DEMOCRAZIA, PER RICOMINCIARE
Ripensare il sindacato - Convegno 12-13 gennaio 1989
Intervento di Riccardo Terzi
1) Una forma storica in crisi
Il seminario di “Sinistra ‘80” apre una nuova esperienza di lavoro della CGIL. Mi sembra un inizio promettente. Già ne ha parlato Lettieri nell’introduzione: il tentativo è quello di dare vita a un’attività di tipo trasversale, non soltanto nel senso che questa attività interessa le varie componenti della CGIL, ma anche – e questo mi pare l’aspetto forse più importante – nel senso di intensificare i rapporti tra il sindacato e la cultura esterna, di costruire in modo sistematico un lavoro in comune, un’attività di ricerca sui problemi di fondo dell’esperienza sindacale. Dopo aver aperto una discussione sull’obiettivo, forse un po’ astratto, del superamento delle componenti, cerchiamo ora di porre la questione in positivo, di cominciare cioè a costruire dei fatti politici di tipo nuovo che rompano certe rigidità della vita interna del sindacato, che consentano una dialettica più sciolta, più aperta.
Mi pare che oggi abbiamo avuto una prova convincente della fertilità di questo metodo, per i risultati che già sono emersi dalla discussione e anche perché questo ci consente di affrontare alcuni nodi particolarmente delicati senza essere legati ai tempi e alle rigidità obbligate dell’organizzazione. Possiamo così discutere, senza dover prendere delle posizioni ufficiali, e pensiamo di avviare da subito una ricerca su alcune questioni di particolare rilievo. Io condivido l’ispirazione delle due introduzioni di Lettieri e di Romagnoli. Mi pare che sia indubbio uno stato di crisi del sindacato. È la crisi di una determinata forma storica del sindacato, non una crisi metafisica, ineluttabile, è la crisi di un modello che si è storicamente costruito, basato su una struttura molto centralizzata, centrato sulla grande fabbrica e sulla figura sociale dell’operaio-massa, con una forte identità di tipo ideologico, e con uno stretto rapporto con le forze politiche tradizionali di sinistra. Tutto questo, per varie ragioni, oggi stenta a funzionare, e non riesce più a essere un fattore dinamico dell’evoluzione del movimento sindacale. Ma questo non significa che siamo in presenza di un declino inevitabile, a meno di non accettare la tesi per cui la società si avvia al superamento dei conflitti.
2) Un sindacato policentrico, a struttura flessibile
Se è vero che la ragione del sindacato è la ragione del conflitto sociale, si tratta di vedere come noi riusciamo a incanalare, a rappresentare le modalità nuove del conflitto, vedendo che cosa è cambiato, sia dal punto di vista dei soggetti, sia dal punto di vista dei contenuti del conflitto. Siamo in una società pluri-conflittuale, in quanto non c’è più un unico conflitto dominante, ma abbiamo una grande pluralità di elementi di conflitto che non riescono più a stare dentro a un modello organizzativo rigido come quello che abbiamo conosciuto in questi anni. Da qui viene l’esigenza di un sindacato di tipo policentrico, a struttura flessibile, con una politica rivendicativa differenziata, capace appunto di rispondere ai singoli differenziati bisogni del corpo sociale. Ora, per realizzare questo salto, questo cambiamento di ottica, questo passaggio nuovo dell’esperienza sindacale, che possiamo chiamare anche rifondazione o usare altri termini, c’è una condizione pregiudiziale: l’attuazione di precise regole democratiche, ovvero la costruzione di un rapporto più diretto tra il sindacato e i soggetti che vuole rappresentare. Senza questa trasparenza di rapporto democratico tra l’organizzazione e i bisogni soggettivi del lavoratore, non usciamo dalla crisi. E rischiamo di restare prigionieri della forza di inerzia burocratica dell’organizzazione. Per questo diventa oggi centrale e cruciale tutto il problema di cui stiamo discutendo della rappresentanza e della rappresentatività, e non usciamo dalla crisi se non tentiamo una risposta nuova a questo problema. Se invece lo diamo per scontato e pensiamo di affrontarlo dentro le logiche tradizionali non facciamo che impantanarci ulteriormente in uno stato di difficoltà. Ora di fronte a questa questione c’è una risposta classica. È la risposta dell’autoregolazione. Per tutta una lunga fase storica il movimento sindacale ha considerato che i problemi della democrazia sindacale, della vita interna, delle forme di organizzazione della rappresentanza, sono materia esclusiva della propria autonoma regolazione. Io credo che oggi questo modo di rispondere al problema sia sbagliato, e rischi di tradursi in una posizione puramente conservatrice, che perpetua la difesa di uno stato di cose sempre meno tollerabile.
3) L’autoregolazione non basta
Fino a quando, bene o male, il vincolo unitario riusciva a tenere insieme il movimento sindacale, i problemi si presentavano in un’ottica diversa rispetto a quella attuale: ma oggi questo vincolo è saltato. L’accordo separato non è più un incidente di percorso del tutto eccezionale, sta diventando uno degli esiti possibili delle relazioni, anche se fortunatamente si tratta ancora di casi singoli e non di una tendenza generalizzata. Perché in questo cambiamento di clima nei rapporti intersindacali, l’appello all’autoregolazione non fa che rendere permanente uno stato di cose caratterizzato dalla completa assenza di regole, uno stato di arbitrio per cui ciascuno può decidere come crede senza rispondere a nessuno, e senza nessuna verifica democratica.
C’è sempre stata una dialettica complessa tra unità e democrazia sindacale: le due cose, come sappiamo, non vanno di pari passo e spesso entrano tra loro in conflitto. Oggi rischiamo di essere perdenti su entrambi i fronti, di avere una crisi di fatto dell’unità sindacale, e contemporaneamente di non riuscire attraverso una rivitalizzazione di elementi di democrazia sociale a superare questo stato di difficoltà. Per questo io credo utile il ragionamento che qui è stato fatto su interventi anche di carattere legislativo. Un ordinamento giuridico introdotto ex-novo, si tratta di vedere se riusciamo a introdurre delle modifiche in questo ordinamento tali da spingere nella direzione giusta. E si tratta di definire un modello di organizzazione sindacale, un modello di funzionamento della rappresentanza, che sarà il risultato di diversi aspetti: interventi di carattere legislativo, momenti di contrattazione tra le parti, momenti di autoregolazione. Occorre allora rivedere quali possono essere le idee-forza, gli obiettivi di fondo di un nuovo modello.
In primo luogo è l’esigenza di avere una verifica pratica della rappresentatività, di superare quindi ogni idea metafisica delle organizzazioni maggiormente rappresentative, di eliminare le rendite parassitarie, andare a una verifica empirica del livello reale di rappresentatività delle singole organizzazioni, il che significa rompere una situazione di monopolio, non avere nessuna posizione di ostilità pregiudiziale verso varie forme di rappresentanza anche esterne alle tre grandi confederazioni, superare il giudizio corrente secondo cui tutto ciò che sta fuori dalle tre grandi confederazioni è solo un elemento di disgregazione corporativa. Può essere necessario combattere sul piano politico contro entità corporative ma comunque si tratta di espressioni della realtà che devono essere riconosciute come tali. In secondo luogo, come affrontare in termini diversi tutto il problema dell’unità sindacale? Non possiamo stare in una situazione che consente solo una scelta rigida tra unità e rottura. Come dice Mariucci, dobbiamo creare una condizione in cui siano possibili diversi giochi, di unità, di differenziazione, o di competizione, il che significa tendere a un certo avvicinamento alle regole e ai principi della democrazia politica.
Oggi esiste formalmente un vincolo unitario rigido che tra l’altro, poi, non funziona. E allora le differenziazioni oggi esplodono drammaticamente con momenti di rottura e di lacerazione, anziché essere momenti di articolazione da regolare con una verifica democratica. Infine, è essenziale la funzione delle strutture di base, delle rappresentanze democratiche nei luoghi di lavoro, perché è nei luoghi di lavoro che viene condotto l’attacco al sindacato, ed è qui che possiamo avere un rapporto democratico reale con i lavoratori. La crisi delle rappresentanze di base del sindacato è una spia, una prova evidente della crisi più generale in cui ci troviamo. Non basta il ricorso a momenti di democrazia diretta, non bastano i referendum; il referendum, anzi, da solo, senza un’articolazione democratica più complessa, rischia di essere un’arma a doppio taglio. Dobbiamo ridefinire un corpo di regole di democrazia delegata e di democrazia rappresentativa, altrimenti abbiamo da un lato l’arbitrio di gruppi dirigenti che non rispondono a nessuno, dall’altro il referendum come strumento salvifico, a cui si affidano le sorti della rigenerazione del sindacato. In questo contesto, io credo che possiamo ragionare senza remore, senza sospetti pregiudiziali, su interventi legislativi, su un nuovo ordinamento giuridico, sapendo che un intervento legislativo può avere diversi approdi, diverse ispirazioni. Può andare nel senso di un patto neo-corporativo, un intervento legislativo che può tendere a legittimare una situazione di monopolio della rappresentanza, oppure può essere un intervento legislativo che spinge nella direzione dell’affermazione di regole democratiche, costringendo il movimento sindacale a imboccare con più decisione questa strada e garantendo una migliore tutela dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori.
Questo richiederà ovviamente una battaglia politica complessa, una iniziativa del sindacato, insieme con le forze politiche più avanzate e con la cultura giuridica più vicina al movimento dei lavoratori, per tentare di dare risposte all’altezza della situazione.
Busta: 2
Estremi cronologici: 1989, 12 gennaio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: ?, 1989, pp. 95-98