CONVEGNO DEI CONSIGLI OPERAI DI QUARTIERE

2-3 aprile 1971

Relazione del compagno Riccardo Terzi – Segretario del Comitato cittadino di Milano

Questo convegno vuole avere il carattere di un momento di preparazione alla Conferenza provinciale dei lavoratori comunisti, di un contributo specifico dell’organizzazione del Partito nella città: perciò non intendiamo trattare tutti i temi, ma anzi vogliamo mettere in evidenza un aspetto particolare – che ci pare essere quello più significativo per la città – e cioè l’esperienza dei consigli operai di quartiere, che ancora non è stata pienamente sviluppata, e che tuttavia indica una direzione di lavoro che può essere feconda. Per questa ragione, il convegno di oggi lo consideriamo come il primo convegno dei consigli operai, e cioè un primo bilancio cui dovranno seguire nuove e più estese esperienze.

Le esperienze finora maturate sono fra loro molto diverse: si tratta ora di operare una unificazione politica; ma ciò deve avvenire senza impoverire le esperienze di base, senza irrigidirle in uno schema astratto, lasciando quindi un ampio margine alla sperimentazione e alla creatività.

Per cogliere il senso politico generale che deve unificare tutto il nostro lavoro, occorre avere presenti alcuni punti di riferimento essenziali:

 

1) la qualificazione degli obiettivi di lotta del movimento operaio, il passaggio ad una nuova fase caratterizzata dalle lotte di riforma

2) il processo di unificazione sindacale e le conseguenze che ne derivano circa il rapporto tra sindacato e partito

3) la questione delle alleanze sociali, della costruzione di un nuovo blocco dominante egemonizzato dalla classe operaia

4) il processo di rinnovamento e di sviluppo del Partito nella nuova situazione politica

 

Brevemente entriamo nel merito di queste questioni fondamentali, che sono tra loro strettamente collegate ed intrecciate.

 

1) Con l’avvio delle lotte di riforma si apre una fase nuova e più avanzata.

Ciò significa che, insieme con il carattere nuovo degli obiettivi di lotta (i quali trascendono la dimensione aziendale per investire i nodi strutturali della società) tutti i termini della strategia di lotta vanno nuovamente verificati e definiti.

È evidente infatti che una lotta di riforma non può essere condotta nello stesso modo di una lotta aziendale o contrattuale, e ciò perché l’avversario con cui ci si misura non è soltanto il padronato, ma è tutta la struttura di potere, economica e politica, della società.

Ora, proprio perché siamo in una fase nuova, ancora molti problemi non sono stati risolti e il movimento operaio deve compiere un grande sforzo di approfondimento, di elaborazione, di rinnovamento degli strumenti e delle forme di lotta.

A questo proposito, due errori devono essere evitati, il primo è quello di sottovalutare la portata di questa nuova fase, di concepire le riforme come uno sviluppo puramente quantitativo degli obiettivi rivendicativi tradizionali.

La conseguenza di questa sottovalutazione è un atteggiamento di inerzia, l’illusione di una lenta ed inarrestabile marcia in avanti del movimento operaio, e, per questa via, mancando una precisa coscienza del significato politico della lotta, della portata degli obiettivi e quindi della resistenze tenaci che necessariamente si manifestano, mancando tutto questo il movimento operaio sarebbe ben presto condotto alla sconfitta, o sarebbe spinto su una linea riformistico-borghese, rinunciando ad una lotta di carattere strutturale.

Noi invece diciamo che la lotta per le riforme, essendo una lotta più avanzata, più generale, è quindi una lotta molto più difficile ed impegnativa, e pertanto chiede un salto in avanti di tutto il movimento operaio, una maggiore capacità di mobilitazione, un più elevato grado di coscienza e di combattività.

Il secondo errore (opposto rispetto a quello precedente) consiste nel ritenere irraggiungibili gli obiettivi di riforma, irrealizzabili prima della conquista del potere politico da parte della classe operaia, per cui si dà per scontato un esito negativo della lotta, e si concepisce la lotta per le riforme solo come un’azione propagandistica e strumentale.

Ciò è sbagliato in linea di principio, ed è soprattutto un errore politico estremamente pericoloso, perché tende ad alimentare sfiducia e delusione nei lavoratori.

