E ADESSO COERENZA TRA SCELTE E FATTI
di Riccardo Terzi
Il mio tendenziale pessimismo ha trovato, nel Congresso nazionale dei DS, una smentita. Temevo e prevedevo un Congresso di routine, che servisse solo alla legittimazione del gruppo dirigente, incassando i risultati positivi dell’ultimo ciclo elettorale, per dire in sostanza che siamo sulla strada giusta e che il manovratore non deve essere disturbato. E aggiungevo, con un po’ di malizia: è imprudente essere prudenti. In realtà, pensavo con un certo sconforto di dover assistere a un inutile rituale consolatorio.
Ora, anche se non sono molto incline all’autocritica, devo riconoscere che questi timori non sono stati confermati. Piero Fassino ha scelto coraggiosamente di imprimere al Congresso un forte taglio innovativo, facendo seriamente i conti con tutti i dati nuovi della situazione nazionale e mondiale, senza eludere nessuno dei dilemmi che abbiamo di fronte, senza retorica, senza mai sacrificare all’unità interna la chiarezza delle scelte. Dal Congresso esce un partito che ha, finalmente, un suo profilo culturale, una sua ossatura, un suo progetto per il futuro. Questo esito non era per niente scontato. E a mia discolpa posso ricordare le tante occasioni mancate e le tante fumisterie che hanno accompagnato la nostra recente storia politica, dalla svolta in avanti, con il risultato di lasciare un partito senza bussola, idealmente smarrito e praticamente disinvolto, vergognoso del suo passato e disarmato di fronte al futuro.
Non può bastare una buona congiuntura elettorale a rimettere in piedi un organismo politico, se esso non ha chiaro il senso della sua prospettiva. Per questo era necessario un Congresso non tattico, non reticente, non propagandistico. E così è stato. Per il lavoro di questa nostra rivista, è un incoraggiamento importante, perché abbiamo sentito nel Congresso le nostre stesse domande, e possiamo ora pensare di non essere dei vecchi brontoloni che si sono posti fuori dal mondo.
Il Congresso ha parlato il linguaggio classico della politica, il che vuol dire analisi della realtà e costruzione di un progetto per l’Italia. Non c’è più traccia di quella concezione della politica come pura tecnica manipolatoria, populistica, immaginifica, al servizio non di un programma, ma solo di una leadership che sia competitiva sul mercato della politica-spettacolo. Il successo congressuale di Fassino non ha nulla di personalistico, di plebiscitario, ma è il successo di un’idea e di un’analisi politica. È la politica che torna al primo posto. Anche questo non era per niente scontato, perché i veleni dell’antipolitica, in questi anni si sono diffusi nelle più diverse direzioni.
L’elemento essenziale che ci viene consegnato dal voto congressuale sulle diverse mozioni è che il partito è aperto a una ricerca nuova e non si arrocca nella difesa di una propria identità statica e ideologizzata. Forse è la prima volta che ci siamo messi davvero alle spalle il lungo travaglio identitario che ci ha accompagnato in tutti questi anni e che ci ha spesso impedito di vedere, con mente lucida, i cambiamenti della società italiana e del mondo. Siamo oggi in grado di affrontare una discussione molto libera e aperta, perché siamo un partito finalmente maturo.
Ed essere maturi significa che ci occupiamo della realtà, non dei simboli e delle bandiere. Significa che non ci apprestiamo a fare l’ennesima svolta o giravolta, avventurandoci in qualche spericolata operazione di revisionismo ideologico, ma più materialisticamente ragioniamo intorno alla realtà sociale e politica nella quale ci troviamo ad agire. E cominciamo a capire che la nostra identità non è affidata all’astrazione metastorica delle ideologie, ma solo alla funzione che sappiamo svolgere nel corso reale della storia.
