e ci si affida all’esteriorità, all’apparenza.

Nostalgici e rottamatori, distruttori del futuro e distruttori del passato, sono le due manifestazioni, opposte ma convergenti, di una crisi esistenziale, di un disagio che investe l’uomo contemporaneo, spesso incapace di trovare in se stesso le risorse necessarie per una vita di autonomia e di equilibrio.

Dalla dimensione individuale il discorso può essere esteso a quella collettiva: anche qui dobbiamo saper navigare in modo da evi tare i due scogli del conservatorismo passatista e del nuovismo spregiudicato. Ciò che è essenziale è l’uso critico della memoria, è il come del nostro sguardo sul passato, per coglierlo non solo nella sua necessità, ma nelle sue contraddizioni e nelle sue potenzialità irrisolte. In questo senso, c’è un mito ricorrente di cui dobbiamo saperci liberare: il mito del progresso, che rappresenta la storia come un movimento sempre ascendente, che obbedisce ad un suo ritmo necessario. Se c’è una filosofia della storia, un destino già scritto, non resta allora che lasciarsi trascinare dalla corrente, seguendo una linea di adattamento passivo, nella fiducia acritica che il corso delle cose non possa che produrre infine un miglioramento della condizione umana, un livello più elevato di civiltà. In realtà, la storia non è affatto un movimento rettilineo, ma procede per salti, per rotture, e nei passaggi cruciali siamo posti di fronte ad alternative radicali, e il corso della realtà può imboccare strade diverse e opposte. Il passato non è solo ciò che si è effettivamente verificato, ma è anche l’immenso deposito delle scelte non fatte, delle alternative scartate, dei progetti sconfitti. Non è affatto vero che i se e i ma non trovino spazio nell’analisi e nell’interpretazione storica. Possiamo citare le famose tesi di Walter Benjamin sulla storia: “in ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla. Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince.”

La storia ufficiale la scrivono i vincitori, ma dietro questa ufficialità, con la sua retorica intollerante, c’è il mondo delle potenzialità inespresse, dei progetti abortiti, c’è la storia che poteva accadere e non è accaduta. C’è molto da imparare dalle eresie, da quelle correnti che sono rimaste minoritarie, e spesso stroncate con la violenza, le quali hanno tentato di esplorare altre vie, di mettere in campo delle alternative. A distanza di tempo, gli sconfitti possono riprendersi la loro rivincita, perché le loro ipotesi tornano di attualità, e tutto ciò che sembrava necessario viene rimesso in discussione.

Un grande esempio di questo approccio critico alla storia ce lo ha dato Bruno Trentin, che nel suo libro “La città del lavoro” compie una rivalutazione di quelle correnti minoritarie e sconfitte che, dall’interno del movimento operaio, hanno tentato di teorizzare e di praticare una linea libertaria, centrata sulla liberazione del lavoro, sull’autonomia della persona, e quindi su un rovesciamento dei rapporti di dominio. Si tratta di correnti di pensiero che sono rimaste ai margini, sconfitte dall’ortodossia leninista prevalente, la quale puntava tutto esclusivamente sulla conquista del potere politico, rinviando al dopo, a un dopo solo immaginato ideologicamente e non preparato con l’azione pratica concreta, ogni discorso di liberazione.

Ma oggi – ecco che le eresie tornano attuali – possiamo misurare tutti i guasti e le degenerazioni di questo mito della conquista del potere e del primato della politica.  È possibile una diversa traiettoria? È possibile cioè pensare ad una prospettiva che non si concentra sul potere, ma piuttosto sulla sua limitazione, sull’autonomia dei soggetti e sulla centralità della persona? Questo mi sembra essere oggi il nodo teorico centrale: la costruzione di un modello politico e sociale che mette al centro i diritti, individuali e collettivi, contro ogni forma di arbitrio nell’esercizio del potere.

Ecco che allora “fare memoria”, nel senso qui indicato, vuol dire anche, per il sindacato, costruire criticamente un suo progetto di lavoro, in alternativa rispetto agli schemi ideologici dominanti. L’autonomia dell’azione sindacale non regge se non c’è un’autonomia di pensiero, una interpretazione, una visione delle cose. E il fare del sindacato prende senso solo in quanto si distanzia dal fare della politica, perché esso si regge su un rapporto stretto e diretto di rappresentanza, in una relazione vivente con l’esperienza reale dei lavoratori, con la loro soggettività. Sul sindacato incombe sempre il pericolo di uno slittamento nel politico, di un eccesso di prossimità e di connivenza con la politica, come testimoniano i troppo frequenti passaggi dall’uno all’altro campo, quasi che si tratti di un unico percorso di carriera. Dobbiamo invece puntare su una nuova figura di sindacalista, radicale nell’affermazione dell’autonomia, tutta immersa nella complessità del sociale, nelle sue contraddizioni, nei suoi conflitti. Il lavoro del sindacalista ha la sua esclusiva motivazione nell’autonomia del sociale, e se si perde questo ancoraggio diviene un ingranaggio del sistema di potere. Ed è su questo fondamento dell’autonomia che si può tentare un recupero dell’unità sindacale, contro l’invadenza della politica che tende ad una bipolarizzazione dell’intera società, riducendo anche il sindacato alla contrapposizione tra sindacato di governo e sindacato di opposizione.

La mia convinzione è che la conquista di un effettivo spazio di autonomia del sociale è anche la condizione indispensabile per un rinnovamento della politica. È il lavoro sociale che può spostare gli equilibri, i rapporti di forza, mettendo in movimento nuove potenzialità, nuove risorse. Mentre, se tutto il dibattito politico resta avvitato su se stesso, sul gioco delle alleanze, sulla leadership, sugli assetti istituzionali, diviene inevitabile un allargamento della distanza tra popolo e istituzioni, e può prendere corpo una violenta campagna all’insegna dell’antipolitica.

In questo senso, il sindacato ha un ruolo decisivo. Anche il tema dell’unità nazionale va affrontato così, non con l’inutile retorica celebrativa, ma vedendo quali sono le fratture sociali da ricomporre e da recuperare (nord e sud, cittadini e immigrati, garantiti e precari). È il valore della socialità e della coesione che deve essere riscoperto e affermato, come condizione per un nuovo sviluppo del Paese.



Numero progressivo: D15
Busta: 4
Estremi cronologici: 2011, 17 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione” col titolo “Memoria”, pp. 211-215