DEMOCRAZIA E RAPPRESENTANZA SOCIALE NELL’ERA POST-IDEOLOGICA
Convegno nazionale SPI CGIL 2 Aprile 2008
Introduzione di Riccardo Terzi
Nel programma di lavoro che ha preparato la Conferenza di organizzazione della CGIL, lo SPI ha voluto inserire un momento di riflessione intorno ad alcuni nodi teorici e strategici, organizzando un confronto sul tema “Democrazia e rappresentanza sociale nell’era post-ideologica”. È un titolo piuttosto ambizioso e impegnativo. Ma credo che sia giusto il proposito di gettare uno sguardo oltre il contingente, per mettere a fuoco il contesto, storico e culturale, nel quale siamo immersi, e per misurare gli effetti di questo “passaggio d’epoca” che si sta consumando su scala mondiale. Con questo numero dei Quaderni di Rassegna Sindacale non riproduciamo gli atti del convegno, ma raccogliamo dei contributi sul tema, che prendono spunto dall’iniziativa dello SPI, ma sono il frutto di una autonoma e più ponderata riflessione. Io cercherò qui di ripercorrere la traccia introduttiva che ha aperto il convegno, integrandola con qualche nuovo spunto di riflessione. La premessa è che siamo entrati in una nuova fase storica, che mette in discussione tutte le tradizionali categorie di interpretazione della realtà, e che ci spinge verso uno straordinario sforzo di innovazione, teorica e pratica. Ai cambiamenti materiali (globalizzazione, post-fordismo) si accompagna un rovesciamento delle coordinate culturali con cui viene letta e interpretata la realtà, e si può parlare, in questo senso, di un salto di egemonia, di una rottura con tutta la storia ideologica del Novecento, con la sua rappresentazione di un processo storico che è tutto affidato ai grandi soggetti collettivi (classi, partiti, stati). Il Novecento è ancora il secolo di Hegel e di Marx: è il secolo della politica che vuole dominare e cambiare il mondo. Diversi e opposti sono i progetti, di destra o di sinistra, ma essi hanno in comune il primato della politica, l’idea cioè che tutta la sfera degli interessi individuali debba cedere il passo ad un più generale progetto storico-politico. La società civile è solo – come la definisce Hegel – il “sistema dei bisogni”, ed è incapace di regolare autonomamente i suoi rapporti, se non interviene dall’esterno un’autorità politica che sia in grado di disciplinarla e di ricondurla all’interesse generale.
Ed è proprio qui, in questo punto teorico, che avviene il rovesciamento. Al primato della politica subentra il primato della società civile, alla dimensione collettiva quella individuale, e ai grandi affreschi ideologici l’idea che ormai siamo entrati nell’era post-ideologica. È lo spirito dell’antipolitica che agisce in profondità come un grande movimento sotterraneo che disarticola tutte le culture politiche tradizionali. Non dobbiamo vedere solo gli aspetti più esteriori e vistosi, ma cogliere quella che è una tendenza generale, il fatto cioè che la società tende ad auto-rappresentarsi in opposizione alla politica, come la sua antagonista. Tutta la retorica corrente intorno alla società civile è il rovesciamento del paradigma hegeliano: la politica non è più il luogo della sintesi, dell’interesse generale, ma diviene essa il principale fattore di divisione e di frammentazione.
La politica appare solo come un groviglio di piccoli interessi di gruppo, di competizioni per il potere, senza che vi sia, da parte di nessuna delle forze in campo, la capacità di incanalare in un comune orizzonte le energie vitali della società. Da qui il rovesciamento di prospettiva: la politica deve lasciare il passo alla società civile. Non si tratta solo di una rappresentazione, ma di un reale offuscamento della funzione rappresentativa dei soggetti politici e della loro capacità di regolazione del processo sociale. È la politica che si è inceppata, perché subisce il dominio delle forze, apparentemente neutrali, che gestiscono l’economia globale. La politica, chiusa entro confini sempre più ristretti, non ha più né la capacità né l’ambizione di progettare un futuro.
