DEMOCRAZIA ECONOMICA PER RICOSTRUIRE L’UNITÀ

La democratizzazione dell’impresa è possibile soltanto se si riconoscono regole di confronto e di contrattazione tra le parti sociali

Convegno non meglio specificato, intervento di Riccardo Terzi – Segretario regionale CGIL Lombardia

L’unita di classe, la coscienza di classe, questi concetti così abituali nella nostra tradizione, al punto da apparire concetti semplici e spontanei, tornano ad essere problematici.

In realtà, come sappiamo da tutta la storia del movimento operaio, non sono affatto il risultato della spontaneità, ma il punto di arrivo di un processo teorico e pratico assai intricato e travagliato.

Di fronte ai mutamenti nella stratificazione di classe, alla diversità degli interessi e delle condizioni di lavoro e di vita, occorre ogni volta compiere un ‘operazione di sintesi politica per oltrepassare l’orizzonte corporativo e per riunificare il mondo del lavoro intorno ad alcune essenziali operazioni strategiche.

La situazione attuale non presenta difficoltà teoriche qualitativamente diverse rispetto a situazioni storiche precedenti.

L’insorgere di una nuova e più complessa composizione di classe, di nuove figure professionali, di nuove tecnologie, non svuota di senso il concetto di classe, ma ne cambia i contenuti concreti, le condizioni, le forme di coscienza e di organizzazione.

Da un approccio solo sociologico può risultare una rappresentazione della realtà come processo irreversibile di frantumazione corporativa, o perfino di atomizzazione individualistica. La classe si scompone negli infiniti rivoli delle singole figure sociali.

Ma in realtà ciò che avviene nel profondo della struttura economica è il passaggio a forme più alte e complesse di organizzazione, è la tendenza non già alla scomposizione, ma al predominio dei grandi apparati.

La crisi del modello fordista imperniato sulla grande fabbrica non dà luogo, come spesso si dice erroneamente, a una diffusione del potere economico, ma a una sua più alta concentrazione che travalica la dimensione della fabbrica.

E allora, se il concetto di classe riguarda la distribuzione del potere esso può essere oggi ridefinito proprio a partire dai processi in atto di riorganizzazione del potere economico.

Internazionalizzazione dell’economia, intreccio di capitale industriale e capitale finanziario, accentramento delle decisioni strategiche in un ambito sempre più ristretto: tutto ciò determina le condizioni per un’iniziativa più larga del movimento di classe, alla condizione che si sappiano porre al centro le questioni davvero essenziali dell’attuale struttura del potere.

Se affrontiamo il problema della democrazia economica, ovvero il controllo democratico sulle scelte fondamentali di politica economica e di politica industriale, poniamo un’esigenza di ordine generale alla quale è interessato l’intero universo dei lavoratori dipendenti, e che rappresenta inoltre un bisogno profondo dell’intera società.

Solo con un approccio di tipo politico, volto ad individuare i grandi temi della trasformazione democratica della società, possiamo superare e ricomporre le differenze esistenti nel mondo del lavoro, differenze che vanno riconosciute come tali, per cui si rendono necessarie politiche rivendicative differenziate, ma che non sono tali da determinare una rottura, una contrapposizione, una disgregazione sociale.

Le questioni poste dal movimento dei quadri e dei tecnici, che spesso sono usate strumentalmente per favorire sbocchi di natura corporativa, possono essere affrontate da un punto di vista di classe, in quanto essere riconducono ad una più generale questione politica di democratizzazione del potere.

In sostanza, io ritengo che il tema della democrazia economica possa essere, nelle condizioni attuali, il terreno su cui ricostruire l ‘unità del mondo del lavoro. Ma si tratta di un tema arduo, ed è stata fin qui carente la nostra elaborazione, spesso impacciata da nominalismi ideologici, come è avvenuto nella discussione intorno alle esperienze europee di “cogestione”.

Ai modelli di cogestione si è opposta l’esigenza di autonomia del movimento sindacale, ed è questa un’esigenza reale, e una caratteristica peculiare del sindacalismo italiano che, occorre salvaguardare.

Ma resta aperto il problema di individuare procedure e strumenti che consentano ai lavoratori e alle loro rappresentanze sindacali di concorrere alla determinazione delle scelte, di definire un percorso per cui le decisioni vengono assunte non in modo unilaterale, ma con un controllo democratico.

Le singole soluzioni che sono state date o tentate nei vari paesi europei possono essere criticate, e spesso si sono rivelate inefficaci. Ma non possiamo eludere il problema, e non può bastare la difesa dell’autonomia del movimento di classe, la quale rischia di tramutarsi in una testimonianza impotente. Occorre però affrontare il problema di una democrazia economica in un’ottica più vasta, in una logica non aziendalistica, perché la prima fondamentale questione democratica riguarda il ruolo dello Stato, l’esistenza o meno di una politica di programmazione economica, di un governo dei processi economici.

La dinamica spontanea del mercato non solo genera effetti sociali indesiderabili, ma soprattutto non è in grado di assicurare un ritmo di sviluppo sufficiente, e non risponde in modo efficace alla concorrenzialità di altri paesi, nei quali in forme diverse, si realizza un sostegno politico allo sviluppo.

Non si regge la sfida internazionale senza una strategia di sistema, che affronti in modo coordinato i problemi dell’innovazione, della ricerca, della destinazione degli investimenti nei settori strategici, dell’organizzazione di un tessuto sociale e civile che sia favorevole a un processo diffuso di modernizzazione e di innovazione.