Al contrario, noi mettiamo l’accento sulla necessità di ottenere dei risultati concreti, di dimostrare alla prova dei fatti la possibilità di avanzare sulla via delle riforme.

È del tutto evidente come questa lotta per trasformazioni sociali profonde, per un diverso sviluppo dell’intera società italiana, possa procedere solo nel quadro di mutamenti politici, e pertanto essa richiede una vigorosa iniziativa politica, una accelerazione di tutto il processo di spostamento a sinistra della realtà politica nazionale.

L’obiettivo di una politica di riforma è, nella nostra visione, strettamente collegata con l’obiettivo di una nuova maggioranza.

Movimenti di massa ed iniziativa politica, azione del sindacato e azione del partito, sono dunque parte di un unico processo di avanzamento della classe operaia, ed è inutile pedanteria voler fissare in modo preciso la linea di demarcazione fra ciò che è sindacale e ciò che è politico.

La realtà non può essere racchiusa entro questi schemi dottrinari e deve sempre essere colta nel suo insieme, nella sua unità fondamentale.

 

2) Veniano così ad affrontare il secondo problema, quello del nostro atteggiamento politico nei confronti dell’attuale realtà del movimento sindacale.

Sindacato-partito, lotta sindacale-lotta politica, abbiamo prima chiarito, non sono concetti metafisici, ma sono componenti di una realtà unitaria.

Ciò non significa negare l’autonomia del movimento sindacale e volerlo subordinare a direttive di partito; significa al contrario che l’autonomia stessa è una scelta politica (che noi abbiamo con chiarezza e con convinzione compiuto), è cioè una scelta che corrisponde ad un giudizio politico sulla realtà del movimento operaio.

Tutta la nostra strategia è fondata su questo principio dello sviluppo autonomo dei movimenti di massa, condizione necessaria perché la classe operaia e le forze sociali progressive possano pienamente esplicare il loro potenziale di lotta.

Dunque, su questa questione dell’autonomia non siamo disposti ad accettare le prediche di nessuno: tutta la storia di questo dopoguerra dimostra come il PCI sia stato il più coerente sostenitore del valore dell’autonomia dei movimenti di massa, e questa autonomia l’ha difesa dalle ingerenze e dalle strumentalizzazioni.

La lotta per l’autonomia è stata sempre, per noi, lotta per l’unità del movimento. Anche da questo punto di vista, si entra ora in una fase nuova, caratterizzata dallo sviluppo del processo unitario.

È questo un risultato politico, cui noi abbiamo contribuito in misura determinante, e dobbiamo riuscire a portare a compimento questo che è un evento decisivo del movimento operaio, dobbiamo liquidare le ultime resistenze anti-unitarie e le manovre volte a ritardare o deviare questo processo. La costruzione di un sindacato unitario ed autonomo rappresenta una realtà nuova, e ciò certamente pone anche al partito problemi ed esigenze nuove, richiede modelli di comportamento diversi che nel passato, richiede soprattutto una maggiore iniziativa politica, maggiori responsabilità, un impegno di intelligenza politica e di lotta ancora più vasto.

A questa prova impegnativa noi vogliamo andare, e non siamo frenati, come qualcuno vorrebbe far vedere, da paure conservatrici, da timidezze burocratiche.

Con altrettanta chiarezza, dobbiamo dire che il Partito non può e non deve essere indifferente rispetto ai contenuti dell’unità sindacale, e quindi come comunisti, in quanto parte rilevante del movimento operaio, intendiamo operare perché tali contenuti siano pienamente rispondenti agli interessi di fondo della classe operaia, siamo impegnati a contrastare qualsiasi operazione di segno moderato o riformistico.

Il mezzo più efficace per contrastare tentativi di questo genere è quello di sviluppare una piena e reale democrazia sindacale, facendo sì che tutte le scelte, anche quelle relative alla formazione dei gruppi dirigenti, siano l’espressione autentica della volontà dei lavoratori, togliendo così spazio alle manovre opportunistiche.

D’altra parte, come il partito non è indifferente alle prospettive sindacali, così il sindacato non può essere indifferente alle prospettive politiche, ma ha bisogno di un rapporto con le forze politiche, e ha bisogno che si realizzi una crescita della vita democratica, il che significa essenzialmente salvaguardia della funzione democratica dei partiti e sviluppo dei loro collegamenti con le masse popolari.

