FACCIAMO UN COMPROMESSO: MA CHE SIA CHIARO
Intervento di Riccardo Terzi all’interno del dibattito “Democrazia sindacale: che fare?” promosso da “Meta”
Democrazia sindacale: che fare?
Riprende in questo numero la pubblicazione degli interventi nel dibattito aperto sul n. 9/86 di Meta da un articolo di Giorgio Cremaschi e Francesco Garibaldo intitolato «Democrazia sindacale? Facciamo un patto: costituzionale». Dopo gli interventi di Elio Troili, «Dopo la cicala, la formica. Non il ragno», e di Ivan Pedretti, «Quella spinta propulsiva che ancora è viva», apparsi sul n. 10-11/86, adesso il dibattito si allarga oltre i confini della FIOM. Pubblichiamo infatti in queste pagine gli interventi di due sindacalisti, dirigenti, rispettivamente, della CGIL Lombardia e della Federazione dei lavoratori dei servizi CGIL.
FACCIAMO UN COMPROMESSO: MA CHE SIA CHIARO
Riccardo Terzi – Segretario regionale CGIL Lombardia
L’articolo di Cremaschi e di Garibaldo ha avviato, finalmente, una discussione sulle forme di rappresentanza di base del sindacato, prendendo atto, realisticamente, dei mutamenti profondi che sono intervenuti in questi anni e del progressivo offuscamento del ruolo dei Consigli come organi di rappresentanza unitaria. L’analisi mi sembra corretta, puntuale, mentre sono certamente più problematiche le conclusioni.
La crisi attuale dei Consigli discende dal fatto che sono entrate in conflitto le due diverse funzioni che ad essi erano affidate: la funzione di rappresentanza generale e unitaria di tutti i lavoratori, e quella di struttura di base del sindacato. La compresenza di queste due diverse funzioni determinava un’ambiguità nello stesso atto costitutivo dei Consigli; un’ambiguità comunque voluta e consapevole, in quanto si riteneva che questa potenziale contraddizione potesse essere governata e via via superata nel quadro di un progressivo avanzamento del processo di unità sindacale.
La scelta che allora venne compiuta, non senza una difficile battaglia politica nel sindacato e nella sinistra, andava nel senso di tenere aperto e di stimolare un processo ancora fluido, caratterizzato da una forte spinta di partecipazione dal basso. I Consigli divenivano così uno strumento attivo e creativo di rinnovamento del sindacato, di rifondazione, costringendo tutte le strutture e i gruppi dirigenti del sindacato a un nuovo tipo di approccio nel rapporto democratico con i lavoratori. Fu una scelta indubbiamente giusta, che consentì il realizzarsi di una lunga stagione di crescita del movimento, e che diede al processo di unità sindacale radici profonde nei luoghi di lavoro, tali da non poter essere facilmente scalzate.
Ma questo modello non poteva reggere ad una fase prolungata di divisione. Oggi, nonostante un certo miglioramento delle relazioni unitarie, restiamo dentro un quadro che non va oltre l’unità d’azione, e le logiche di organizzazione, con il loro carico di concorrenzialità e di integralismo, sono prevalenti rispetto alle dinamiche unitarie.
Questa è una battuta d’arresto grave, fortemente negativa. Ma essa non va accettata come un approdo inevitabile, né tantomeno, come talora accade, come una sorta di liberazione dagli impacci delle mediazioni unitarie. Va invece contrastata, affrontando da subito il problema strategico di come ricostituire le condizioni necessarie per ridare credibilità ad un progetto di unità sindacale.
Resta in ogni caso aperto il problema di come organizzare il sindacato e le sue forme di rappresentanza in questa fase incerta di transizione. Finora abbiamo cercato di evitare una discussione esplicita, basata su una chiara presa d’atto della conclusione di una fase storica nella quale c’è stato un processo unitario ascendente, oggi interrotto. Continuiamo a parlare dei Consigli secondo un’immagine ormai fittizia, come se nel frattempo non fossero intervenuti quei mutamenti di clima politico che hanno così profondamente modificato le relazioni sindacali. E nei documenti ufficiali leggiamo tuttora una rappresentazione immaginaria, nella quale si finge una realtà che non ha più una corrispondenza concreta nelle situazioni effettive. Il movimento degli autoconvocati del 1984 è stato l’estremo tentativo di far risorgere un modello organizzativo e politico che avrebbe dovuto trarre la sua forza e la sua vitalità da un’intrinseca e spontanea unitarietà degli interessi immediati, di base, dei lavoratori. Non è stato così, e tutta la vicenda del referendum sul taglio della scala mobile, al di là dei diversi giudizi politici che se ne possono dare, dimostra come il mondo del lavoro non sia oggi più riconducibile a una rappresentazione semplificata, a un’idea meccanicistica dell’unità di classe.