Parliamo dunque della realtà, di una realtà che presenta molti aspetti inquietanti. Dove sta la ragione di questa inquietudine? In campo internazionale, è il ritorno prepotente della politica militarizzata, cui corrisponde un ferreo schema ideologico che identifica Occidente e democrazia e che legittima, in nome dei valori sacri della libertà, una missione neo-imperiale della potenza americana e un diritto indiscriminato all’uso della forza. Tutti i tentativi di sottrarsi a questa morsa ideologica, a questa militarizzazione del pensiero politico, vengono preventivamente bollati come vecchie escrescenze comunistoidi e antiamericane, compromesse con tutta la trama di violenza e di terrore che sta devastando il nostro mondo.
Il problema è quello di rompere questo schema, di indicare cioè la via per uno sviluppo democratico e civile che eviti gli opposti fondamentalismi e fanatismi, di costruire una prospettiva di pace che non sia astratta, velleitaria, ma che abbia la forza di una concreta iniziativa politica. È in questo dilemma che noi oggi ci troviamo. E per questo occorre vedere tutte le novità e le potenzialità che si sono aperte con i nuovi processi democratici in Iraq e in Medio Oriente, e sostenere con forza tutto ciò che può significare una nuova presa di coscienza civile e politica e che può rovesciare la logica feroce della politica di potenza e della guerra. Nella relazione di Fassino ho sentito, in questa direzione, la ricerca di un nuovo terreno di iniziativa, andando oltre gli slogan e oltre ogni visione manichea, ragionando anche sui se e sui ma di una situazione che resta aperta a molti possibili sbocchi. Sul piano interno, il fatto nuovo è che l’attuale destra di governo sfugge a tutte le tradizionali classificazioni, perché fa leva sull’irrazionalità dell’impolitico, sull’immediatezza, sull’immagine. È, letteralmente, una destra senza principi, che cerca di utilizzare e di mobilitare tutto ciò che può servire all’esercizio del potere. È un agglomerato mobile, sfuggente, che di volta in volta si organizza intorno a un messaggio, a uno slogan, a una campagna mediatica. Ma proprio da questa estrema spregiudicatezza deriva una notevole forza di aggregazione e di mobilitazione, perché in una società lacerata e impaurita non è la moderazione il tratto dominante, e ci sono sempre truppe disponibili alla ricerca di un mito e di un capo.
Se è impropria e approssimativa la tesi del regime, ancor meno funziona l’idea tranquillizzante di un ordinario bipolarismo e di una reciproca legittimazione, perché questa destra impolitica ha bisogno, per reggere, di una continua azione di rottura e di eversione, e affronta i momenti di difficoltà e di appannamento con una radicalizzazione dello scontro, come è avvenuto dopo l’insuccesso delle elezioni europee.
Ora, di fronte a tutto ciò, i nostri percorsi politici si rivelano estremamente tortuosi e insopportabilmente lunghi. Non si capisce, ad esempio, perché ci siamo lasciati trovare impreparati sul tema della riduzione fiscale, senza riuscire ad anticipare le mosse del Governo con una nostra controproposta. Eppure, non c’era davvero nulla di imprevedibile. Questo è stato il tema politico del nostro Congresso: come costruire a sinistra un processo nuovo di aggregazione, come avere dalla nostra parte non solo la ragione ma la forza. Se permane l’attuale situazione di sfilacciamento e di dispersione, se il nostro schieramento non ha struttura, non ha regole, non ha procedure decisionali efficienti, non ha dunque un minimo di ossatura politica, si troverà ogni volta disarmato e impreparato di fronte alle incursioni della destra, e sarà sempre costretto a una faticosa azione difensiva, senza mai riuscire ad imporre i propri temi, la propria agenda politica.
La proposta della Federazione cerca di rispondere a questo problema, ed è comunque un passo, un primo tentativo per cominciare a costruire quello che oggi non c’è: un soggetto politico forte che sia in grado di prendere nelle sue mani le sorti del Paese. Nessuno di noi oggi può prevedere tutti i passaggi, gli sviluppi, gli sbocchi di questa operazione. Ma mi sembrano chiare le ragioni per cui dobbiamo essere noi i più decisi sostenitori di questo obiettivo. Se il progetto di una larga alleanza riformista si afferma, esso chiude gli spazi a tutte le ricorrenti manovre neocentriste, e rovescia quello che è stato il dato dominante della storia politica italiana, il dominio del centro su una sinistra divisa.
Il centrismo è forte quando il riformismo è debole. Il progetto di organizzare il campo del riformismo, di unire le sue diverse articolazioni in una prospettiva comune, ha quindi chiaramente il significato non di un cedimento della sinistra, ma di una sua maturazione come forza di governo. E di questo mi pare sia del tutto consapevole Romano Prodi, il cui intervento al Congresso è stato davvero un momento rivelatore, di forte impatto politico, che ha tracciato in modo convincente le linee portanti di una strategia di lunga durata su cui occorre unitariamente lavorare. E questa strategia prende senso se partiamo dagli interessi di fondo del Paese, se offriamo un’alternativa al suo declino economico e civile e al deterioramento della sua vita democratica.
Se il nostro problema strategico è quello di accumulare forza, di incidere davvero nei processi reali, è tutto il rapporto con la società italiana, con la materialità concreta degli interessi e delle domande sociali, che deve essere ricostruito, con un lavoro sistematico, paziente, capillare. Il riformismo ha qui il suo campo di verifica e di realizzazione. Se non vuole essere una parola vuota, si deve tradurre in un lavoro che costruisce relazioni sociali, solidarietà, coesione, e che dà forma e rappresentanza politica ad un intero blocco di domande sociali, parlando il linguaggio della realtà, della vita reale delle persone. Da questo punto di vista, il lavoro da fare ha un’ampiezza straordinaria, perché è proprio qui, in questo rapporto tra politica e società, che ha agito in modo devastante la crisi dell’ultimo decennio, con la fine dei grandi partiti di massa e con il prevalere della politica personalizzata e mediatica.
Il Congresso può segnare un’inversione di tendenza. Ma dobbiamo tutti avere piena coscienza che è necessario un deciso cambio di marcia, che da ora in avanti occorre saper lavorare con un diverso ritmo, e soprattutto con un diverso ordine di priorità, mettendo al centro i problemi della società italiana: lo sviluppo, il lavoro, lo stato sociale, la forza del tessuto democratico e della partecipazione, i diritti di cittadinanza.
L’attuale struttura del partito non è ancora attrezzata per un lavoro che scavi in profondità nei processi sociali, che li sappia interpretare e rappresentare. È una struttura non solo troppo gracile, ma troppo istituzionale, tutta proiettata sulle scadenze elettorali e sui meccanismi verticistici della politica.
Anche il Congresso ha risentito di questo limite. Ha parlato il gruppo dirigente centrale, ma non si è sentita la voce dei territori, della società civile diffusa, delle rappresentanze sociali. Ma sta essenzialmente qui lo spazio che la sinistra può occupare per candidarsi al governo del Paese e per rappresentare un’altra idea della politica, una politica della partecipazione, dell’autogoverno, che fa entrare a pieno titolo tutta la rete dei soggetti sociali e dei corpi intermedi nel processo decisionale, rovesciando il modello centralistico e plebiscitario. Ho l’impressione che questo punto non sia ancora del tutto chiaro, né in via teorica né soprattutto in via pratica. Ma se dietro la leadership di Prodi e dietro il progetto riformista non si costruisce questa rete sociale, tutta la nostra strategia resta appesa nel vuoto. Con questo, non voglio reintrodurre alla fine un messaggio pessimistico. Ma voglio solo dire che tutta la positività del Congresso deve essere incorporata in una pratica reale, e a questo dobbiamo ora dedicarci. Anche il contributo che possiamo dare noi, dalle pagine di questa rivista, deve essere spostato in avanti, su un terreno più concreto, più materiale, mettendoci in comunicazione con le diverse dinamiche sociali e istituzionali che sono l’ossatura reale del Paese. Per costruire davvero, nei fatti, una cultura di governo.
Busta: 8
Estremi cronologici: 2005, marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fotocopia pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Argomenti umani”, marzo 2005, pp. 13-17