Per riprendere le parole di Togliatti, «non è concepibile, oggi, una società democratica nella quale non esiste il partito politico. La tendenza a ridurre, in questa società, la funzione del partito politico e la sua importanza; la tendenza a denunciare la presenza e l’intervento continuo del partito politico nella vita democratica come elemento di disturbo e quasi di degenerazione, è una tendenza da considerarsi nettamente reazionaria.»

Per questo, occorre respingere con molta forza le posizioni, che qua e là si manifestano, di pansindacalismo, cioè la concezione chiusa e corporativa di un movimento sindacale che si considera estraneo alla vita politica del paese e quasi ostile nei confronti delle forze politiche.

Ciò avviene quando il principio dell’autonomia si trasforma e diviene separazione, rottura, incomunicabilità tra sindacato e partiti; ciò avviene quando le misure di incompatibilità cessano di essere delle misure funzionali, tali da favorire l’unità sindacale, e diventano dei princìpi assoluti, si trasformano in una filosofia dell’incompatibilità.

Per questa via si giunge alla conclusione aberrante e inaccettabile in linea di principio che i diritti sindacali del lavoratore siano in contrasto con l’esercizio pieno dei diritti politici.

È questa una posizione antidemocratica, che corrisponde ad una visione conservatrice e moderata, secondo cui i lavoratori dovrebbero restare prigionieri di una mentalità corporativa e non possono quindi elevarsi al livello della coscienza politica.

È poi evidente, da un punto di vista pratico, come il fine non confessato di queste posizioni sia quello di indebolire il prestigio e la forza del PCI in mezzo ai lavoratori.

Vi è stata, nella lotta contro queste posizioni, qualche nostra debolezza. Debolezze e incertezze debbono ora essere rapidamente superate: dobbiamo condurre una campagna di orientamento, ed una lotta per il riconoscimento effettivo dei diritti politici dei lavoratori, perché i partiti politici abbiano pieno diritto di cittadinanza nello fabbriche, superando così i limiti attuali dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori.

Il movimento operaio, abbiamo detto, è impegnato in un grande scontro sociale e politico. Per vincere questa battaglia è decisivo che tutto il movimento operaio sia irrobustito: e decisiva è l’esistenza di un grande sindacato unitario, segno di maturità del movimento operaio, ed è decisivo il ruolo dei partiti politici, la crescita della vita democratica.

È da questa visione di insieme che facciamo discendere l’impegno per un rilancio della presenza organizzata del partito nei luoghi di lavoro, del carattere di classe del Partito.

 

3) Prima di esaminare le questioni del Partito in fabbrica, e quindi il problema dei consigli operai, è necessario ancora un richiamo politico di ordine generale.

È stato detto al XII Congresso che la strategia delle riforme è essenzialmente una strategia delle alleanze. Questo problema assume oggi un rilievo di primo piano, e su questo terreno si misura l’effettiva capacità del Partito di realizzare la propria linea strategica.

Non intendiamo le alleanze con una somma di interessi corporativi: sarebbe questa una concezione meschina, strumentale, e alla lunga improduttiva.

Il partito non è una specie di camaleonte, che, a seconda delle circostanze, si mette la tuta operaia o l’abito piccolo-borghese.

Il carattere operaio è la sostanza stessa del Partito, ma proprio per questo, proprio perché siamo conseguentemente il partito della classe operaia, siamo in grado di offrire una prospettiva a tutte le altre classi sociali che sono oppresse dal dominio monopolistico.

Realizzare una politica di alleanze non significa quindi lusingare gli interessi corporativi delle categorie sociali intermedie, ma al contrario significa operare in esse un superamento del corporativismo, fare intendere la necessità di un rinnovamento generale della società e dimostrare come questa prospettiva corrisponda all’interesse profondo di tutte le classi lavoratrici.

Di questo appunto ha bisogno la lotta per le riforme: di isolare i ceti conservatori, di aprire, accanto a quello della fabbrica, nuovi fronti di lotta.

Dobbiamo ora tradurre in azione quotidiana questa linea politica, compiendo un grande lavoro di propaganda nei confronti di tutte le categorie sociali, organizzando assemblee pubbliche nei quartieri sui temi di riforma, incontri degli operai con gli esercenti, coi professionisti, con gli studenti, con gli artigiani e così via.