In realtà, tutto questo nuovo impianto non è l’uscita dalle ideologie, non è un atto liberatorio, ma è il dominio di una ideologia ancora più stringente e oppressiva, in quanto non c’è più nessuno spazio per un progetto di cambiamento, e la realtà contingente nella quale siamo si afferma come l’unica realtà possibile. L’unica politica sensata, dal punto di vista post-ideologico, è la politica dell’adattamento, perché ogni idea che si proietta oltre i dati immediati della realtà non è altro che una fuga nelle illusioni ideologiche. Il post-ideologico, quindi, non è altro che l’ideologia conservatrice, la sublimazione di ciò che c’è, e l’esclusione pregiudiziale di ogni possibile immaginazione del futuro.
Occorre allora, se non vogliamo cadere in questa trappola, un’opera di demistificazione: non per tornare alle ideologie del Novecento, ma per tenere aperto lo spazio di una progettazione politica. L’ideologia è il modo in cui interpretiamo la realtà, è l’insieme delle categorie con cui leggiamo il nostro mondo. Che queste categorie debbano oggi essere profondamente rivisitate non c’è dubbio, ma abbiamo pur sempre bisogno di una interpretazione, di una rappresentazione, per capire dove siamo e dove possiamo andare. Insomma, quando si dice: liberiamoci delle ideologie, il rischio è quello di atrofizzare il pensiero, di gettar via non solo ciò che c’è di caduco nelle vecchie rappresentazioni politiche, ma l’idea stessa che ci sia bisogno di una cultura politica, di una teoria, di un progetto. È in questo senso che possiamo definire come post-ideologica la nostra epoca, non perché vi sia nella realtà un superamento delle rappresentazioni ideologiche, ma perché è l’ideologia dominante che si autorappresenta come la fine delle ideologie, come un punto d’arrivo definitivo che fa giustizia di tutte le illusioni novecentesche. E il punto d’arrivo è la pura e semplice accettazione della realtà dei suoi rapporti di potere, la quale viene assunta come l’unico possibile naturale equilibrio. Come ideologico viene liquidato ogni tentativo, anche parziale, di operare un qualche movimento di rottura con questa realtà ormai cristallizzata. Tutta questa ansia di gettare alle nostre spalle ogni ideologia, vale a dire ogni forma di pensiero organizzata e strutturata, ci riduce in una posizione di estrema debolezza e fragilità, dominati da processi oggettivi che non sappiamo più né controllare né interpretare. Ciò che contraddistingue la nostra attuale condizione è la sua eteronomia, il fatto cioè di essere in una posizione di totale dipendenza.
In ogni caso, però, non è possibile prescindere dallo spirito del nostro tempo, e tutto il rapporto tra politica e società deve essere declinato in modo nuovo, perché c’è una società civile che ha maturato il senso della sua autonomia e che pone nuove e più stringenti domande alla politica, sia sul lato dell’efficacia dei risultati sia su quello della trasparenza del processo decisionale. Non regge più il primato della politica, inteso come dominio, come intervento dall’alto, in una logica di verticalizzazione e concentrazione del potere. Il concetto di autonomia diviene la parola-chiave: autonomia dei soggetti sociali, delle comunità territoriali, degli stessi progetti di vita delle persone. La regolazione politica deve saper coordinare tutte queste diverse sfere di autonomia, e per questo occorre la duttilità del confronto e della mediazione, e serve a poco l’arroganza del decisionismo.
Ma questo modello di una democrazia partecipata è ancora tutto da costruire. Esso richiede un duplice movimento: una politica non autoreferenziale, che sia capace di dialogo con le articolazioni della società, e una società che non sia arroccata nei corporativismi e sia aperta al discorso pubblico. Su entrambi questi fronti la nostra situazione nazionale è particolarmente arretrata e critica. Noi abbiamo insieme l’antipolitica e l’arroganza della politica, la corporativizzazione del corpo sociale e la velleità di un decisionismo politico fuori tempo. C’è insomma una situazione di impasse nel funzionamento della vita democratica, e le diverse analisi correnti finiscono per cogliere in modo unilaterale solo un aspetto del problema, sia la tesi di un deficit di autorità e di decisione, che è oggi quella più ricorrente, sia la tesi opposta di un deficit di partecipazione. Il fatto è che decisione e partecipazione sono i due lati di un unicum non divisibile, l’una è essenziale all’altra, e la crisi democratica si apre nel momento in cui esse si separano e camminano ciascuna per sé.
