[CRISI DELLA CONTRATTAZIONE]
Relazione di Riccardo Terzi decontestualizzata
Nelle tesi che preparano il congresso della CGIL si riconosce in modo esplicito l’esistenza di una crisi del sindacato, che riguarda essenzialmente il suo ruolo di contrattazione e il suo potere contrattuale.
Le ragioni che stanno alla base di questa crisi della contrattazione sono essenzialmente tre.
La prima riguarda l’esistenza, ormai da lungo tempo, di una disoccupazione di massa e di lunga durata, che ha assunto ormai il carattere di un dato strutturale, e non solo congiunturale o contingente. Questo dato modifica in profondità i rapporti di forza e determina all’interno del mondo del lavoro, all’interno della classe lavoratrice, contraddizioni sociali di tipo nuovo, segmentazioni corporative, e quindi un offuscamento dei valori della solidarietà e dell’unità di classe.
In secondo luogo si è determinato un cambiamento profondo nella composizione di classe, nella composizione interna al mondo del lavoro; si riduce progressivamente il peso di quelli che erano i tradizionali punti di forza del movimento operaio e sindacale, vi è uno spostamento rilevante dai settori dell’industria verso il terziario, dal lavoro manuale al lavoro intellettuale. Questa diversa composizione del mondo del lavoro fa venir meno quella centralità operaia che pur ha funzionato in una certa stagione della storia sindacale. E insieme a questi cambiamenti di carattere oggettivo abbiamo anche trasformazioni soggettive, un diverso rapporto con il lavoro, soprattutto nelle nuove generazioni, una diversificazione dei bisogni soggettivi, per cui molto più complesso e più arduo diventa organizzare una sintesi, una ricomposizione unitaria del mondo del lavoro, proprio perché manca un nucleo centrale attorno a cui organizzare questa unità, capace di produrre un sistema di valori in cui si riconosca l’insieme del mondo del lavoro capace quindi di esercitare un’egemonia sociale diffusa.
In terzo luogo, di fronte ai processi di trasformazione e di ristrutturazione è prevalsa nel sindacato, nei fatti, una linea prevalentemente difensiva, una linea che non è riuscita ad affrontare e a governare i processi di trasformazione della realtà economica, della realtà delle imprese. L’intervento del sindacato si è realizzato essenzialmente sulle conseguenze sociali dei processi di trasformazione: le conseguenze sull’occupazione, sulle condizioni di lavoro. D’altra parte si è andato ripristinando un potere discrezionale autonomo delle imprese sulle scelte di carattere strategico: le strategie di mercato, i processi di innovazione tecnologica, i modelli organizzativi e così via. Il prevalere di questa linea difensiva e di una capacità di risposta solo sulle conseguenze sociali di scelte non controllate, ma attuate discrezionalmente dalle imprese, questo ha portato nei fatti al di là delle posizioni politiche e delle volontà, ad una collocazione subalterna, in quanto è mancata, a me pare, una capacità di progettazione alternativa da parte del movimento sindacale.
Questa subalternità si esprime per un verso in posizioni di solidarismo, che si limitano ad un obiettivo di pura redistribuzione del lavoro, senza tentare di controllare le scelte di carattere strategico del sistema delle imprese, anche in atteggiamenti di pura rincorsa salariale o di monetizzazione, che si manifestano, ad esempio, nella ripresa che ha avuto il lavoro straordinario, in una certa indifferenza presente nel mondo del lavoro verso i problemi dell’ambiente e delle condizioni di lavoro, nel ritorno a forme di lavoro a cottimo, sia pure in modo diverso dal passato.
La stessa lotta di difesa della scala mobile, su cui il movimento sindacale è rimasto a lungo bloccato, ha anch’essa evidentemente un carattere difensivo, ed ha posto il sindacato su un terreno in qualche modo ristretto, angusto, subendo l’offensiva concentrica della Confindustria e del padronato sul costo del lavoro. Sarebbe stata necessaria una capaciti di risposta più articolata per non rimanere inchiodati sulla sola questione “costo del lavoro e scala mobile”.
Questa capacità di risposta più generale è venuta con notevole ritardo ed un primo segno importante, positivo, lo abbiamo con la piattaforma unitaria, che riesce almeno in una certa misura a spostare il tiro, ad allargare l’iniziativa sindacale affrontando anche altre essenziali questioni; l’orario di lavoro, il fisco, i problemi della ripresa della contrattazione.
Ora in presenza di questa crisi che ho così molto sommariamente cercato di descrivere, l’offensiva dei gruppi dirigenti capitalistici è un’offensiva che tende a colpire al cuore il ruolo del sindacato, tende a spostare i rapporti di potere. Non si tratta di qualche singolo e parziale aspetto della politica del sindacato, ma è in gioco appunto il ruolo stesso, la funzione specifica del sindacato. A questo attacco ci sono state diverse risposte. C’è una risposta che possiamo chiamare neo-corporativa, ed è una risposta in qualche modo implicita in alcune vicende recenti, negli accordi centralizzati dell’83 e dell’84, con il Governo e con le controparti sociali. Questa risposta neo-corporativa implicita in questi accordi centralizzati trova poi una sua esplicita teorizzazione in alcuni settori del sindacato, in particolare in alcuni settori della CISL.
Possiamo così riassumerla. Il sindacato, sconfitto sul terreno suo proprio, sul terreno della contrattazione, dei rapporti di classe nei luoghi di lavoro, tende a ritrovare, a recuperare una sua legittimazione attraverso il negoziato politico. Questo comporta una serie di rischi, anzitutto dei rischi di snaturamento di certe caratteristiche storiche del movimento sindacale italiano, di istituzionalizzazione, di un distacco crescente tra sindacato e lavoratori. Questo distacco non è ipotetico, è già oggi un dato della realtà.
Credo che dobbiamo tutti considerare allarmante il fatto che si sia determinato un complesso di elementi di diffidenza, di sfiducia, che rendono oggi problematico il rapporto fra il sindacato i suoi gruppi dirigenti e i lavoratori. La via del negoziato politico, la risposta neo-corporativa, rischia di accentuare, di drammatizzare ulteriormente questo stato di cose. Ma soprattutto a me sembra che il negoziato politico, le operazioni di scambio politico con il Governo, che pure vanno fatte, non possono che riflettere i rapporti di forza reali. Il sindacato può essere forte anche su questo tavolo se ha alle spalle dei rapporti di forza sufficienti nei luoghi di lavoro.
Un sindacato che fosse estromesso dalla sua funzione propria di contrattazione nell’impresa, un sindacato colpito nella sua capacità reale di rappresentanza sociale e di contrattazione, può sì imboccare la strada del negoziato politico, ma non può che negoziare in perdita a questo livello.
A me pare quindi che il punto centrale resta la realtà dell’impresa, il conflitto di potere nell’impresa. Ciò risulta assai chiaro negli obiettivi dei gruppi oltranzisti della Confindustria, che si propongono di colpire il ruolo di contrattazione del sindacato. Si tratta allora di modificare i rapporti di forza e i rapporti di potere nella realtà economica, e questo problema non può essere evitato o aggirato da operazioni di scambio politico. Il sindacato è soggetto politico, può svolgere cioè un ruolo politico rilevante nel la realtà del paese, solo in quanto mantiene appieno la sua funzione propria di rappresentanza sociale.
Qualche rischio mi pare ci possa essere anche nelle indicazioni uscite dal Congresso Nazionale della UIL, che andranno comunque meglio approfondite, nell’idea di un “sindacato dei cittadini”. Anche qui ci può essere il rischio di una fuga dal nodo vero che è quello dei rapporti di forza e del le capacità di contrattazione reale nei luoghi di lavoro.
Io quindi partirei dall’impresa, dal suo funzionamento, dal problema di come si decide e di chi decide all’interno delle imprese. Da un lato abbiamo una linea che accomuna una parte grande del mondo imprenditoriale e che ha l’obiettivo di restaurare un potere discrezionale, di ripristinare un potere autocratico nell’impresa. Dall’altro, si tratta di vedere la possibilità di un’iniziativa del movimento sindacale per rimettere in discussione il funzionamento dell’impresa, per realizzare quella che potremmo chiamare una riforma democratica dell’impresa. Per questo oggi è centrale il tema delle cosiddette relazioni industriali. Vi è per noi la necessità di conquistare nuovi modelli di relazioni industriali, nuovi strumenti di partecipazione, di controllo, di contrattazione preventiva sui processi. Indicativo è, da questo punto di vista, il protocollo IRI, anche se ancora siamo lontani dall’averlo sperimentato, dall’averlo realizzato pienamente, ma esso indica comunque un modello di relazioni industriali in cui si dà una risposta a queste esigenze di controllo e di contrattazione preventiva dei processi innovativi. D’altra parte per le imprese stesse il problema del consenso è un problema reale. L’innovazione tecnologica può procedere se realizza anche il consenso e una partecipazione attiva e consapevole dei lavoratori, e per questo possiamo trovare degli interlocutori nelle controparti, interessati a stabilire un nuovo tipo di rapporto con il sindacato.
Quindi, la scelta della CGIL, a me pare d’intenderla così: una scelta che rimette in primo piano il rilancio della contrattazione, una contrattazione articolata, che parte dai processi reali, che vuole dominarli, orientarli, riattivando un ruolo protagonista delle strutture di base del sindacato, e una contrattazione che non sia soltanto difensiva, di rimessa, che non riguardi soltanto le conseguenze sociali di decisioni non controllate democraticamente, ma che cerchi di misurarsi con le grandi scelte strategiche.
Questo apre un problema molto serio di rinnovamento, di sviluppo del sindacato delle sue strutture, nel senso di una più larga capacità di collegamento democratico con i lavoratori, così da recuperare una rappresentanza sociale che tenga conto di come è cambiato il mondo del lavoro, del peso che hanno nuove figure sociali, nuove figure professionali, come quelle dei quadri e dei tecnici, e nel senso di conquistare una capacità autonoma di proposta, che tenga conto dei problemi reali dell’impresa, dei problemi di efficienza, di produttività, del rapporto con il mercato, tentando così, con l’elaborazione di soluzioni concrete e realistiche, di assumere un ruolo dirigente.
Ma questa stessa scelta, che io considero prioritaria, rischierebbe di essere una scelta tutto sommato velleitaria, infruttuosa, o comunque insufficiente, se non si collega ad un’azione politica sugli indirizzi generali della politica economica. Non può bastare la spinta della contrattazione articolata. Bisogna cogliere il rapporto tra quest’azione dal basso ed i grandi nodi dello sviluppo del paese, tra il problema della democrazia d’impresa e il problema più ampio del governo democratico dell’economia nel suo complesso.
Per questo non vediamo una contrapposizione astratta tra articolazione e centralizzazione, ma vediamo piuttosto la necessità di un rapporto tra azione dal basso e azione dall’alto.
Cerco di stringere, di chiudere con qualche accenno, rapido. Quale politica economica? Noi diciamo nelle tesi che bisogna assumere come priorità effettiva l’obiettivo dell’occupazione. Il patto per il lavoro è questo, è l’indicazione di una priorità politica per il movimento operaio e per le forze della sinistra. Questa priorità dell’occupazione ci porta poi a considerare una serie di aspetti: la necessità di una politica industriale, oggi pressoché inesistente, di un’azione di governo dei processi economici. Da qualche tempo si è completamente rinunciato a qualunque tentativo di una programmazione dell’economia, ma se vogliamo avere dei risultati in termini di sviluppo e anche in termini di occupazione occorre fare determinate scelte politiche, di sostegno all’ innovazione di sostegno alla ricerca; occorre individuare i settori strategici nei quali concentrare gli investimenti e ridefinire il ruolo e gli obiettivi delle Partecipazioni Statali. Oggi questo ruolo è evidentemente in crisi, e con una tendenza abbastanza allarmante a ridurre le Partecipazioni Statali a una funzione puramente sussidiaria, complementare, rispetto all’iniziativa privata. Inoltre nel quadro di una politica di sviluppo è inaccettabile l’attacco oggi in atto allo Stato sociale, perché anzi si tratta di estendere e qualificare l’intervento sociale dello Stato, per creare occupazione e per rispondere ai nuovi bisogni collettivi. Certo, si tratta di superare anzitutto il carattere puramente assistenziale e improduttivo della spesa pubblica. Faccio qui solo un esempio noi proponiamo oggi una riforma della Cassa Integrazione, di uno strumento che ha natura assistenziale, anche se ha svolto e svolge tuttora un ruolo importante per orientare l’intervento pubblico in modo attivo nel senso della promozione di nuove iniziative economiche e imprenditoriali e nel senso di un governo della mobiliti del lavoro. A questi obiettivi dovranno essere indirizzate le agenzie del lavoro.
Va in ogni caso difeso il carattere universale dei servizi essenziali, dalla scuola alla sanità, contro l’idea di un intervento che si limiti a tutelare soltanto le fasce più basse, lasciando, oltre questa soglia minima di difesa, l’iniziativa ai gruppi privati e andando quindi verso una privatizzazione dei servizi e verso un puro affidamento al mercato.
Condizione perché questa linea di difesa dello Stato sociale nei suoi aspetti essenziali possa reggere è una politica fiscale che sia a sostegno di questa necessità, e qui sono note le proposte fatte dal movimento sindacale unitariamente, dalla questione della patrimoniale, alla questione dei titoli di stato, e così via. C’è, mi pare, una coerenza stretta, che lega la questione fiscale a tutto il ragionamento sulla politica economica e sulla difesa dello Stato sociale.
Altra condizione essenziale è una riforma della Amministrazione che proceda nel senso della efficienza e della produttività dei servizi. Da questo punto di vista, mi paiono interessanti alcuni aspetti del recentissimo accordo per il pubblico impiego, in cui comincia ad esserci un ragionamento in questo senso: la ridefinizione degli orari, il fondo per la produttività, e così via.
Concludendo, mi pare che l’elemento di fondo che unifica queste diverse questioni, dalla contrattazione nell’impresa alle questioni più generali di politica economica, è la necessità di una democrazia economica e di un cambiamento sostanziale in questo campo, dove processi veri di democratizzazione non sono ancora avvenuti. C’è un problema di redistribuzione democratica del potere e di riappropriazione sociale delle scelte, dei poteri, che oggi sono concentrati, centralizzati da un lato negli organi burocratici dello Stato, dall’altro nelle grandi concentrazioni finanziarie, nei grandi gruppi nazionali o multinazionali. Questo terreno di democratizzazione dell’economia a partire dall’impresa per arrivare poi alle più generali scelte di politica economica, mi pare un terreno ancora da esplorare in larga misura, un terreno su cui si misura il ruolo della sinistra, un terreno d’incontro tra il sindacato e tutte le forze politiche e culturali impegnate in una battaglia di rinnovamento democratico del Paese.
Busta: 1
Estremi cronologici: [1984]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CGIL -