CULTURA E CLASSE OPERAIA

di Riccardo Terzi

Nel secondo numero dei Quaderni rossi Alberto Asor Rosa, nel suo articolo Il punto di vista operaio e la cultura socialista, affronta il problema della politica culturale che deve essere propria della classe operaia. Lo scritto è effettivamente stimolante, e credo sia nostro compito dare una risposta ai problemi di fondo che vi sono proposti, non con l’atteggiamento scostante di chi giudica dall’alto del tribunale dell’ortodossia, ed è pronto ad usare le solite facili etichette, che valgono solo a denigrare senza confutare; ma con l’intento di contribuire ad un dibattito intelligentemente avviato e che lo stesso Asor Rosa non considera affatto concluso. L’affermazione dell’esistenza del problema, della sua urgenza e centralità, si accompagna necessariamente ed una critica rivolta ai partiti operai, che in questa direzione non solo hanno rivelato una carenza di elaborazione, ma che anche e soprattutto non hanno saputo adeguare la battaglia culturale ai termini nuovi in cui si pone oggi la lotta politica.

La critica ai partiti operai costituisce uno dei capisaldi della ricerca e della polemica dei Quaderni rossi. Non è certo mia intenzione contestare la legittimità, o meglio la necessità della critica, va comunque sottolineato che questa critica ha un senso e diviene operante solo quando intende porsi come un “momento” della vita e del dibattito interno del partito di classe, solo quando si presuppone che una soluzione reale si potrà avere solo dentro il Partito. La critica di Asor Rosa sembra invece sottintendere una contrapposizione della classe al Partito. In tal caso tutto il discorso ne uscirebbe deformato, proprio sul terreno culturale: una politica culturale della classe infatti non può nascere dalla spontaneità e dalla immediatezza della lotta, ma ha costante mente bisogno della mediazione del Partito. Il Partito non è infatti uno dei tanti strumenti che la classe operaia ha a disposizione nella lotta anticapitalistica, ma riassume in sé tutti momenti della lotta.

Asor Rosa sostiene che il rapporto fra le organizzazioni e la classe va dalla classe alle organizzazioni e non viceversa: il problema mi sembra mal posto, proprio perché si intende il rapporto fra la classe e il Partito come un rapporto estrinseco. Non si tratta invece di stabilire se viene prima la classe o il Partito, ma di vedere come il Partito possa essere effettivamente l’espressione reale della classe. Con queste premesse teoriche – se ho colto giustamente il senso dell’affermazione citata – il discorso sulla politica culturale rischia di diventare velleitario.

Ciò che contraddistingue la posizione di Asor Rosa è una piena consapevolezza del fatto che oggi bisogna fare i conti con un capitalismo avanzato, e che quindi vanno abbandonate prospettive politiche e parole d’ordine legate ad una fase anteriore di sviluppo. È chiaro che questo non solo deve valere per le rivendicazioni politiche, ma deve comportare anche una nuova definizione della politica culturale.

 

Unità su nuove basi

«Al centro della società contemporanea c’è lo sviluppo capitalistico, ossia l’industria, e…. tutti gli altri fenomeni del mondo sociale tendono ad una subordinazione sempre più completa ad essa…: l’industria dà il volto e l’essenza a tutta la società capitalistica, ossia a tutto il sistema.» Di qui discende la giusta esigenza di definire il rapporto cultura-industria, proprio perché la cultura possa essere una cultura moderna.

Pertanto, se oggi il nemico di classe decisivo non è più il blocco agrario industriale, che sul piano culturale e politico si esprime nelle forme del clerico-fascismo, ma è la borghesia avanzata, che tende a far propri certi valori dell’antifascismo, ciò non può essere senza conseguenze sul piano culturale. In questa situazione, le parole d’ordine democratico borghesi, l’unità antifascista, la prospettive politica costituzionalista, in cui la classe operaia è considerata come una delle forze componenti uno schieramento popolare, e non la forza dirigente e decisiva, tutto questo giustamente viene ritenuto superato dallo sviluppo oggettivo in atto: non nel senso che le forze del capitalismo arretrato siano oggi scomparse e inesistenti e che quindi non si ponga più l’esigenza di una qualsiasi battaglia unitaria antifascista, ma nel senso che comunque questa battaglia e questa unità non possono più essere il momento centrale e decisivo dell’attuale prospettiva politica.

È quindi legittimo riscontrare e denunciare un certo ritardo nell’elaborazione dei partiti operai in questa direzione: si assiste spesso ad una sopravvalutazione di certi schieramenti democratici unitari, nati nel segno dell’ambiguità e dell’ipocrisia, e che sottintendono l’intento preciso della borghesia avanzata di richiamarsi alla tradizione antifascista e ai valori di libertà in essa contenuti, per darsi una patente di forza democratica e progressista per darsi quindi una falsa giustificazione storica.

