ENRICO BERLINGUER, O L’IDENTITÀ O IL GOVERNO

La prospettiva del governo per lui era legata al rapporto con la DC. Perciò escludeva l’idea di una sinistra di governo. Di qui tutte le difficoltà dell’ultima fase

Scritto di Petruccioli, in cui riporta un suo ricordo della riunione del C.C. del 3/7/1979 in cui Terzi prese posizione contro Berlinguer.

La sera del 3 luglio 1979, un caldo lunedì, il salone del quinto piano di Botteghe Oscure è gremito; si riunisce il Comitato Centrale del PCI. È un’ora non abituale; ma questa non è una riunione “normale”. Esattamente un mese prima, il 3 giugno, concluso il triennio della solidarietà nazionale, un anno dopo il rapimento e l’assassinio di Moro c’erano state le elezioni politiche anticipate. Rispetto al 1976, l’anno del grande balzo, il PCI aveva perso quattro punti percentuali (dal 34,37 al 30,38) e un milione e mezzo di voti (11.139.231 contro 12.615.670).

Già la lunghezza della relazione rende evidente il rilievo dell’appuntamento: 75 cartelle dattiloscritte, come preciserà L’Unità che pubblica il giorno dopo il testo integrale, e come risulta dagli archivi. Altrettanto significativa è la durata del dibattito: tre intere giornate. Berlinguer replicherà giovedì «a tarda ora» (ancora L’Unità) e il testo del suo discorso sarà pubblicato sul giornale di sabato.

Il centro della pur ampia relazione è, comunque, molto netto ed evidente: a Berlinguer interessa che non sia messa in discussione la strategia della “unità democratica”. Quella strategia la ripropone, praticamente alla lettera, negli stessi termini che aveva usato sei anni prima negli articoli pubblicati su Rinascita dopo il golpe in Cile. Vuol tenere assolutamente fermo questo punto, tanto che arriva a dire: «Mettere in cima alle nostre preoccupazioni politiche solo il momento del voto e i risultati elettorali, facendo dipendere da questi le scelte di linea e addirittura di strategia, significa ragionare da socialdemocratici».

La svalutazione del «momento del voto» è assolutamente sorprendente e del tutto singolare nella tradizione del PCI; ancor più sorprendente considerare un «ragionare da socialdemocratici» dare un peso eccessivo al voto, al termine di un triennio iniziato nel 1976 nel segno di una straordinaria affermazione elettorale, tante volte e giustamente sottolineata ed enfatizzata.

Il diffuso sconcerto provocato da quelle parole non trovò adeguata espressione nel dibattito; molti si censurarono o distolsero lo sguardo fingendo di non aver ben inteso. Tuttavia il tema non restò del tutto assente, soprattutto per merito di Riccardo Terzi, all’epoca segretario della federazione di Milano che lo affrontò in modo diretto e senza timori reverenziali.

Berlinguer ne approfittò per tornare ampiamente sul tema nella replica; lo fece in un modo così esplicito che – a distanza di tanti anni – mi sembra ancora straordinariamente significativo, in quanto rivela in modo clamoroso l’irrisolto nucleo problematico che Berlinguer ha lasciato a quanti sono venuti dopo di lui.

«In qualche intervento – osservò – è stato posto in realtà un problema non di parole ma di sostanza, di cambiamento di strategia; di sostituire, cioè, a una politica di solidarietà democratica, che faccia i conti in positivo anche con le forze popolari della DC, una politica di alternativa di sinistra». A confutare questa ipotesi, Berlinguer elencò una serie di dati di fatto (dalla effettiva forza dei singoli partiti fino all’orientamento prevalente nel PSI) che la rendevano non realistica. La dimostrazione della inattualità e inattuabilità della “alternativa” si poteva considerare, così, conclusa; invece il bello, l’essenziale, doveva ancora arrivare.

«C’è ancora un altro argomento da considerare – continuò Berlinguer – Se decidessimo di puntare su una tale soluzione (l’alternativa di sinistra) e facessimo una precisa proposta al PSI in tal senso, la conseguenza immediata e sicura sarebbe una serie di richieste incalzanti da parte dei socialisti nei nostri confronti, per farci spostare, passo dietro passo, dalle nostre posizioni politiche e ideali e finire su un terreno – diciamolo pure – socialdemocratico. Ma se ci muovessimo davvero in questa direzione, il PCI perderebbe ogni sua autonomia ideale e politica, cancellerebbe quella sua peculiarità che ne fa un partito che vuole lottare e lotta per il socialismo, anche se secondo una sua propria concezione e seguendo una sua propria via… Come si vede, nelle concrete condizioni italiane, una linea che punti all’alternativa di sinistra, a parte la sua improbabilità effettiva, non porterebbe il movimento operaio, le sue lotte, i suoi orientamenti su un terreno più avanzato».

