COSTRUTTORI DI FUTURO
Assemblea dei quadri Boario Terme 23-24 febbraio
Relazione di Riccardo Terzi – Segretario generale SPI CGIL Lombardia
Questa nostra Assemblea Regionale si tiene poco prima che si metta in moto il lungo iter congressuale, dello SPI e della CGIL. Per questo, possiamo tentare una esplorazione più libera e più problematica, senza dover riproporre nella loro interezza tutte le scelte di politica sindacale, senza dover trattare di tutti i temi, politici e organizzativi, che troveranno nel congresso la loro sede più adeguata.
Questa relazione ha quindi, volutamente, un taglio parziale e un carattere aperto, non conclusivo, perché penso sia utile prepararci al congresso con un momento di riflessione e con un dialogo tra di noi che eviti, se è possibile, la fissità di posizioni politiche precostituite, la ripetitività di una dialettica interna sempre uguale a se stessa. Sarebbe per ciò utile evitare l’uso retorico della formula “senza se senza ma”, che mi ha sempre provocato sorpresa e sconcerto, perché essa vuoi dire semplicemente senza pensiero. La complessità del mondo in cui viviamo può essere afferrata solo con un pensiero duttile, con uno sguardo non unilaterale e non schematico sulla realtà.
Tutte le scienze sociali e filosofiche ci parlano della società dell’incertezza, del rischio, di un processo storico nel quale tutte le identità tradizionali e i grandi blocchi ideologici si scompongono e tutto l’universo dei significati viene rimesso in discussione. In questa condizione del mondo, esibire certezze non è un segno di forza, ma di cecità.
Nella “modernità liquida”, come la definisce Bauman, tutto viene destrutturato: le ideologie, le appartenenze, i legami sociali. E subentra un mondo di relazioni fluide, flessibili, attraversate da un processo vorticoso di cambiamento, e in questo mondo è facile perdersi se non si ritrova una bussola, se non si dispone di una adeguata chiave di interpretazione della realtà. Una moderna cultura politica deve saperci guidare nel labirinto della società globalizzata, deve ricostituire le categorie con le quali leggiamo la realtà, sapendo che gli schemi che abbiamo usato nel passato sono oggi largamente inutilizzabili.
Perché questa premessa? Che rapporto ha con il nostro lavoro sindacale? Il rapporto è nella soggettività delle persone che vogliamo rappresentare, che è una soggettività inquieta e incerta, che non si lascia facilmente catturare dentro i vecchi schemi ideologici. Fare rappresentanza vuoi dire entrare in una relazione forte, autentica, con il vissuto concreto delle persone, con quell’insieme di aspettative e di timori, di interessi e di passioni, di cui si compone la loro vita. E questo vale in modo particolare per le persone anziane, perché sono entrate in quella fase della vita nella quale vengono alla luce tutte le domande più di fondo sulla propria esistenza e sulla propria identità, e tutte le contraddizioni del mondo esterno precipitano nella coscienza individuale dando luogo spesso a momenti acuti di rottura e di crisi.
L’invecchiamento è in sé un processo difficile, problematico, carico di ansie. Di tutto ciò dobbiamo tenere conto e a questo insieme di problemi dobbiamo cercare di rispondere. Un approccio di tipo economicistico, che si occupa solo della condizione materiale, non è sufficiente e finisce per essere deviante, perché sono molteplici i fattori che determinano la qualità della vita: le relazioni umane, le conoscenze, gli affetti, il benessere fisico, le forme della vita urbana e della convivenza civile.
Tutto questo intreccio è risultato con chiarezza dalla ricerca che abbiamo condotto con il Consorzio Aaster, la quale ci consegna una utilissima radiografia collettiva dei nostri iscritti, delle loro domande e del loro modo di stare nella società. Il lato economico è solo un aspetto, che condiziona tutti gli altri, ma non li esaurisce. Ovviamente resta centrale per noi, anche alla luce degli effetti distorsivi della legge finanziaria, la difesa del potere di acquisto delle pensioni, ma questo stesso obbiettivo non va isolato e va considerato come una condizione di base per poter affrontare una più estesa gamma di problemi e di domande.