Non c’è, insomma, un’identità sociale da far valere come tale, immediatamente, in opposizione a differenze politiche che sarebbero il portato di interferenze esterne. Le differenze, al contrario, sono oggettive, sono interne alla nuova composizione di classe. Per questo, il tentativo degli autoconvocati si è rivelato velleitario e, anziché esprimere un moto reale di unificazione e di radicalizzazione della coscienza di classe, ha finito per essere a sua volta lo strumento di una parzialità politica e di una pressione esterna sul movimento.
Viene qui intaccato uno degli aspetti teorici che sta alla base dell’esperienza dei Consigli: l’idea cioè di una rappresentanza sociale in se stessa omogenea, che poteva e doveva prescindere dalla pluralità degli orientamenti politici e dalla differenziazione delle figure professionali. Il “gruppo omogeneo” significava appunto questa immediatezza di un interesse di classe di fronte al quale ogni istanza di pluralismo politico o sociale appariva come un’indebita interferenza dall’esterno.
È il concetto di classe, dunque, che va ripensato, arricchito, articolato, rifiutando ogni semplificazione economicistica, ogni reductio ad unum di una realtà che diviene sempre più complessa.
La crisi dell’unità sindacale evidenzia queste difficoltà, e mette quindi in discussione i presupposti su cui abbiamo lavorato nella precedente stagione sindacale.
Questo necessario ripensamento critico non deve condurre a una rappresentazione dell’attuale realtà sociale come segnata da una definitiva frantumazione corporativa, da una impossibilità di trascendere le logiche di gruppo e individuali. Si tratta invece di recuperare il concetto di classe come concetto politico e non sociologico, di vedere l’unità di classe non come un dato materiale immediato, ma come un processo di unificazione che è possibile solo sulla base di un progetto politico.
La complessità delle figure professionali non sposta la dimensione teorica del problema, ma accentua la difficoltà di un processo di costruzione unitaria come processo politico. È questo il problema che ci pone, ad esempio, l’insorgere del movimento dei quadri: al di là delle superficialità sociologiche ricorrenti, la realtà dei quadri ha il senso non già di un qualcosa che fa dileguare il tema dell’unità di classe, ma di un qualcosa che anzi lo ripropone in tutta la sua pregnanza politica in quanto orizzonte di un’iniziativa ancora da costruire.
La ripresa del processo unitario, per cui dobbiamo tenacemente lavorare, si presenta oggi con queste nuove complessità, e non potrà essere un ritorno al passato. Al contrario non potrà che realizzarsi come nuova e più avanzata sintesi di un’articolazione politica e sociale che mantiene e sviluppa tutta la sua complessità.
Ed è proprio di questo scenario più ampio che dobbiamo tener conto se vogliamo impostare utilmente la discussione sui Consigli e sulle loro possibili prospettive. I Consigli avranno infatti un futuro se e in quanto diventeranno lo strumento di organizzazione e di espressione democratica di questa complessità del mondo del lavoro. In caso contrario, declineranno fino al loro esaurimento.
Ciò comporta una chiara e impegnativa discussione sui loro fondamenti, sulla natura e sui fini di un processo di rinnovamento che restituisca alle strutture di base una forte legittimazione democratica. Ma quello che invece sta avvenendo è la ricerca faticosa di un compromesso che metta insieme confusamente le ragioni del passato e quelle del presente, che salvi l’apparenza di ciò che i Consigli hanno rappresentato e nel contempo li pieghi alle condizioni attuali, senza che intervenga un chiarimento di fondo circa la loro natura e le loro funzioni.
Se esaminiamo, ad esempio, i vari accordi sottoscritti di recente, vediamo all’opera questa logica di compromesso che conduce ad una limitazione della sovranità dei Consigli, a un loro condizionamento, a un controllo dall’esterno.
Sotto il profilo della democrazia politica, si sono create soluzioni del tutto anomale. Resta formalmente in vigore il principio dell’elezione democratica da parte di tutti i lavoratori, ma nel contempo si prendono i più diversi accorgimenti per impedire che il voto democratico possa modificare gli equilibri consolidati tra le Confederazioni.
La democrazia è sotto tutela: essa si può svolgere solo entro un equilibrio politico prefissato, il quale va comunque raggiunto, anche modificando a posteriori i risultati del libero gioco democratico.
Viene in mente la particolare forma di democrazia di certi paesi dell’Est europeo, dove il pluralismo politico non è la risultante di una verifica democratica, ma il frutto fittizio di un accordo preesistente che assegna a ciascuno un suo ruolo non modificabile.
Possiamo forse ignorare questo stato di democrazia monca, imperfetta? Possiamo evitare di discuterne criticamente, e di ricercare nuove soluzioni?
Non credo di aver caricato le tinte. Prendiamo l’ultimo esempio disponibile, l’ipotesi di accordo nel settore tessile, che è notevole proprio in quanto rende esplicita questa logica di compromesso che stravolge le regole democratiche. In tutte le piccole aziende dove ci sono solo tre delegati risulteranno eletti i più votati di ciascuna delle tre Confederazioni; nelle aziende più grandi agisce, sia pure attenuato, lo stesso meccanismo. In sostanza, il voto non ha per tutti lo stesso peso, lo stesso diritto, ma vi sono diritti di organizzazione sanciti e tutelati indipendentemente dal voto. Ma i tessili non sono un’eccezione, se non per la più esplicita ammissione che le regole democratiche sono accettabili solo in quanto possono essere manipolate.
