DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE

Seminario FIOM Lombardia - febbraio 1985

Intervento di Riccardo Terzi – Segretario CGIL Regionale

Mi sono sembrate d’un certo peso le considerazioni politiche presenti nella parte iniziale della relazione di Fanzaga, là dove le problematiche della democrazia sindacale venivano ricondotte ad un tema più vasto, quello della battaglia per un processo di democratizzazione della società italiana, per una redistribuzione democratica del potere, sia economico che politico.

Da questo punto di vista, le tendenze in atto oggi nella società italiana presentano molti aspetti negativi e preoccupanti. C’è, sotto il profilo economico, la tendenza alla restaurazione di un potere discrezionale nelle aziende e, quindi, ad un esautoramento del potere di controllo democratico dei lavoratori; e, sotto il profilo politico, vi sono tendenze all’accentramento del potere, che rappresentano un passo indietro rispetto alla crescita democratica degli ultimi anni.

Su differenti versanti, su quello economico come su quello politico, andiamo verso una stretta, che ripropone come fondamentale per le forze della sinistra il tema del controllo democratico. In un momento in cui non appare molto chiaro quale sia il tessuto connettivo della sinistra, andrebbe messo l’accento sulla necessità di lavorare per un programma di sviluppo democratico.

Il movimento sindacale si trova nel vivo di questo scontro.

C’è – come ricordava Cremaschi nel suo intervento – uno spartiacque che taglia le diverse forze sociali e politiche. Il Sindacato ne è investito direttamente e può continuare ad avere un ruolo ed un peso nella società se andrà avanti un processo di democratizzazione. In caso contrario ne risulterà travolto. E, pertanto, prima di porre in discussione i temi più interni della vita sindacale, è in questione il ruolo del sindacato, la sua capacità effettiva di controllo e di contrattazione dei processi, la sua stessa rappresentanza sociale. Non possiamo nasconderci che in questi ultimi anni abbiamo dovuto subire un notevole arretramento. Senza indulgere ai giudizi sommari sulla crisi del sindacato, non possiamo non sottolineare questo arretramento, perché solo partendo da un esame obiettivo della situazione possiamo individuare gli strumenti coi quali far fronte alle attuali difficoltà. C’è stato un arretramento sul piano della capacità di controllo e di contrattazione. I processi di trasformazione che sono avvenuti e che stanno avvenendo vedono il sindacato spiazzato. Abbiamo fatto in questi giorni un bilancio della contrattazione articolata aziendale di quest’ultimo anno. Il risultato è misero: rischiamo di avere una contrattazione soltanto residuale, mentre i processi di fondo vengono decisi unilateralmente dalle imprese. Ed abbiamo perso terreno anche dal punto di vista della capacità di rappresentanza sociale del sindacato: rischiamo di rappresentare solo il nucleo storico, tradizionale, della classe operaia, senza riuscire ad attivare nella milizia sindacale nuove forze professionali e nuovi settori. Si registra così un restringimento della nostra capacità di rappresentanza.

Sulla base di questa sintetica analisi, il tema della democrazia sindacale si presenta anzitutto come tema del rapporto con l’insieme dei lavoratori. C’è una differenza di sostanza tra il nostro approccio e quello della CISL: la CISL pensa esclusivamente ad una democrazia di organizzazione, mentre per noi è essenziale, proprio al fine di una ripresa di ruolo del sindacato, una più ampia capacità di rappresentanza.

Il punto di riflessione decisivo è quello del rilancio del ruolo dei consigli di fabbrica.

Prendendo in esame l’attuale ruolo dei consigli, possiamo notare che entrano tendenzialmente in conflitto le due funzioni che sono state loro assegnate. Noi abbiamo pensato ai consigli come ad organismi che insieme dovevano essere rappresentativi di tutti i lavoratori e strutture di base del sindacato. La sintesi di questi due elementi è sempre più difficile, ed è messa quotidianamente in discussione dalla crisi dell’unità sindacale.

Per questo, se ci limitiamo a dire che i consigli debbono essere l’una e l’altra cosa, facciamo un’astratta affermazione di principio, che non trova corrispondenza nei fatti. Si tratta allora di stabilire qual è la scelta fondamentale da compiere. Il ruolo che va prioritariamente salvaguardato è quello di rappresentanza generale di tutti i lavoratori.