Ed è questa la nostra situazione: una politica impotente, ma aggrappata al suo simulacro di potere, col risultato di apparire solo come una “casta”, come un’inutile sovrastruttura, e dall’altro lato una somma di corporativismi e di localismi che si annullano reciprocamente e impediscono qualsiasi decisione democratica. In questa situazione, il potere reale finisce per collocarsi fuori dai circuiti della democrazia politica (poteri economici, strutture tecnocratiche, agenzie funzionali) e la politica è il campo di una competizione rissosa, ma senza oggetto, è la spettacolarizzazione mediatica del potere, mentre il potere reale se ne è andato altrove. La politica tende così ad essere una delle forme dell’intrattenimento, un infinito festival televisivo, dove è in gioco l’apparire e non il decidere.
Se è così, tutti i movimenti dell’antipolitica falliscono il bersaglio, perché pretendono di colpire qualcosa che non c’è più. Politica e società civile sono immerse nello stesso processo, di svuotamento, di indebolimento, e si rispecchiano l’una nell’altra: sono entrambe frammentate, segmentate, incapaci di assumere una iniziativa vincente intorno alle nuove emergenze sociali.
Sta esattamente qui la forza dell’attuale destra italiana, in questo groviglio non districato di interessi settoriali e di meccanismi di scambio tra politica e società. La sua forza è nel carattere snervato di una società che non sa pensare se non secondo il calcolo contingente delle convenienze particolari. Vediamo qui all’opera il post-ideologico. La destra non ha nessuna teoria, ma si identifica con gli umori e con i livori di una società individualizzata e iper-competitiva, e la sua ideologia, se così si può chiamare, è solo uno strano guazzabuglio, in cui può entrare di tutto. Non è una novità, perché anche il fascismo era solo culto dell’azione e mistica del potere. La destra, come sempre, va al sodo, e non si lascia travagliare dalle dispute teoriche. E andare al sodo vuol dire consolidare i rapporti di potere e le gerarchie sociali, utilizzando tutti gli strumenti disponibili. Paradossalmente, è proprio la destra a prendere molto sul serio il primato della struttura sulla sovrastruttura. La stessa religiosità viene svilita e degradata come mera convenienza politica, come un collante esteriore con cui fingere di tenere insieme una società che è andata in pezzi. Stupisce che la Chiesa si lasci così strumentalmente usare. Essa si propone come un argine alla individualizzazione, ma in realtà finisce per esserne essa stessa travolta, nel momento in cui cerca protezioni e favori, e si adatta ad essere la copertura di un mondo eticamente opaco e indifferente. Da questo punto di vista non basta oggi, nel confronto con le fedi e con le istituzioni religiose, il criterio della laicità, in una logica di separazione e di reciproca neutralità delle due sfere. Il punto critico oggi è un altro, è il contenuto etico e sociale che la religione intende trasmettere. Ed è proprio qui che la Chiesa non appare all’altezza del nostro tempo, non perché è invasiva, ma perché è del tutto compromissoria con il potere, funzionale ad una politica di conservazione. Naturalmente, c’è un conflitto aperto dentro la stessa comunità religiosa, ma l’impronta prevalente, non c’è dubbio, è quella di un nuovo patto di potere.
Ho tratteggiato un quadro un po’ fosco, ma credo che sia realistico prenderne coscienza, anche per capire da dove si può ripartire, su quali elementi si può far leva, su quali energie potenziali, per uscire da questo stato di crisi. Contrariamente alla vulgata oggi dominante, non credo che il primo passo necessario sia quello delle riforme istituzionali: legge elettorale, forma di governo, pubblica amministrazione. Questa tesi si basa sul presupposto che solo la sfera politica ha bisogno di una modernizzazione, di una riforma, che si tratta quindi di partire dall’alto, dai meccanismi decisionali, e che tutto il resto seguirà. È la politica che si è inceppata. Ma si dimentica che la politica riflette la frammentazione e la corporativizzazione del corpo sociale. Le riforme istituzionali, da sole, potranno far poco se non c’è contestualmente un processo sociale, una ricostruzione dal basso di un reale tessuto democratico. Trentin, in questo senso, parlava negli ultimi anni di una riforma della società civile, vedendo in essa la condizione necessaria di una nuova stagione riformatrice. Se la società è bloccata nella morsa dei corporativismi, la democrazia politica non può funzionare.