Di fronte a ciò, il nostro compito non è certo quello di favorire questo equivoco e questa mistificazione, ma di smantellare il mito di una Resistenza piccoloborghese, il cui sbocco logico sia visto nell’attuale disegno riformistico conservatore.

II problema è quindi quello di una nuova politica culturale, che corrisponda all’attuale fase di sviluppo e si inserisca in una precisa strategia del movimento operaio da contrappore alla linea di sviluppo neocapitalistica. Ora, quali sono le soluzioni prospettate da Asor Rosa? La soluzione starebbe nella fondazione di una cultura che si ponga come «antagonista nei confronti della cultura borghese», di «una cultura della classe operaio, cioè di una cultura socialista.» Questa soluzione mi sembra però piuttosto semplicistica e schematica.

 

Mitizzazione della classe

Anzitutto si intravede una forma di mitizzazione della classe: non si tiene conto che la classe operaia non è un blocco monolitico, apportatore di una serie di valori positivi, capaci di concretarsi immediatamente in una determinata prospettiva culturale, ma proprio all’interno della classe va rilevata una complessità di componenti culturali che non si indirizzano automaticamente verso una prospettiva socialista, ma che passano attraverso una serie di mediazioni politiche. È proprio a causa di questa mitizzazione che si sottovaluta la funzione del Partito, e ci si accosta alle posizioni dello spontaneismo, secondo cui le rivendicazioni di classe si traducono spontaneamente in una coerente lotta rivoluzionaria. L’errore sta quindi nel fermarsi ed un’analisi di tipo economicistico.

Se dunque una cultura moderna non può non porsi in rapporto con l’industria moderna, ciò non significa che una cultura rivoluzionaria debba sorgere spontaneamente dalle lotte di classe nella fabbrica, e che si ponga già come cultura socialista. Significa invece che il nostro discorso culturale non può più fondarsi su quei valori generici di libertà e democrazia che erano decisivi nel momento della lotta antifascista, ma su quei valori più concreti e profondi che proprio nella moderna fabbrica vengono brutalmente conculcati: si tratta cioè dell’autonomia dell’individuo dal meccanismo disumano della produzione capitalistica, della sua emancipazione da un processo che aggrava le condizioni di alienazione dell’uomo. È nostro compito cioè portare avanti un discorso culturale moderno, che abbia chiara consapevolezza dei problemi oggi decisivi, e che quindi sia impegnato ad affrontare la problematica dell’operaio della fabbrica moderna e della sua emancipazione; un discorso culturale quindi che si pone in un rapporto di alternativa rispetto al sistema, individuando chiaramente il nocciolo dei contrasti di classe.

Questa cultura rivoluzionaria non può essere intesa come il prodotto spontaneo delle lotte operaie; ma ad essa anzi la stessa classe operaia deve essere conquistata, proprio perché dobbiamo intendere l’unità di classe non come un punto di partenza, ma come un punto d’arrivo a cui si può giungere impegnandoci in un dibattito culturale che lasci aperta la possibilità di un dialogo con altre forze ideologiche, e soprattutto col mondo cattolico, che ha nella stessa classe operaia radici non superficiali.

Per tutte queste ragioni, non si può parlare, nella realtà attuale, di cultura socialista o di cultura proletaria. Se il compito del proletariato è quello di rovesciare integralmente la realtà presente, di distruggere quindi se stesso come classe, esso non può, fino a quando è legato ai rapporti di produzione borghesi, farsi promotore di una cultura nuova, perché non ha in sé dei valori positivi da affermare e intorno a cui costruire una nuova dimensione culturale.

Una cultura socialista è pensabile solo in una società socialista: il compito culturale del proletariato è quello di misurarsi fino in fondo col pensiero borghese, per rivelarne le mistificazioni e per utilizzarlo contro la stessa società borghese. Il marxismo da solo non genera una cultura socialista ma è un’analisi critica condotta all’interno della società borghese e delle suo contraddizioni, e in quanto tale non può mancare di porsi in rapporto con le stesse ideologie borghesi.

Porre una rottura fra Hegel e Marx, fra Croce e Gramsci, presumere di fondare fin da ora una cultura affatto slegata da tutta la tradizione vuol dire non solo non intendere la dimensione storica del marxismo, ma ridurre il marxismo e la nostra politica culturale alla predicazione sterile dei valori della società futura, mentre il compito che oggi ci si impone è quello della critica che nasce rientro le contraddizioni del sistema, e che le orienta in una direzione rivoluzionaria.



Numero progressivo: G128
Busta: 7
Estremi cronologici: 1962, 2 dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagina quotidiano
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: ?, 2 dicembre 1962