Ma, se vogliamo affrontare in tutta la sua ampiezza la condizione esistenziale degli anziani, se ci proponiamo di analizzare il tema dell’invecchiamento in tutti i suoi risvolti, ciò non significa valicare i confini che sono propri dell’azione sindacale, e invadere un campo che non è nostro? È questa una domanda cruciale, perché si tratta di decidere che cosa è il sindacato e in che cosa consiste la sua funzione di rappresentanza sociale.
Io penso che non siano utili rigide sfere di competenza, che separano artificialmente ciò che è unito nella vita reale delle persone. Non mi ha mai convinto il detto “a ciascuno il suo mestiere”, il quale ci rimanda ad una visione statica e conservatrice della società, nella quale ciascuno deve stare al suo posto, come nell’antico apologo di Menenio Agrippa.
Il sindacalismo confederale italiane ha imboccato da tempo una strada più ambiziosa, pensando che nella “Repubblica fondata sul lavoro” i soggetti sociali sono portatori di progettualità politica e si devono misurare con i problemi generali della nostra vita collettiva. In questo senso il sindacato è stato definito come un “soggetto politico”, in quanto la politicità è una dimensione interna e non c’è nessun confine che delimita a priori i due campi del sociale e del politico. Sta qui il fondamento della nostra autonomia, del nostro rapporto con le forze politiche non come struttura fiancheggiatrice, di supporto, ma come un interlocutore che si misura alla pari su tutti i problemi della società italiana, affrontandoli con il metro di misura del lavoro e dei diritti sociali.
Per noi, come sindacato dei pensionati, la scelta della confederalità, nel senso prima definito di una autonoma progettualità politica, è una dimensione obbligata. Proprio perché rappresentiamo le persone non nel loro lavoro, ma nell’esperienza di vita che si apre quando si è concluso il ciclo lavorativo, tutti i problemi che affrontiamo sono intrisi di politica e hanno, anche oltre la politica, una fortissima densità culturale e antropologica. Il nostro tema è il modello sociale: l’organizzazione della società, le sue relazioni interne, le politiche di welfare, le forme della socializzazione e della convivenza civile. La grande forza espansiva che ha dimostrato l’organizzazione sindacale dei pensionati e che ci ha portato a superare, come SPI CGIL, i tre milioni di iscritti, viene da qui, da questo nostro lavoro in profondità per rispondere alle domande fondamentali che riguardano la vita delle persone anziane, domande in cui gli aspetti economici, culturali, relazionali, esistenziali, sono strettamente intrecciati. È assai significativo ed importante che l’adesione al nostro sindacato viene anche da persone, soprattutto donne, che non hanno nel loro passato lavorativo una storia di militanza sindacale. Ciò significa che noi possiamo intercettare nuove domande e allargare in nuove direzioni le forme della rappresentanza. Con il nostro lavoro noi diamo voce politica ad un mondo sociale che rischia di essere marginalizzato, di essere escluso da tutto ciò che di vitale si sviluppa nel Paese, di essere spinto verso la passività e l’abbandono. È un problema che sta assumendo un rilievo politico di primo piano, per effetto delle tendenze demografiche in atto che hanno determinato una nuova composizione sociale del Paese. L’Italia è ai primi posti nel mondo nella graduatoria dell’invecchiamento, e tutte le proiezioni sul futuro indicano un’ulteriore fortissima accelerazione del processo. Nel 2050 si prevede un’età media intorno ai 54 anni, e ci saranno 4 persone anziane per ogni bambino.
Pensare di affrontare un problema di queste dimensioni solo con qualche marginale intervento di tipo assistenziale, secondo la teoria del “conservatorismo compassionevole”, è un vero e proprio delitto politico. Il mondo degli anziani rischia così di divenire un immenso deposito di energie inutilizzate, di vite congelate: un mondo di sopravvissuti.
Su questo mondo incombono due grandi minacce: la passività e la perdita di futuro. Anche dalla nostra ricerca sui pensionati in Lombardia emerge un dato assai inquietante: il basso livello di partecipazione alla vita sociale e politica, la fragilità delle relazioni, la tendenza quindi a rinchiudersi nella cerchia ristretta dei rapporti abituali, vivendo la propria vecchiaia solo come un prolungamento passivo, non come una nuova sfida per la quale vanno ricercate nuove risposte. C’eravamo proposti di indagare le paure, ma ciò che abbiamo trovato ha più il carattere dell’adattamento, di un processo in cui la vita gradualmente si restringe nella ripetizione del già conosciuto, senza angosce ma anche senza slanci.