Si tratta poi di lavorare per la costruzione di autonomi movimenti di lotta, di organizzazioni democratiche che raccolgano e mobilitino queste forze sociali.

Ecco allora tutta l’importanza del nostro lavoro verso il movimento studentesco; verso le categorie degli esercenti e degli artigiani e verso le loro organizzazioni (è da ricordare in proposito la costituzione a Milano della confesercenti), e verso tutte quelle altre categorie professionali che attualmente non hanno ancora alcun rapporto con il movimento operaio e sono largamente influenzate dalle forze moderate e conservatrici.

In questo momento, in cui si è sviluppata un’offensiva reazionaria grave e pericolosa, abbiamo potuto valutare tutta l’importanza che ha questo problema delle alleanze sociali, è apparso cioè chiaro che l’esito dei tentativi reazionari dipenderà anzitutto dalle basi di massa che queste forze riusciranno a costruirsi, e quindi la questione decisiva per liquidare tentativi reazionari è quella di impedire il coalizzarsi di un blocco sociale di destra.

 

4) Fissate queste linee generali, dobbiamo sottoporre a verifica critica tutto il nostro lavoro, la nostra struttura organizzativa, i metodi della nostra azione politica, in breve la realtà del Partito in tutte le sue dimensioni.

Dalla campagna dei Congressi di Sezione emerge un dato generale: il Partito ha consolidato la propria unità politica, ma d’altra parte, pur avendo un orientamento politico chiaro spesso la nostra organizzazione stenta a trovare la via dell’iniziativa politica di massa, e l’adesione alla linea politica del Partito rischia allora di essere un fatto solo intellettuale.

Si tratta quindi di passare dalla discussione intorno alla politica del Partito, alla piena realizzazione di questa politica.

Ora la questione dei consigli operai è un momento centrale di questa verifica del lavoro del Partito.

Tutte le esigenze politiche del momento – sviluppo della forza organizzata del Partito nelle fabbriche, iniziativa politica sui temi di riforma, ruolo dirigente della classe operaia e quindi suo collegamento con tutti i movimenti di lotta – tutto ciò trova nel consiglio operaio uno strumento importante, funzionale rispetto a queste esigenze.

Il punto di partenza è l’organizzazione di partito nella fabbrica, la cellula e la Sezione di fabbrica: non vi sono scorciatoie che ci possono far eludere questo problema, e il Consiglio operaio presuppone l’esistenza di una rete organizzativa di cellule di fabbrica, è appunto l’espressione di tale rete organizzativa.

Qual è la situazione attuale?

Nel corso delle lotte del ‘69 e ‘70 abbiamo ottenuto alcuni risultati con la costruzione di nuove cellule, e con un maggiore impegno del Partito in questa direzione.

Tuttavia, siamo ancora al di sotto delle necessità politiche, e vi è anzi qualche tendenza ad allentare questo fondamentale impegno di lavoro.

Occorre qui ribadire alcuni principi organizzativi: l’area di intervento della Sezione è il territorio della Sezione in tutte le sue componenti (le abitazioni, i centri di attività sociale, le scuole, gli uffici, le fabbriche).

Sezione territoriale non significa quindi Sezione di strada, sezione che fa soltanto il lavoro di quartiere: è questa una deformazione della natura del Partito.

La diversa configurazione sociale del territorio delle singole sezioni rende preminente questo o quell’altro aspetto del lavoro, ma, data la caratteristica di Milano, ogni sezione, sia pure in misura diversa, deve porsi il problema dell’organizzazione nei luoghi di lavoro.

Dove questo non avviene, occorre operare rapidamente una rettifica, e se ci sono resistenze occorre anche una battaglia politica.

Evidentemente, questa nostra concezione organizzativa – la fabbrica come parte integrante del territorio – si scontra con ostacoli obiettivi, in quanto l’operaio della fabbrica nella maggioranza dei casi non è residente nello stesso quartiere per cui è difficile trovare un punto di unificazione fra questi diversi aspetti.