Questa è la vera priorità strategica, ed è questo il compito cruciale che ha davanti a sé la sinistra, riformista o radicale che essa sia, il compito di ricostruire un proprio fondamento sociale, a partire dal lavoro e dalle trasformazioni profonde che lo hanno in questi anni attraversato e modificato. È questo un lavoro che richiede sia la pazienza e la gradualità del riformismo, sia la radicalità di una analisi sociale non addomesticata per ragioni di convenienza. Sul piano politico, ci può essere pluralismo e competizione. Ma sarebbe bene non perdere di vista quello che è un compito comune. La sinistra può essere plurale, articolata. Ma nel momento in cui si introduce al suo interno una frattura ideologica, tra riformisti e radicali, e gli uni diventano i principali nemici degli altri, allora accade che non ci sono due sinistre, ma nessuna sinistra. Da un lato, c’è una rincorsa moderata, e dall’altro un velleitarismo senza nessuna prospettiva. Una sinistra così divisa e sconclusionata non può che approntare la sua rovina. La sinistra non può che definirsi a partire dai processi sociali, dai conflitti, dai movimenti e dalle esperienze reali di organizzazione che prendono corpo nella società. Ma è proprio questo lavoro che è mancato negli ultimi anni.
Vanno ridefinite le linee, le mappe del conflitto. E il tratto fondamentale del cambiamento è nel fatto che il conflitto investe l’intera condizione sociale, i suoi meccanismi di inclusione e di esclusione, i percorsi di vita delle persone, non solo nel lavoro e nel reddito, ma nell’accesso alle conoscenze, nei sistemi di welfare, nella rete delle relazioni. E il tema diviene allora quello della precarietà e della marginalità, dell’immenso spreco di energie umane che la società produce. Stiamo superando i vincoli rigidi del lavoro “necessario”, che deve solo riprodurre le condizioni elementari di sussistenza, e il lavoro si apre potenzialmente ad una straordinaria stagione di creatività e di autonomia. Ma questo passaggio non dà luogo ad un nuovo progetto sociale inclusivo, perché nel lavoro si introduce una netta divaricazione, tra un nucleo ristretto che presidia le funzioni strategiche e una massa di manovra che deve adattarsi alle fluttuazioni del mercato. Non basta allora dire: premiamo il merito, perché non si tratta solo di aprire la strada ai più capaci, ma di affrontare una più generale emergenza sociale. Diciamo almeno, come diceva il vecchio PSI: meriti e bisogni. Tutto questo deve essere rappresentato e organizzato, e ciò chiama direttamente in causa le responsabilità del sindacalismo confederale, che fa fatica a spostare l’asse della sua iniziativa dai luoghi di lavoro tradizionali alle nuove figure sociali, e ai nuovi bisogni, di sicurezza, di crescita e di autonomia professionale, che esse esprimono.
Fare rappresentanza della nuova composizione sociale: questo è il tema da affrontare. Ed è proprio nel vuoto della rappresentanza che passa più agevolmente il messaggio del populismo e dell’antipolitica, come dimostra tutta la più recente storia politica nelle aree del paese più esposte al cambiamento, dove i vecchi presidi democratici sono saltati, sono entrate in crisi le identità tradizionali, e c’è una moltitudine sociale dispersa nel territorio, senza un ruolo, senza una identità riconosciuta, che diviene la base di massa da mobilitare al servizio della destra. La società civile è forte e matura se è organizzata, se ci sono soggetti sociali riconosciuti, se i luoghi del conflitto vengono presidiati con un’azione consapevole, per costruire le possibili mediazioni, per governare e regolare il pluralismo degli interessi. Le difficoltà della rappresentanza sono l’effetto di una struttura sociale sempre più fluida, molecolare, non organizzata in blocchi omogenei, per cui vengono meno i tradizionali punti di forza, e si tratta di inventare nuove forme organizzative. Ma occorre anche, contestualmente, un’altra condizione, un processo democratico aperto che renda sempre possibile il confronto delle posizioni e la verifica del consenso intorno alle decisioni politiche. Senza uno spazio democratico, le rappresentanze si corporativizzano, e anche il sindacato è sempre esposto a questa possibile involuzione. Per questo, io credo che, nella situazione data, la scelta fondamentale sia quella di allargare tutti gli spazi possibili di democrazia, perché solo così società e politica tornano ad essere in un rapporto di comunicazione, e solo così la società civile si apre alla politica, si interroga sui progetti per il futuro, e si schioda dalla grettezza dei particolarismi. La democratizzazione dei processi e delle strutture di potere, è questo l’anello decisivo, il cardine di una possibile strategia di attacco. Nel momento in cui tutta la situazione si è involuta nel senso di una gestione oligarchica e tecnocratica, occorre riattivare un processo partecipativo dal basso, e capire che qui c’è una leva che potenzialmente può scardinare gli equilibri consolidati. Il Partito democratico poteva essere l’agente di questa strategia, puntando ad essere lo strumento al servizio di un processo generale di democratizzazione di tutte le strutture di potere. Ma questa possibile intuizione strategica non è stata raccolta, e oggi è assolutamente impossibile definire che cosa sia questo partito, quale sia la sua rappresentanza sociale e la sua cultura politica. Eppure, nonostante la miopia dei gruppi dirigenti, può ancora essere il luogo e lo strumento di una battaglia democratica, in attesa che qualcuno si decisa ad organizzarla. Ma è soprattutto il sindacato confederale lo strumento da attivare per una nuova offensiva democratica. Rappresentanza e democrazia sono i due passaggi essenziali. E in questi passaggi il ruolo del sindacato è fondamentale, proprio per la sua natura ambivalente, come rappresentante di interessi parziali e come titolare di un progetto sociale che va oltre l’immediatezza degli interessi. In questo consiste, appunto, la nostra confederalità, che è il processo di unificazione del mondo del lavoro, per dare ad esso una coscienza unitaria, una identità, che non sia solo la somma delle situazioni settoriali. E la scelta del territorio come luogo della strategia sindacale ha il significato di individuare il campo, concretamente praticabile, in cui questa riunificazione può avvenire, organizzando su questa base tutta l’azione contrattuale. Il territorio è al centro dei conflitti, tra globalizzazione e localismo, tra flussi e luoghi, ed è qui che la politica deve esercitare la sua funzione regolatrice, così come è nel territorio che i soggetti sociali possono divenire i protagonismo di un azione condivisa e concertata per dare vita a dei sistemi territoriali socialmente coesi e capaci di agire nella competizione internazionale. La conferenza d’organizzazione della CGIL ha individuato con nettezza il territorio come il luogo strategico della futura azione sindacale.
Molto dunque è nelle nostre mani, perché noi possiamo essere i mediatori del rapporto con la politica, e i promotori di un processo di partecipazione democratica, come è accaduto in occasione dell’ultimo referendum. Ma occorre dare continuità e coerenza a questo lavoro. La centralità del territorio deve ancora essere declinata e definita in tutti i suoi aspetti, organizzativi, contrattuali, istituzionali. E occorre una impostazione teorica, che sia capace di analizzare il nuovo complicato scenario politico ed economico che caratterizza l’odierno quadro del mondo globalizzato. Qui, su questi nodi, necessariamente si incrociano azione sindacale e azione politica. Ma ogni tentativo di colonizzazione del sindacato, da qualunque parte venga, deve essere respinto, perché la forza e l’autorevolezza del sindacalismo confederale sta nell’essere il luogo in cui la rappresentanza del lavoro trova la sua sintesi unitaria. Ecco i temi della nostra discussione: politica e società civile, rappresentanza e democrazia, sindacato e progetto politico. Si tratta di temi necessariamente aperti a diverse valutazioni e interpretazioni. Questa mia introduzione è solo una traccia. Spero che serva ad aprire una discussione.
Busta: 5
Estremi cronologici: 2008, 2 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Di questo testo esistono due versioni: la relazione presentata al convegno e una sua estensione, pubblicata su “Quaderni di Rassegna Sindacale”
Pubblicazione: “Quaderni di Rassegna Sindacale”, n. 3, 2008. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 49-58