Considero tutto ciò un rischio, una tendenza pericolosa che può determinare la sclerosi burocratica dei Consigli.
Come uscirne? Se vogliamo essere realisti, dobbiamo renderci conto del fatto che il ruolo dei Consigli come organi di rappresentanza generale di tutti i lavoratori non è più tendenzialmente coincidente con la loro funzione di strutture di base delle organizzazioni sindacali.
Le manipolazioni di cui prima abbiamo parlato sono il tentativo di occultare questa contraddizione. L’esistenza di contraddizioni non è in sé un elemento negativo, a condizione però che esse vengano riconosciute e fatte agire come un fattore potenzialmente dinamico.
È possibile allora pensare a un modello di rappresentanza che riconosca l’esistenza di questa potenziale contraddizione, che non pretenda di identificare in modo forzato lavoratori e sindacato, movimento e organizzazione, rappresentanza unitaria e rappresentanze di organizzazione?
Le conclusioni ipotizzate da Cremaschi e da Garibaldo non risolvono questo interrogativo in quanto accettano, con un realismo forse troppo rassegnato, che il Consiglio sia la sommatoria di tre rappresentanze, ciascuna delle quali ha la sua fonte di legittimazione, più o meno democratica, all’interno delle singole organizzazioni sindacali. La CGIL, in questo caso, può tentare, per la sua parte, di mantenersi coerente con un’istanza democratica che comporta un rapporto autentico con tutti i lavoratori, e può così lanciare una sua sfida politica a CISL e UIL.
Ma questo non è sufficiente, perché la CGIL in ogni caso non può essere di per se stessa rappresentativa dell’intero universo dei lavoratori. Restano quindi senza voce e senza diritto di rappresentanza tutti quegli strati che oggi non si riconoscono direttamente nelle scelte e nelle politiche delle singole Confederazioni.
Quando poniamo l’obiettivo della rifondazione del sindacato poniamo appunto questo problema, ovvero quello dell’allargamento della rappresentanza, della risindacalizzazione dell’intero mondo del lavoro. Una riforma dei Consigli che limiti la loro potenzialità di rappresentanza generale va invece nella direzione opposta.
Rappresentanza unitaria e rappresentanza di organizzazione costituiscono due problemi distinti, e vanno a questo punto distintamente affrontati e risolti.
La soluzione più chiara e più radicale consiste nel prevedere all’interno dei singoli luoghi di lavoro uno strumento rappresentativo democratico che, di volta in volta, rispecchierà gli equilibri politici e sociali variabili a seconda di ciascuna diversa situazione. Accanto a questo si possono ipotizzare dei terminali organizzativi delle tre Confederazioni, ciascuna delle quali potrà liberamente operare, fuori da vincoli unitari ormai artificiali, per organizzare il consenso, per propagandare le proprie posizioni, per sviluppare una propria autonoma iniziativa politica. Questo è un modello vicino a quello della democrazia politica che distingue ruoli e competenze della rappresentanza popolare e dei partiti politici. È però probabile che la realtà sindacale si presti con molta difficoltà a rientrare in questo modello. Soprattutto, c’è il pericolo che l’effettivo potere di contrattazione venga sottratto ai Consigli e concentrato nei terminali di organizzazione, dando così luogo a un processo di controriforma.
Una seconda possibile soluzione può essere costruita all’interno di un unico organismo, così da evitare un dualismo che può essere pericoloso, ma prevedendo chiaramente un doppio sistema di legittimazione, l’uno affidato alla libera scelta dei lavoratori, l’altro a una designazione, anch’essa regolata da norme democratiche, all’interno delle organizzazioni sindacali. Avremo così un organismo misto che risponde con procedure diverse a due diverse esigenze e che può avere al proprio interno una dialettica, un processo non lineare e contraddittorio di ricomposizione unitaria.
Insomma, se in questa fase si rende necessario un compromesso, realizziamolo nella chiarezza, senza sotterfugi, senza manipolazioni, ponendo esplicitamente ai lavoratori i problemi così come sono.
Su questa base si può lavorare, si possono cercare e inventare soluzioni diverse. Non credo invece sia una scelta lungimirante quella di accettare compromessi pasticciati pur di salvare l’apparenza di una rappresentanza unitaria. Se i rapporti attuali fra CGIL, CISL e UIL non consentono un’unità effettiva, reale, se vi sono problemi di organizzazione che comunque si fanno valere come tali, allora è l’intero modello di organizzazione del sindacato nei luoghi di lavoro che va ripensato, prima che si siano provocati guasti troppo profondi, prima che diventi una convinzione del senso comune che ormai i Consigli, intesi come organi di autogoverno dei lavoratori, debbano essere definitivamente abbandonati in quanto residui di una stagione sindacale tramontata.
Busta: 2
Estremi cronologici: 1987, febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Meta”, n. 2, febbraio 1987, pp. 23-26