Per contrastare questa tendenza alla passività noi dobbiamo elaborare tutta una strategia che punti alla socializzazione, alla costruzione di una larga rete sociale nella quale le persone possano realizzare una propria identità più compiuta e più matura. Nei materiali della ricerca potete trovare, in proposito, numerosi spunti su cui lavorare, che io qui, per brevità, non intendo riprendere.
Accanto ai due pilastri già consolidati del nostro lavoro, la negoziazione territoriale e i servizi, la socializzazione può essere un terzo pilastro, che ha bisogno di una elaborazione più sistematica e soprattutto di una più larga sperimentazione. E la stessa negoziazione può affrontare un più ampio arco di questioni, dall’ambiente alla qualità urbana, alla cultura, alla sicurezza. Fare rappresentanza e fare socialità sono due termini che dobbiamo sempre tenere insieme. E in questo lavoro, che è insieme culturale, sociale, solidaristico, ricreativo, è decisivo il nostro rapporto con tutta la rete dell’associazionismo e del volontariato, a partire da una più stretta collaborazione con l’Auser, che va valorizzata nella sua autonomia progettuale.
Che cosa intendiamo per socializzazione? Intendiamo che la persona si realizza e conquista una sua autonomia se costruisce una rete di rapporti e sa entrare in comunicazione con ciò che è altro da sé. Non si tratta quindi affatto dell’idea di una comunità compatta, autosufficiente, chiusa in se stessa, idea che ritroviamo nell’identità etnica di stampo leghista. La socializzazione è la comunicazione tra i diversi: comunicazione interculturale, in un mondo che è sempre più multietnico, comunicazione intergenerazionale, per sventare la minaccia di un conflitto tra giovani e anziani, comunicazione tra uomini e donne, riconoscendo la diversità di genere, più in generale comunicazione politica in cui si prende in esame tutta la pluralità dei possibili progetti e si istituisce quindi uno spazio pubblico in cui ciascuno si riconosce nel rapporto con l’altro. La persona anziana deve essere messa in grado di interagire con tutta la complessità della società moderna. A questo fine è molto importante un investimento politico sulle nuove tecniche di comunicazione, che rappresentano oggi lo strumento decisivo di accesso alle informazioni e alle conoscenze. Se non si padroneggiano queste tecniche, ci si ritrova in una condizione di esclusione. E occorre promuovere una cultura aperta, plurale, fondata sul dialogo.
Il pensiero democratico moderno ha inizio come pensiero della relatività: la verità può essere solo il risultato di una libera ricerca, sempre suscettibile di correzioni, mai definitiva. Oggi, di fronte alla minaccia dei nuovi fondamentalismi, torna di attualità il lavoro che avevano compiuto gli illuministi francesi nel 700: trovare la via di una razionalità critica che ci liberi dal peso opprimente dei fanatismi. Il lavoro di socializzazione deve essere quindi guidato da una precisa impostazione culturale: non è solo la promozione di fatti collettivi, ma è la costruzione di uno spazio pubblico nel quale ci possa essere il confronto libero delle idee.
Ma c’è anche un aspetto più strettamente politico che va affrontato. Una politica per la cittadinanza attiva non può esser solo lasciata all’auto-organizzazione sociale, ma implica una nuova architettura del sistema pubblico di welfare, con l’obiettivo di promuovere per gli anziani un nuovo quadro di opportunità per il prolungamento della loro attività lavorativa. Nel confronto con gli altri paesi europei, noi abbiamo oggi in Italia un tasso di attività, nella fascia oltre i 55 anni di età, particolarmente basso: il 28% contro una media europea del 38,5%. L’innalzamento forzoso dell’età pensionabile non risolve il problema, ma lo aggrava, perché, in assenza di una efficace strumentazione politica, aumenta il numero delle persone che hanno perso il lavoro e che non hanno accesso alla pensione.
Occorre qui costruire un sistema integrato di interventi pubblici: per la formazione permanente, per il sostegno al lavoro delle persone oltre i 50 anni, per forme flessibili di pensionamento, creando a questo fine una rete di servizi sul territorio. E questo nuovo welfare deve saper rispondere anche alle domande di protezione sociale, di crescita professionale e di stabilizzazione del lavoro che interessano tutta la vasta area del lavoro giovanile. Di questi problemi ci ha parlato Bruno Trentin nel nostro incontro a Milano del 1° dicembre, e io credo che noi possiamo integralmente assumere le sue proposte nel nostro programma di lavoro.