Risolvere questo problema, è questo appunto uno dei nostri compiti fondamentali, e ciò non può essere fatto in astratto, ma ogni singola sezione deve compiere un’analisi della propria situazione, per predisporre adeguate misure politiche e organizzative, prendendo in esame la struttura produttiva del quartiere, il rapporto fra lavoratori e residenti, i possibili punti di ritrovo e di incontro, le forze che il partito ha a disposizione per assicurare il collegamento con la fabbrica.

In breve, occorre un preciso piano d’azione, fissato nei suoi dettagli organizzativi.

Un altro principio da ribadire è che l’iscrizione al Partito deve avvenire nei luoghi di lavoro (dove esiste la cellula) o nei luoghi di residenza.

Occorre porre fine rapidamente a tutti i fenomeni di anarchia organizzativa attualmente esistenti, perché ciò compromette gravemente il lavoro delle Sezioni.

Dunque, il Partito in fabbrica, è questo l’obiettivo di tutta l’organizzazione, e questo obiettivo deve essere visto in relazione ai nuovi spazi di vita democratica che nella fabbrica si sono conquistati (l’Assemblea, il Consiglio di fabbrica).

Siccome non siamo democraticisti o spontaneisti, sappiamo che l’efficacia di questi strumenti dipenderà dal grado di coscienza politica, e quindi in primo luogo dal ruolo dirigente del Partito, dalla nostra capacità di offrire delle risposte ai problemi e delle indicazioni di lavoro e di lotta.

Un aspetto importante del lavoro del Partito nei luoghi di lavoro è il lavoro di propaganda, la necessità di intervenire tempestivamente con il giudizio politico del partito, la necessità di allargare la rete dei giornali di fabbrica.

Occorre anche più attentamente considerare le possibilità esistenti per uno sviluppo della politica unitaria nella fabbrica, in rapporto con le altre forze di sinistra (comitati unitari antifascisti, confronto politico sui problemi delle riforme ecc.).

D’altra parte, nel momento in cui la classe operaia si impegna sui temi di riforma, su temi che vanno al di là della dimensione della fabbrica, emerge l’esigenza di un’azione esterna alla fabbrica, di un collegamento tra fabbrica e società, tra classe operaia e altri strati sociali, per aggredire i nodi strutturali, i problemi dello sviluppo economico, dell’organizzazione civile della città.

Ciò è vero in generale, ed è vero in particolare per tutta la fascia delle piccole e medie aziende: la classe operaia che è dispersa in questa fascia deve potersi riunire, concentrare, così da assumere una forza politica reale.

Ecco allora il significato del Consiglio operaio (consiglio dei lavoratori comunisti): esso è il momento di riunificazione politica, di collegamento tra fabbrica e fabbrica, e poi tra fabbrica e quartiere, tra cellula aziendale e sezione territoriale. Il consiglio operaio è uno strumento della politica del partito: esso riunisce i rappresentanti delle fabbriche e i compagni delle Sezioni per compiere un lavoro politico su tutti i problemi della condizione operaia che si pongono dentro e fuori dalla fabbrica.

Esso è quindi anche un momento di maturazione e di formazione dei quadri operai, come quadri dirigenti.

Se ciò è chiaro, ancora da definire e sperimentare sono molte altre questioni: la dimensione territoriale di questi consigli (che deve essere più ampia di quella della Sezione, ma tale da rendere possibile un lavoro in comune), il rapporto tra piccole e grandi fabbriche, il metodo di lavoro, gli strumenti di propaganda, i problemi della direzione politica e del coordinamento organizzativo.

Per risolvere concretamente tali problemi è necessario un lavoro permanente del Partito. Se siamo convinti della giustezza di questa linea, dobbiamo assicurare ai consigli operai la possibilità piena di funzionare, di avere un’attività continuativa, di avere degli strumenti di lavoro, dei quadri, delle strutture organizzative solide.

A questo punto, il discorso dovrebbe essere spostato sui contenuti dell’iniziativa politica, degli obiettivi di lotta, sui problemi intorno ai quali si deve cimentare la nostra capacità di elaborazione e di mobilitazione.

Il discorso, però, sarebbe troppo ampio, e non può in questa sede essere sviluppato se non per accenni.

 

Possiamo distinguere tre grandi filoni:

1) Problemi dell’organizzazione del lavoro.