Si può pensare ad un rapporto dialettico tra strumenti di democrazia diretta e strumenti di democrazia delegata. Posso anche mettere nel conto la possibilità che ad un certo punto alcune organizzazioni decidano di costituire dei propri terminali di organizzazione in fabbrica. È preferibile questo sbocco, anche se non va incoraggiato, ad una soluzione pasticciata, ad uno snaturamento del ruolo dei consigli, ad una forma di democrazia mista, per cui i consigli in parte sono eletti dai lavoratori ed in parte sono designati dall’esterno. E laddove esistono realtà che non rientrano nelle strutture confederali, dove esistono sindacati autonomi che siano davvero rappresentativi, queste forze nei consigli ci debbono stare. I consigli, in quanto organi di rappresentanza generale di tutti i lavoratori, devono poter riflettere democraticamente l’insieme delle forze, anche quando le esigenze di rappresentanza democratica non coincidono con i confini organizzativi delle Confederazioni.

Accanto a questo, c’è un problema di procedure di consultazione (come il referendum) di tutti i lavoratori, che dovrebbero divenire non eccezionali, ma ordinarie.

Si dovrebbe decidere non che il referendum si fa in condizioni di estrema difficoltà, ma ogni qualvolta si tratti di prendere decisioni riguardanti piattaforme ed accordi a livello di azienda.

C’è però da considerare un aspetto molto complicato: il rapporto tra democrazia di massa ed unità sindacale. Questi due elementi non procedono parallelamente ed esiste anzi un certo conflitto tra di loro.

Il processo di democrazia e quello di unità hanno corsi diversi e noi, pertanto, abbiamo il dovere di muoversi con la massima accortezza, tenendo presenti insieme queste due diverse esigenze.

Questo problema non è risolvibile a colpi d referendum o usando la democrazia come una specie di resa dei conti. Resta una esigenza di mediazione politica e di ricerca unitaria: dobbiamo evitare di esserne paralizzati, ma essa, comunque, esiste e non può essere elusa.

Qualcuno ha fatto cenno alla vicenda della Magneti Marelli. Io considero giuste le scelte adottate. Ritengo però che quella vicenda non possa essere considerata un modello, né per i contenuti, né per la forma. Lì abbiamo compiuto una scelta che era avvalorata dal consenso dei lavoratori e anche dall’unità con la stessa CISL a livello di fabbrica. Ma non possiamo avventurarci in maniera troppo disinvolta su una linea che ci porti a fare dappertutto atti di rottura verticale con le altre organizzazioni sindacali.

Quella dell’unità è una questione molto importante per il nostro dibattito e per le scelte che dobbiamo compiere. Non voglio prendere in esame le posizioni della CISL e le ragioni (strategiche o non strategiche) di differenziazione esistenti oggi all’interno del movimento sindacale. Mi limito a dire che sarebbe un errore politico molto grave se considerassimo come archiviato il tema dell’unità sindacale, e definitivamente bloccato il processo unitario. Questo processo non dipende soltanto da noi.

Nelle posizioni della CISL c’è al di là delle divergenze reali, una volontà d’accentuare gli elementi di divergenza, di marcare l’identità d’organizzazione. A questo integralismo non dobbiamo rispondere con un integralismo di segno opposto. Quanto più sono presenti queste spinte all’arroccamento nella CISL, tanto più dobbiamo cercare di liquidare nella CGIL ogni tentazione d’arroccamento, sforzandoci di caratterizzare la nostra organizzazione come un’organizzazione aperta al confronto ed impegnata al massimo per una ripresa del processo unitario, per valorizzare tutte le potenzialità unitarie ancora esistenti.

Prima di concludere il mio intervento voglio formulare qualche considerazione sulla CGIL e, anche in vista del Congresso, sui problemi di democrazia all’interno della nostra organizzazione.

Fanzaga, nella sua relazione introduttiva ha seguito una linea di equilibrio e di realismo, ma ha forse sottovalutato la necessità, per la nostra organizzazione, di un più coraggioso processo di rinnovamento.

Uno dei temi da affrontare è quello che riguarda i rapporti della CGIL con le componenti politiche. Castano ha detto che la nostra organizzazione, storicamente, si è formata così; che si tratta quindi di un dato strutturale. Io credo, invece, che dobbiamo guardare un po’ più in avanti. Nel mondo del lavoro di oggi i riferimenti politici hanno un peso diverso nella coscienza della gente, e la CGIL, se non si rinnova, rischia di essere una struttura che non corrisponde a sufficienza ai cambiamenti avvenuti nella coscienza dei lavoratori. Se la CGIL è (o appare) soltanto una sommatoria di componenti politiche finirà fatalmente per non riuscire ad aver forza d’attrazione sufficiente verso la nuova realtà del mondo del lavoro.

Questo tema è molto importante, e va affrontato con realismo e con gradualità, cercando di compiere qualche passo in avanti. Quanto più pesano nella vita interna della CGIL le componenti di partito, tanto meno c’è la CGIL come forza autonoma. È una realtà che abbiamo constatato anche nel recente passato: in quest’anno travagliato abbiamo visto che in corrispondenza di una accentuazione dei collegamenti partitici c’è una messa in crisi della CGIL e del suo ruolo autonomo. Su questo problema va avviata una riflessione, cercando di individuare forme d’organizzazione interna più duttili, meno rigide, e tentando di dar voce nei gruppi dirigenti, e nell’insieme dell’organizzazione a forze che non hanno nessun rapporto organico con i partiti della sinistra, ma che sono parte del movimento operaio.

C’è, poi, la necessità di ridurre il peso di fenomeni di burocratizzazione esistenti all’interno della CGIL. La nostra organizzazione ha una struttura molto complessa, eccessivamente complessa, per cui qualsiasi decisione rischia di essere bloccata dovendo passare attraverso mille organismi. La pesantezza degli apparati e delle strutture di vario tipo (orizzontali e verticali) pone l’esigenza di una riforma organizzativa. Negli anni passati questo tema è stato affrontato, ma l’esito non ha corrisposto alle necessità ed anzi, in molti casi, questa riforma organizzativa s’è tradotta in un appesantimento ulteriore degli apparati.

C’è bisogno di una struttura organizzativa che consenta un approccio più diretto con la realtà de1 mondo del lavoro. Il rapporto con questa, realtà è invece frammentario e saltuario. La struttura regionale della CGIL, ad esempio, rischia di svolgere soltanto un’opera di mediazione tra altre strutture.

Si pone, per la CGIL, il problema di uno snellimento delle procedure interne, in maniera che l’insieme del corpo dirigente della CGIL stabilisca un rapporto vero, diretto, con la realtà dei luoghi di lavoro.

C’è poi un problema di legittimazione democratica dei gruppi dirigenti. Sarebbe un errore eliminare il principio del voto segreto, che resta la forma di espressione più democratica. Chi difende il voto palese lo fa in quanto esso è più manipolabile. Ma il voto palese non dà la possibilità di esercitare una vera scelta tra alternative diverse. L’esercizio del voto segreto deve però essere attentamente guidato, in quanto esiste un problema di equilibri e di garanzie da dare all’insieme dell’organizzazione.

Si avverte infine la necessità di un elevamento della qualità del nostro lavoro. Ci troviamo, oggi, a fare i conti con vasti processi di innovazione e di ristrutturazione, con la necessità di compiere· una sperimentazione di nuove relazioni industriali. È molto importante l’accordo IRI”, sul quale già altri compagni hanno posto l’accento. L’accordo IRI” apre una strada nuova, sulla quale ci dovremo misurare nel prossimo futuro. Siamo pronti a farlo? Mi pare che per il momento il problema sia stato sottovalutato, e che si sia accumulato un preoccupante ritardo: a due mesi dalla stipulazione dell’accordo, infatti, nelle fabbriche IRI non ha avuto ancora luogo alcuna assemblea per illustrare i contenuti dell’accordo ai lavoratori. C’è il rischio di passare sopra la testa dei lavoratori mentre invece la necessità, per far funzionare l’accordo e ottenere i risultati possibili, è quella di conquistare e mobilitare i nostri quadri di fabbrica. Per far funzionare questo nuovo modello di relazioni industriali è indispensabile la presenza di un sindacato che sia in grado di alzare il tiro della propria elaborazione. E questo richiede l’impegno complessivo dei gruppi dirigenti e dei quadri, un elevamento della capacità complessiva del sindacato.

Ho segnalato una serie di “nodi”. Non so se il prossimo congresso segnerà una “svolta” per la CGIL. M’accontenterei di un risultato più modesto: compiere qualche passo, anche parziale ma concreto, in direzione di un miglioramento e di uno sviluppo della democrazia e della capacità del sindacato di far fronte ai problemi che deve affrontare.


Numero progressivo: A54
Busta: 1
Estremi cronologici: 1985, 25-26 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -
Pubblicazione: ?