La passività, la perdita di ruolo sociale, produce un profondo effetto distorsivo nella struttura della personalità, in quanto viene meno la dimensione del futuro, del progetto. È a questo punto che si comincia davvero ad invecchiare, inesorabilmente, quando resta solo la memoria e il peso del passato schiaccia ogni possibilità di movimento in avanti, di progettazione, di speranza. Se il passato uccide il futuro, è la vita che si spegne. E l’invecchiamento è sempre, per tutti, il passaggio critico nel quale occorre saper sfuggire a questa morsa, occorre cioè coltivare la memoria senza esserne sopraffatti e distrutti.
Mi piace citare, come esempio di una vecchiaia che sa tenere aperti gli occhi sul futuro, l’amico e compagno Vittorio Foa, sempre appassionatamente interessato a ciò che di nuovo e di vitale si muove nella società, senza mai cedere a quella nostalgia disperata di chi vede il cambiamento solo come decadenza. Noi, che organizziamo e rappresentiamo le persone anziane, dobbiamo essere essenzialmente dei costruttori di futuro. È sempre possibile, nella vita individuale come nell’esperienza collettiva, andare oltre le condizioni date, trascendere i dati della realtà. Questa fondamentale aspirazione alla trascendenza è anche la forza, nella storia, dei messaggi religiosi. Ma quando il futuro è declinato solo in termini religiosi, e non c’è un futuro politico, civile, allora significa che siamo entrati in una situazione di crisi, e la stessa religione assume l’aspetto inquietante del fanatismo. Il nostro ruolo sta in questo difficile passaggio, tra il realismo politico e la progettazione di un futuro possibile, non mitologico ma razionale. Tutto questo richiede un processo sociale, collettivo.
Dobbiamo costruire una strada verso il futuro. Ma come si costruisce una strada? Ce lo dice uno scrittore cinese, grande e dimenticato, Lu Hsun: «le strade si formano quando gli uomini, molti uomini, percorrono insieme lo stesso cammino». Ecco dunque le basi su cui lavorare: razionalità e agire collettivo, per aprirci un varco dentro questa società che sembra essere ripiegata su se stessa, guidata solo dalla logica della competizione individuale.
Dove va a parare tutto questo discorso, che può sembrare astratto, lontano dall’attualità politica? Ciò che vorrei chiarire è che lo scontro con questa destra, con questo governo, sta dentro un processo più generale che segna le società dell’Occidente. Mi sembra miope ridurre tutto a Berlusconi, e illudersi che sia sufficiente sbarazzarsi della sua presenza. Berlusconi è solo un moltiplicatore di tutto ciò che di negativo attraversa le società di capitalismo maturo. Non è la causa, ma è solo l’escrescenza un po’ grottesca in cui si rivela una crisi più generale del progetto democratico, e il problema non è solo italiano, ma europeo e mondiale. Noi dobbiamo avere una strategia che non sia tutta giocata sullo scontro politico immediato, ma che abbia una tenuta, una durata, uno spessore, indipendentemente dalle contingenze della vicenda politica. Altrimenti rischiamo un eccesso di euforia se Berlusconi cade, e un eccesso di depressione se Berlusconi rivince.
Con ciò, intendiamoci, non intendo affatto attutire il nostro giudizio critico. Questo governo ha provocato alcune rotture profonde dell’equilibrio sociale e democratico del Paese, segnando una netta discontinuità rispetto a tutta la storia politica precedente. I punti sostanziali di rottura mi sembrano essere di tre ordini. C’è la rottura del patto sociale che si era concretizzato nell’accordo di concertazione con il governo Ciampi, e che comunque, anche in forme meno impegnative e più ambigue, aveva sempre caratterizzato la storia politica dell’Italia. Ora, il rapporto con le parti sociali è esplicitamente sospeso e liquidato come un vecchio rottame di cui liberarsi.
In secondo luogo, c’è il tentativo di sovvertire il patto di solidarietà nazionale che si regge sul rapporto tra fiscalità e stato sociale. L’offensiva della destra sul fisco non va affatto sottovalutata, anche se per ora gli effetti concreti sono di scarsa rilevanza. Ma l’operazione è devastante sotto il profilo ideologico, dei valori, dei principi, perché il messaggio agli italiani è che si può fare a meno dell’intervento pubblico e che ciascuno si deve arrangiare, in una libera competizione regolata solo dal mercato. È chiaro allora che tutta la nostra piattaforma è del tutto incompatibile con la strategia di questo governo, e si spiega perché non si è aperto nessun tavolo di confronto. Perché nella destra politica c’è l’idea di una generale privatizzazione dei rapporti sociali, mentre per noi è essenziale una forte riqualificazione dell’intervento pubblico, a garanzia dei diritti di cittadinanza.
Infine, c’è una rottura degli equilibri istituzionali, con un progetto di riforma costituzionale che concentra tutti i poteri nelle mani di un primo ministro legittimato per via plebiscitaria, senza controlli e senza contrappesi. In tutto ciò non c’è neppure l’ombra del federalismo, nonostante le farneticazioni della Lega. La destra ha solo accentrato i poteri, indebolendo tutta la rete delle istituzioni locali.
Possiamo poi aggiungere che c’è una rottura nello stile, nelle forme della comunicazione, in quanto al confronto politico si sostituisce sistematicamente l’insulto, l’aggressione, ed è proprio il Presidente del Consiglio che si assume in prima persona il ruolo di punta in questa forsennata crociata ideologica, il che non era mai avvenuto nella storia della nostra democrazia.
Ma tutti questi elementi non sono solo una anomalia italiana, ma fanno parte di una più generale offensiva conservatrice e neoliberista, a partire da Bush e dalla sua teorizzazione di uno scontro di civiltà, tra il bene e il male, tra l’Occidente e il resto del mondo. Insomma, c’è un rilancio in grande stile delle ideologie di destra, e c’è anche una parte della sinistra che ha reagito con grande timidezza e con un atteggiamento subalterno, subendo l’egemonia del pensiero neo-liberale, così come c’è anche una sinistra che guarda solo all’indietro e non sa misurarsi con i dilemmi della società attuale.
In sostanza, noi dobbiamo guardare, oltre le apparenze della politica contingente, alla sostanza del processo politico e sociale. Ed è a questo livello che dobbiamo avere una proposta, un progetto. Dobbiamo cioè opporre al paradigma della società competitiva un diverso modello sociale, nel quale l’obiettivo primario sia la costruzione di socialità, di solidarietà, di coesione sociale. E ciò va fatto non in termini astrattamente morali, ma con una proposta politica e istituzionale che sia il più possibile concreta nelle sue articolazioni.
È quindi chiaro che noi non siamo affatto neutrali nel conflitto politico. Noi stiamo in un campo. Ma dobbiamo chiarire che il nostro campo non coincide con uno schieramento partitico, ma è il campo della socialità, dell’agire collettivo dei soggetti sociali. Questo campo può incontrarsi con la sinistra politica, ma non a priori, non firmando una cambiale in bianco. Se la sinistra chiarisce il suo progetto, il suo modello sociale, su questo sarà giudicata, e su questa base si potranno definire convergenze e dissensi.
Questi giudizi valgono anche per la Lombardia, nell’imminenza delle elezioni regionali. C’è un modello lombardo che si differenzia, nella sostanza, dal governo nazionale? Formigoni vorrebbe costruire la sua immagine su questa idea di autonomia, e cerca di accreditarsi come il punto di coagulo di un arco di forze riformiste. Ma questa immagine non ha nessun fondamento reale. E tutto il fumo propagandistico di Formigoni noi dobbiamo smitizzarlo e ricondurlo alla realtà dei fatti, una realtà che con il riformismo sociale non ha nulla a che fare. Voglio citare solo un esempio, che mi sembra essere rivelatore di tutta l’ispirazione strategica della Giunta Regionale: il progetto di legge sulla sussidiarietà. Questo progetto capovolge radicalmente tutto l’assetto politico e istituzionale, in quanto è tutto basato sul principio “ideologico” del primato della famiglia e dei corpi sociali intermedi, relegando l’intervento pubblico in una funzione di ultima istanza, solo in quei campi che non possono essere coperti dalla libera iniziativa privata. È un rovesciamento dell’ordine costituzionale. Ed è anche, a mio parere, un travisamento della dottrina sociale della Chiesa, che ha elaborato il tema della sussidiarietà in un rapporto stretto con la dignità della persona e con il tessuto di solidarietà sociale che la può garantire. Il progetto di Formigoni è un’altra cosa: è semplicemente un progetto di liquidazione dello spazio pubblico e di svuotamento definitivo del ruolo delle assemblee elettive, il che significa anche che non ci sono diritti garantiti universalmente, ma tutto è affidato ad un mercato sociale che può assumere le forme più diverse.