Si pone un problema cruciale di organizzazione e di riforma dello Stato.

La crisi di governabilità non dipende essenzialmente dai meccanismi elettorali, o dal funzionamento insoddisfacente delle assemblee elettive, ma dal fatto che lo Stato non è in grado di realizzare un effettivo governo dei processi economici.

Mancano gli strumenti tecnici per una politica di programmazione, manca una burocrazia di Stato professionalmente autorevole e politicamente autonoma dalle interferenze partitiche.

All’instabilità del quadro politico si aggiunge il fatto che i partiti di governo hanno generato un sistema perverso di lottizzazione e di servilismo politico, per cui sono umiliate le competenze e finiscono per essere prevalenti gli interessi contingenti di partito.

Ora, questo tema del rapporto fra politica e professionalità, tema non risolto nell’insieme del nostro ordinamento, dagli enti statali a quelli dipendenti dal governo locale, è un punto politico decisivo, da cui dipende la possibilità di un impegno democratico e civile dei ceti professionalizzati, i quali oggi oscillano tra i due poli del servilismo subalterno e del qualunquismo ostile alla dimensione politica.

C’è dunque, in primo luogo, un problema politico di riforma dello Stato e della pubblica amministrazione. La democratizzazione dell’impresa non può essere fine a se stessa, ma può realizzarsi solo nel quadro di un processo più generale di governo democratico dell’economia.

Nell’impresa, in un’impresa che sta dentro un’economia di mercato, la democrazia non può avere le stesse regole che valgono nella sfera politica, perché esiste in partenza una differenziazione dei ruoli, di responsabilità, di collocazione nel processo produttivo.

È illusoria ogni soluzione che pensi di poter prescindere da questo dato materiale, da questa oggettiva diversità e conflittualità degli interessi in campo. Il problema non si risolve con ricette semplicistiche, con le quali si vorrebbero eliminare le radici del conflitto.

L’azionariato popolare, la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori ai consigli di amministrazione delle imprese o altri analoghi espedienti, sono soluzioni illusorie, in quanto fingono una parità di condizioni che nei fatti non esiste. E allora una democratizzazione dell’impresa è possibile solo in quanto si riconosce la disparità degli interessi, e si definiscono regole di confronto e di contrattazione fra le parti sociali.

In sostanza il punto discriminante è il riconoscimento del ruolo delle rappresentanze sindacali nella contrattazione di tutti gli aspetti del rapporto di lavoro, è la definizione di nuove regole nelle relazioni sindacali per cui tutte le decisioni rilevanti vengono assunte sulla base di un confronto preventivo e di una ricerca di accordo fra le parti.

Ciò dipende anzitutto dalla volontà politica, e non si esaurisce nella definizione di regole formali.

Può valere come esempio il protocollo sottoscritto con l’IRI, il quale appunto fissa regole e strumenti di confronto salvaguardando l’autonomia reciproca dell’impresa e del sindacato.

Ma è indicativo il fatto che l’attuazione del protocollo stenti a realizzarsi, in quanto permangono resistenze, inerzie conservatrici, e sono presenti anche nel movimento sindacale incertezze e riserve.

Un nuovo clima nelle relazioni industriali, il quale non sorge spontaneamente, ma va conquistato con una lotta politica e sociale, può determinare condizioni nuove per l’insieme dei lavoratori e in particolare per i lavoratori ad alta professionalità, le cui competenze potrebbero essere valorizzate, e che rischiano invece oggi, nelle condizioni di una rigida contrapposizione, di essere schiacciati dentro un antagonismo di classe che non tiene conto della particolarità dei loro interessi e dell’apporto delle loro competenze.

La ricerca di un consenso sociale è anche una condizione necessaria per promuovere il processo di innovazione. Un regime di fabbrica autoritario, gerarchizzato, impedisce di utilizzare tutte le potenzialità di sviluppo insite nelle nuove tecnologie, in quanto irrigidisce il rapporto di lavoro, consente solo il lavoro parcellizzato, meccanizzato, riproduce cioè un modello di organizzazione del lavoro che non corrisponde più alla fase storica attuale.

In questo senso, l’esigenza di democratizzazione dell’impresa non è un’esigenza di parte, ma risponde ad una più generale necessita dell’intero sistema economico. Non si tratta di una questione solo formale, di regole, di procedure, ma di un processo reale che deve modificare le forme concrete di organizzazione del lavoro, valorizzando le capacita professionali dei lavoratori, la loro responsabilità, la loro autonomia nel processo produttivo.

I nuovi modelli tecnologici possono oggi consentire una straordinaria liberazione del lavoro dalle sue forme parcellizzate e alienate. Ed è appunto intorno a questi nodi che si svolge oggi lo scontro di classe.

C’è una vecchia cultura imprenditoriale, gretta e autoritaria, che punta a restaurare un’anacronistica gestione autocratica del sistema delle imprese. E c’è, sull’altro versante un bisogno reale di cambiamento, di controllo, democratico sui processi di ristrutturazione, di conquista di nuove, più aperte forme di organizzazione del processo produttivo.

Non è solo un tema sindacale, ma politico. Le forze politiche della sinistra non possono non misurarsi su questo terreno, e una politica si definisce di sinistra proprio in quanto assume come proprio obiettivo la democratizzazione del potere, la rottura del processo in atto che porta ad una centralizzazione estrema delle decisioni e a una perdita di autonomia e di responsabilità per larghe masse di lavoratori.


Numero progressivo: A49
Busta: 1
Estremi cronologici: 1986, dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: “Input”, dicembre 1986