Nella società capitalista, il lavoro viene organizzato in funzione del massimo profitto, e quindi le possibilità aperte dal progresso scientifico e tecnologico vengono orientate nel senso di un più raffinato ed efficiente sistema di sfruttamento della classe operaia.

Il padronato, disposto talora a concessioni di carattere salariale, è assai più resistente e intransigente nella difesa di questo modello di organizzazione del lavoro. Nonostante ciò, la coscienza di questi problemi è cresciuta nei lavoratori, e la lotta contro la stessa organizzazione capitalistica del lavoro è ormai una lotta matura, dato il grado di insopportabilità raggiunto dalla condizione operaia.

Così, ad esempio, i lavoratori non sono più disposti ad accettare dei compensi salariali in cambio della rovina della loro salute e del loro equilibrio nervoso, ma si pongono come obiettivo di lotta quello di ribaltare la logica capitalistica che subordina l’uomo alla produzione, e di ristabilire il valore prioritario dell’uomo rispetto ad ogni altro valore.

Si apre un campo di ricerca assai vasto e avvincente: si tratta di individuare i connotati essenziali di un diverso modo di produrre, di una diversa organizzazione del lavoro, utilizzando tutte le risorse della tecnica non già per annientare il lavoratore ma all’opposto per liberarlo dallo sfruttamento.

In questo quadro si pongono tutti i problemi dei ritmi, dell’orario di lavoro, della qualificazione professionale, della salute nella fabbrica, dell’ambiente di lavoro e così via.

È evidente che il partito non può essere estraneo a questa ricerca, e non può considerare questi temi come di esclusivo interesse sindacale.

 

2) Problemi dell’organizzazione civile della società, e quindi della condizione operaia fuori dalla fabbrica, nella città.

Questi problemi hanno a Milano un rilievo ed una gravità eccezionale.

Più volte è stato denunciato, e non solo da parte nostra, il carattere disumano e abnorme della moderna città capitalistica: l’operaio, sfruttato in fabbrica, si trova poi ad essere spogliato anche dal proprio diritto al tempo libero, e subisce una volta fuori dalla fabbrica, un’oppressione non meno intollerabile.

Ecco allora sorgere tutto un altro complesso di problemi (molti dei quali sono oggi contenuti nelle lotte di riforma): il problema della casa, dell’assetto territoriale della città, dei trasporti, dei servizi sociali, dell’organizzazione del tempo libero, delle strutture culturali associative ecc.

Su tutti questi temi sono sorti, nella città, numerosi movimenti di quartieri, comitati di agitazione, con i quali occorre stabilire un rapporto politico, per elevare ulteriormente il grado di coscienza e per allargare il carattere di massa di questi movimenti.

 

3) Infine, si pongono i problemi della democrazia, e cioè dell’organizzazione politica della società. Anche da questo punto di vista, assistiamo nella nostra città ad una crescente sensibilità popolare, ad una domanda di partecipazione attiva alle scelte politiche, e di ciò anche le forze politiche dominanti hanno dovuto tener conto, cominciando timidamente a realizzare delle forme di decentramento del potere (consigli di zona).

Il fatto da cui partire è l’esistenza di una contraddizione di fondo fra coscienza democratica delle masse e gestione burocratica del potere: la classe dominante è incapace di sciogliere queste contraddizioni, perché il suo stesso potere ne uscirebbe profondamente scosso e indebolito.

Sta dunque a noi, sta alla classe operaia, affrontare di petto questa contraddizione, prendendo in mano gli ideali di democrazia, e proporre un diverso modo di organizzazione e gestione del potere, tale da realizzare l’effettiva partecipazione delle masse popolari, mediante nuove forme di controllo dal basso e di gestione sociale.

Su questi temi si misura la capacità del partito, si misura la possibilità di realizzare nuovi schieramenti politici e sociali, si misura il ruolo dirigente della classe operaia.

Mediante i consigli operai, noi intendiamo mandare avanti questa politica, per far maturare a Milano condizioni più avanzate, più favorevoli alla classe operaia, portare avanti con maggior rapidità tutti i processi di unità operaia e di dislocazione a sinistra di nuove forze sociali. Vedendo in ciò la condizione per battere le manovre reazionarie e per aprire la via della trasformazione socialista.


Numero progressivo: F11
Busta: 6
Estremi cronologici: 1971, 2-3 aprile
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -