DA SUD A NORD
di Riccardo Terzi – Segretario nazionale SPI CGIL
Quando, 150 anni fa, si costituisce in Italia uno Stato unitario, sotto le insegne della monarchia dei Savoia, ciò che si realizza è solo un punto di partenza, ancora molto fragile e precario, non solo perché sono ancora esclusi alcuni territori di confine, ed è ancora irrisolta la questione romana, ma perché la nazione italiana è ancora tutt’altro che unificata, sotto il profilo culturale, linguistico, economico. L’unità d’Italia si presenta allora come un progetto, come un traguardo ancora lontano, per dare compimento agli ideali di indipendenza nazionale che hanno animato tutti i diversi movimenti del Risorgimento. Ci sono ancora molte ferite aperte: un Sud arretrato, che in molti casi non si è riconosciuto nella nuova autorità statale, dando vita a movimenti di rivolta, la Chiesa cattolica che si è chiusa in una posizione di ostilità, uno Stato centralizzato che fa fatica a tenere insieme realtà molto diverse, e più in generale l’Italia si presenta come una costruzione ancora artificiosa, perché manca di una cultura e di una coscienza unitaria.
Ma quell’evento resta un fatto storico di grande importanza, che è giusto riconoscere e celebrare, perché da allora si attua progressivamente un processo di unificazione, di integrazione, per dare vita ad una effettiva coesione nazionale. È un processo complesso, in cui si intrecciano diversi progetti politici, diversi protagonisti, diverse idee sul futuro dell’Italia. La storia non è mai un movimento lineare, ma essa procede per salti, per rotture, per conflitti, e può dunque essere compresa nella sua verità solo se facciamo venire alla luce tutta la sua trama contraddittoria, prendendo in considerazione anche i progetti che non si sono realizzati, le potenzialità inespresse, le correnti minoritarie che sono state sconfitte.
E, nel caso del nostro Risorgimento, è proprio a questo livello profondo che dobbiamo saper attingere, per riscoprire intuizioni e idealità che andavano ben al di là di ciò che si è storicamente realizzato: il radicalismo di Pisacane, il federalismo di Carlo Cattaneo, le correnti democratiche e repubblicane. Non possiamo fermarci alla storia ufficiale, scritta dai vincitori, ma dobbiamo vedere in tutta la sua ricchezza e nelle sue diverse articolazioni il lungo e contrastato cammino dell’unità nazionale. Mentre i moti del Risorgimento avevano mobilitato solo ristrette èlites intellettuali, è l’entrata in scena dei grandi partiti di massa che dà finalmente un fondamento unitario allo Stato nazionale, e questo processo ha il suo punto culminante nella lotta antifascista e nel nuovo patto costituzionale, che riesce per la prima volta a saldare un rapporto di reciproco riconoscimento tra Stato e popolo, tra istituzioni e società civile. I protagonisti della Resistenza hanno parlato, giustamente, di un “secondo Risorgimento”, di un nuovo atto fondativo, con il quale si cancellano le vergogne della dittatura fascista e le numerose complicità, della monarchia, della Chiesa, delle classi possidenti, che l’avevano resa possibile, e si apre davvero una nuova pagina nella storia della nazione. Per questo, noi non ci sentiamo affatto estranei alle celebrazioni dell’unità d’Italia, perché il movimento operaio è stato uno dei principali protagonisti di questa storia, e non ci sarebbe l’Italia democratica senza la mobilitazione attiva dei lavoratori e dei movimenti popolari.
Ma occorre anche vedere che il processo di unificazione non è concluso, e c’è ancora un impegnativo lavoro da svolgere. L’Italia è ancora, per molti aspetti, una realtà divisa: tra Nord e Sud, tra cittadini italiani e immigrati, tra inclusi ed esclusi, e negli ultimi anni le spinte disgregatrici hanno ripreso forza, creando nuove diseguaglianze e mettendo in discussione alcuni diritti fondamentali. L’unità non può essere solo un simbolo astratto, una bandiera, una retorica, ma deve fondarsi su una reale solidarietà, su un senso comune di appartenenza, il quale può essere dato solo dal riconoscimento e dalla garanzia di uguali diritti di cittadinanza. È questo fondamento unitario che oggi viene rimesso in discussione, sia sul versante territoriale, mobilitando il Nord contro il Sud, sia sul versante sociale, invocando il mercato contro i diritti del lavoro.
Occorre oggi misurarsi con una operazione politica che ha tentato di offrire al Nord una sorta di autorappresentazione ideologica, in un rapporto conflittuale col resto del paese e con il centralismo statale. Entra così nel dibattito politico la “questione settentrionale”, come questione di identità del Nord e come rivendicazione di autonomia, ricalcando tutti gli antichi stereotipi del Nord operoso e del Sud parassitario, per cui si tratta solo di dare via libera a questa operosità, al suo dinamismo, senza più essere frenati e appesantiti da tutti i vincoli di una legislazione e di una fiscalità opprimenti, e senza dover pagare un costoso quanto improduttivo tributo alla solidarietà nazionale.
Si è così rovesciata tutta una tradizione politica: non è il Mezzogiorno che paga il prezzo di uno sviluppo distorto e squilibrato, non è la diseguaglianza il grande tema nazionale, ma all’opposto è l’eccesso di eguaglianza, è un’unità nazionale tenuta in piedi forzosamente, a cui non corrisponde nulla di reale, perché ci sono diverse Italie, che hanno diversi ritmi, diverse culture, diversi modelli sociali. Possiamo anche trascurare le proclamazioni secessioniste, il mito della Padania indipendente, perché si può dire che questo apparato simbolico era solo uno strumento di agitazione propagandistica, e che nel corso del tempo si sono affermate posizioni più equilibrate, con il passaggio dalla secessione al federalismo. Ma, se guardiamo bene, l’idea di fondo è rimasta la stessa, perché non cambia la struttura concettuale, perché si continua a pensare che il Nord può costruire il suo futuro solo sulla base di una rottura di tutti i vincoli solidaristici, in una prospettiva che esclude il tema della coesione nazionale. Si tratta pur sempre di secessione: non politica, ma economica e sociale.
Il dubbio che può sorgere è se questa secessione non sia già nei fatti avvenuta, se questa operazione politica non abbia già raggiunto, nella sostanza, il suo obiettivo. In ogni caso, non possiamo dare nulla per scontato, e occorre il massimo di vigilanza, di presidio democratico del territorio, di mobilitazione attiva. Occorre cioè praticare la democrazia non come una procedura formale, ma come un combattimento contro tutto ciò che la minaccia nei suoi valori fondamentali. Per questo, le celebrazioni dell’unità d’Italia devono rappresentare l’impegno per un nuovo patto di solidarietà, per dare vita ad una comunità nazionale coesa, che garantisca a tutti eguali diritti, nella sfera politica e in quella sociale. E oggi non è possibile parlare dell’Italia se non nel contesto della nuova costruzione dell’Europa, che ci chiama ad un nuovo impegno di unificazione, di inclusione, di estensione dei diritti, a cominciare dal lavoro.
L’occasione sarebbe quindi sprecata se dovesse prevalere la retorica nazionalistica e patriottica, che già ha prodotto nella nostra storia esiti drammatici. Dobbiamo invece misurare criticamente il cammino di questi 150 anni, e vedere con lucidità il cammino che ci resta da percorrere, per un futuro di maggiore giustizia e di più matura democrazia.