In sostanza è un modello neo-feudale: c’è il governatore, e c’è una rete privata a cui il governatore affida, a sua discrezione, la gestione della cosa pubblica. Noi non siamo disponibili a stare all’interno di questa logica, ritagliandoci un qualche spazio corporativo, perché la nostra bussola è quella dei diritti fondamentali di cittadinanza, che in questo caso vengono resi del tutto aleatori, proprio perché all’universalismo della politica si sostituisce il particolarismo delle corporazioni. È un ritorno ad una concezione pre-moderna e pre-democratica. Che rapporto ha tutto ciò con il riformismo, con quel movimento storico che ha cercato di realizzare il passaggio dal privilegio al diritto, di dare forza politica e giuridica ai diritti sociali? Qui c’è esattamente il rovescio di questa ispirazione. Ma ormai, si sa, le parole vengono travisate, piegate agli interessi politici del momento, e si dice una cosa per significare il suo contrario. In questo senso tutte le parole sono malate, ma si tratta di combattere per restituirle al loro significato. Le parole sono un campo di battaglia. E l’idea di riformismo, oggi strattonata nelle più diverse direzioni, è oggi utilizzabile solo se si combatte una decisa battaglia culturale.
Le elezioni regionali saranno quindi una occasione importante per rilanciare i nostri obiettivi, la nostra piattaforma, a partire dal problema per noi prioritario di un fondo pubblico per la non autosufficienza, che deve avere un carattere nazionale, e che può essere intanto avviato con alcune sperimentazioni regionali. C’è una piattaforma unitaria delle tre confederazioni lombarde, a cui finora la giunta non ha dato nessuna risposta. Dovremo decidere al più presto, se non vogliamo farci trascinare in un rapporto ambiguo e inconcludente, una nostra precisa azione di mobilitazione, per chiarire di fronte all’opinione pubblica che cosa chiediamo e per mettere in campo un forte movimento di pressione, per l’oggi e per il domani. Questa nostra piattaforma si regge su due punti essenziali. Su un moderno sistema di welfare, che sappia rispondere alle nuove grandi emergenze sociali: l’invecchiamento della società, la precarizzazione del lavoro, l’ondata migratoria. E in secondo luogo su un sistema di governo non centralizzato, ma capace di valorizzare tutto il sistema delle autonomie, dell’autogoverno locale, della partecipazione dei soggetti sociali. Su entrambi questi punti il governo regionale si è mosso finora in una direzione del tutto contraria, centralizzando e privatizzando, indebolendo tutto il tessuto democratico.
Dopo le lezioni regionali avremo un altro appuntamento importante, il referendum sul tema complesso della fecondazione assistita, che mette in gioco aspetti cruciali relativi alla laicità dello Stato, alla libertà della ricerca scientifica, ai diritti di libera scelta delle persone. Sono temi da affrontare con un dibattito pubblico e con una scelta responsabile da parte dei cittadini, attraverso la partecipazione democratica al voto e il libero confronto, fondato sulla conoscenza e non su una guerra di religione.
Noi dobbiamo organizzare il nostro campo, che è il campo della socialità, dei bisogni reali delle persone che vogliamo rappresentare. E questo campo può essere forte, può esprimere un effettivo potere contrattuale, se facciamo leva sulle nostre due risorse fondamentali: l’unità sindacale e la partecipazione sociale.
L’unità: non è una variabile secondaria, una scelta che possiamo fare o non fare, ma è la condizione di base che dà una prospettiva a tutto il nostro lavoro. Se ragioniamo in termini sindacali, facendoci guidare dai criteri della rappresentanza sociale, l’unità è l’unico modo coerente, logico, in cui possiamo operare. Quando l’unità entra in sofferenza, vuoi dire che sono subentrate altre logiche, politiche o ideologiche, e che si sta perdendo il contatto con la concretezza materiale della comune condizione sociale che dovrebbe essere il fondamento esclusivo dell’azione sindacale. Con Fnp e Uilp noi abbiamo costruito da tempo delle relazioni molto positive e costruttive, che si tratta ora di consolidare e di rendere più stringenti, anche per contribuire a una prospettiva più generale di unità del movimento sindacale. In questo senso, può essere utile individuare alcuni passi concreti di avanzamento del processo unitario, con tutto il realismo necessario e senza inseguire progetti illusori.