A mia memoria non esiste un altro testo nel quale Berlinguer esponga in modo altrettanto limpido, perentorio e definitivo le ragioni di fondo per cui egli respinge la strategia dell’alternativa di sinistra e – implicitamente ma necessariamente – l’idea stessa di una alternativa che comporti alternanza e reversibilità nel governo del Paese. Il PCI è sì “partito di governo” ma solo aggregato con l’altro grande partito che si considera ed è considerato a lui contrapposto; esclude, invece, l’accesso al governo attraverso una competizione aperta e alternativa. Il motivo è dichiarato: solo così il PCI può difendere la propria identità e la propria missione; che sono l’essenziale.

Così, dopo il più impegnativo e prolungato tentativo di portare il PCI nel governo del Paese, Berlinguer conclude dichiarando la incompatibilità del suo partito, della sua natura, della sua autonomia con la possibilità stessa di una sinistra di governo. Questo dato, prima ancora delle difficoltà e delle ostilità nel rapporto con il PSI e con Craxi, è all’origine dell’impasse nel quale si trovò il leader del PCI negli ultimi anni della sua lotta.

Con il trascorrere del tempo, critiche ci furono, come ad esempio quelle esposte nell’articolo di Giorgio Napolitano dell’agosto 1981; polemiche nei confronti di Berlinguer in nome di Togliatti e della sua strategia. Ma la visione che ispira il “compromesso storico” ricalca e ribadisce nella sostanza la storica linea togliattiana della unità nazionale e della “democrazia progressiva”. In quelle critiche non emergeva il punto decisivo; non potevano avere, perciò, effetto, se non alimentando il mugugno e la fronda.

La pretesa di contrapporre Togliatti a Berlinguer, sia pure quello dell’ultima fase, non ha fondamento. La differenza fra i due è – semmai – nel fatto che Togliatti non ha avuto l’occasione di cimentarsi concretamente con l’obiettivo che perseguiva e che al momento della sua scomparsa si collocava ancora in un ipotetico futuro. Berlinguer, invece, visse tre anni di faticosa e drammatica sperimentazione, al termine dei quali era obbligatorio un bilancio. Le possibili risposte erano solo due: confermare la priorità strategica del partito, della sua natura, della sua missione o decidere di impiegarne le risorse, l’esperienza, la forza, per dotare l’Italia e la sua democrazia di quello che non aveva mai avuto: una sinistra di governo.

Una sinistra, cioè, capace di pensarsi e costruirsi come maggioritaria; di avere quindi un’idea del governare assai diversa da quella che si ha se si pensa a una sinistra con una forza consistente, anche molto consistente e tuttavia minoritaria, che può governare perciò solo in combinazione con altre forze; una sinistra che incorpora una indispensabile tensione maggioritaria, in quanto non si propone di “fare maggioranza” con altri per tutelare in se stessa i tratti che la rendono minoritaria, ma che si pensa e agisce come sinistra tale da poter raccogliere la maggioranza. Due posizioni, due prospettive profondamente diverse una dall’altra.

Berlinguer espose la sua scelta senza reticenze e doppiezze, con assoluta onestà; confermò la linea degli articoli sul “compromesso storico” e insieme, il nucleo permanente del togliattismo, del tutto estraneo ad una idea di “sinistra di governo”. Questo il punto al quale arrivò, tanto chiaro quanto non conclusivo; e che non lo fosse penso sia stato anche lui consapevole. Un partito che aveva raccolto oltre un terzo dei consensi elettorali, che per tre anni si era proposto con tanta forza e determinazione di partecipare al governo della nazione non poteva infatti considerare conclusiva, né a lungo sostenibile una posizione che dichiarava l’inconciliabilità fra la sua propria natura e la nascita di una sinistra di governo.

Gli ultimi anni di Berlinguer furono segnati dall’affanno intorno a questo problema che lasciò irrisolto. È impossibile dire in quale direzione avrebbe cercato di uscire dall’impasse se non fosse morto; soprattutto di fronte al disfacimento del “comunismo reale” che di lì a poco sarebbe esploso. Certo è, invece, che il lungo e tortuoso cammino per immaginare, pensare, costruire una sinistra di governo per molti di noi comincia di lì; conclusa l’esperienza della “solidarietà nazionale” e di fronte a un non possumus tanto sincero e onesto quanto insostenibile.



Numero progressivo: H16
Busta: 8
Estremi cronologici: 2014, 7 giugno
Autore: Claudio Petruccioli
Descrizione fisica: Stampa di pagina web
Tipo: Relativi a Terzi
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Europa online” (2014). In seguito viene pubblicata in “Mondoperaio” una versione estesa col titolo L’orrore dell’alternanza