Avanzo allora tre proposte. La prima è quella di concordare una partecipazione incrociata agli organismi direttivi delle singole organizzazioni, quando ovviamente non si tratti di problemi di carattere interno, così da favorire sia una migliore conoscenza reciproca sia un modo di discutere e di assumere le decisioni che tengano sempre conto della più larga dimensione unitaria in cui ciascuno deve operare.
La seconda ipotesi è quella di dar vita, in alcuni campi, a degli uffici unificati, e questo può essere fatto in almeno due settori, nei quali abbiamo già un livello molto alto di elaborazione comune: la politica internazionale e la negoziazione territoriale. Infine, può essere definito un codice di regolazione di tutto il processo decisionale, dalle piattaforme agli accordi, per fissare regole e garanzie democratiche: come si decide, come si convalidano le intese, come si coinvolgono gli iscritti e i rappresentati nelle decisioni.
Questo terzo aspetto è importante perché l’unità non può essere solo un’accorta diplomazia di vertice, ma deve suscitare un processo più largo di partecipazione consapevole, e questo lavoro di promozione della partecipazione sarà tanto più efficace se lo facciamo insieme, con una volontà comune, senza anteporre le sigle di organizzazione e la loro concorrenzialità. Potremmo allora organizzare una grande campagna di assemblee pubbliche, gestite unitariamente, in tutto il territorio della Lombardia, per definire insieme obiettivi e iniziative, per costruire un largo movimento su tutti i temi che ci vedono impegnati, e anche per dare tutta l’informazione necessaria sulla legge finanziaria, sui nostri rapporti con il governo e con la giunta regionale, su ciò che siamo riusciti ad ottenere e su ciò che resta da fare. Coinvolgere le persone è sempre il modo migliore per motivarle e per ottenere una partecipazione attiva. E alle persone dobbiamo dire la verità: svelare l’inganno propagandistico di un governo che ha promesso un nuovo “miracolo economico” e che nei fatti ha prodotto un grave declino del Paese e una condizione generale di insicurezza; e anche riconoscere i limiti dell’azione sindacale, lo scarto che si è determinato tra mobilitazione e risultati, per discutere insieme sulle scelte da fare per rimontare questo scarto e per riprendere con forza la mobilitazione. È tutta l’attività di negoziazione sociale nel territorio che deve essere rilanciata, costruendo nuovi rapporti, nuove alleanze, con la rete dell’associazionismo e con le istituzioni locali. Siamo noi che dobbiamo prendere sul serio il federalismo e la sussidiarietà, l’autogoverno locale e l’integrazione costruttiva tra l’iniziativa pubblica e i soggetti sociali. Su questi terreni la destra, come abbiamo già chiarito, produce solo un effetto distruttivo, perché nella tenaglia tra centralizzazione e privatizzazione viene bruciato quello spazio pubblico nel quale i diversi soggetti concorrono a definire la dimensione comune e democratica della polis. II nostro lavoro, all’opposto, è un lavoro di costruzione, di concertazione, per “fare sistema”, per mettere insieme le risorse, le competenze, le progettualità, con l’obiettivo di una più forte coesione sociale.
Infine, deve essere del tutto chiaro che noi operiamo in un quadro di crescente integrazione internazionale, e che partecipiamo attivamente alla costruzione della nuova dimensione europea, a questo straordinario processo che può dar luogo ad una nuova forma politica, a nuove istituzioni, ad una cittadinanza che si allarga e che unisce in un comune destino tutto il nostro continente. Sul progetto europeo noi dobbiamo investire con grande determinazione, perché sta qui la possibilità di un diverso assetto mondiale e di una alternativa al dominio unilaterale della potenza americana. Noi intendiamo rafforzare tutto il nostro lavoro internazionale, perché pesiamo se sappiamo costruire rapporti, convergenze, azioni comuni, in Europa e nel mondo.
Sui destini del mondo ci sono molte ombre e molte inquietudini. Ma comincia ad esserci una grande discussione di massa, che si interroga sul futuro, sugli assetti politici, sul ruolo delle grandi organizzazioni internazionali, sulle forme che può assumere il processo di globalizzazione. Lo SPI CGIL ha voluto partecipare, giustamente, al Forum mondiale di Porto Alegre, e dovremo meglio attrezzarci nel futuro per essere parte viva e attiva in tutto il dibattito politico e culturale che riguarda il futuro della comunità internazionale. Quando c’è partecipazione, movimento, ricerca appassionata, c’è anche una speranza, una leva su cui agire, c’è un’opinione pubblica mondiale che si sta formando e che sta prendendo coscienza. Guai a sottovalutare tutto ciò.
II mondo può cambiare se non è lasciato solo alla diplomazia degli Stati e alla logica dei rapporti di potenza. Anche in Iraq, in questo paese devastato prima da una dittatura feroce e poi da una guerra illegittima, la speranza è nella volontà di partecipare, di decidere, di far sentire la propria voce, che si è manifestata con il voto popolare, in condizioni di estrema difficoltà. Da qui possiamo ripartire, vedendo tutte le nuove potenzialità democratiche di una situazione difficile, ma aperta verso nuovi sbocchi. E così, analogamente, il voto democratico dei palestinesi, che ha legittimato una nuova leadership, apre una nuova possibilità e rimette in cammino il negoziato politico per un accordo di pace e per la costruzione di un nuovo quadro di sicurezza che garantisca la sovranità di Israele e la fondazione di un nuovo Stato Palestinese. In questo mondo convulso, attraversato dalla violenza e dalla barbarie, vanno pur colti i segni positivi, i germi di qualcosa di nuovo che può essere fatto crescere. Noi a questo dobbiamo dedicarci, a sostenere con tutte le nostre forze questi germi di speranza, ad accompagnarli con la solidarietà, con la cooperazione, con un’azione politica generosa che scommette su un nuovo futuro possibile.
Ora davvero concludo, e se ho tralasciato o solo sfiorato molti problemi, sarà il nostro dibattito a colmare questi vuoti. E soprattutto sarà il congresso il momento in cui dovremo assumere tutte le decisioni strategiche necessarie, in un rapporto stretto di collaborazione tra lo SPI e la CGIL. Penso che dobbiamo costruire le condizioni per un congresso unitario, perché ciò darebbe a tutti noi maggiore forza e maggiore autorevolezza. Si può ottenere questo obbiettivo se c’è in tutti senso della responsabilità, della misura, e rispetto per la diversità delle opinioni. L’unità non è il livellamento delle differenze, l’appiattimento burocratico su cui si costruisce un gruppo dirigente monocorde. È come in un’orchestra: se tutti suonano lo stesso strumento ne viene un effetto deprimente. L’unità si costruisce con la capacità di ascolto reciproco, di dialogo, di ricerca sempre aperta, senza irrigidire e cristallizzare le diverse posizioni. Per quanto mi riguarda, e per quanto riguarda la nostra struttura regionale, sarà questo il nostro impegno.
Forse qualcuno di voi può ricordare come ho iniziato il mio mandato, con il proposito di “smilitarizzare il pensiero”, e con il richiamo ad un altro grande classico cinese, lo stratega Sun Tzu, che ha indicato il vertice dell’arte politica nella capacità di «vincere senza combattere». Non è forse attuale oggi questo messaggio, nell’epoca delle guerre preventive? Dovremo tutti imparare, da ora in avanti, a fare seriamente i conti con la Cina, con il suo passato e con il suo presente.
Smilitarizzare il pensiero non significa scolorire la forza delle idee e adattarsi a qualunque compromesso, ma significa non costringere le idee nella logica dei blocchi contrapposti e della volontà di potenza, non irreggimentarle, ma lasciarle libere nella loro dinamica. Per una grande organizzazione di massa, come la nostra, ciò significa non lasciar prevalere i meccanismi della burocratizzazione. Mi sembra che in questa direzione abbiamo compiuto un buon tratto di cammino, e questo ci consente di essere tutti, nello stesso tempo, più liberi e più responsabili.
Busta: 4
Estremi cronologici: 2004, 23-24 febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: Pubblicato in “Riccardo Terzi, un pensiero innovatore”, pp. 55-71