CONTRATTARE IL MODELLO SOCIALE

L’orizzonte del sindacato moderno

di Riccardo Terzi – Coordinatore dell’ufficio Riforme istituzionali della CGIL

Accolgo l’invito di Quale Stato a una discussione aperta sulle sorti del sindacalismo italiano, in questa complicata fase di “transizione”. Negli articoli di Paolo Nerozzi e di Michele Magno (Cfr. Quale Stato, 1997, n. 3/4, pp. 9-16 e 19-38) c’è in primo luogo la rivendicazione, che condivido pienamente, del diritto-dovere del sindacato di intervenire direttamente, con una propria autonoma progettualità, nel processo politico-istituzionale che si è aperto e dal quale dipendono gli scenari del prossimo futuro.

Non è accettabile una delimitazione delle “sfere di influenza”, una separazione del politico e del sociale, perché questa linea di confine, se mai è esistita, è ora del tutto evanescente. Il sindacato rischia allora, se sta chiuso nei suoi confini tradizionali, di consegnarsi totalmente nelle mani di decisioni che sfuggono al suo controllo e di adattarsi a un ruolo sempre più marginale e minimale. Resta solo lo spazio per una azione corporativa di piccolo cabotaggio.

In questo senso, io non condivido il teorema, fatto proprio anche da Cofferati, secondo il quale ciascuno deve fare il suo mestiere.

Si ritiene possibile oggi, nell’epoca della globalizzazione, parlare di “mestieri”, ovvero di circuiti chiusi e autosufficienti, nel momento in cui tutte le posizioni “protette” vengono spazzate via e sono gettate nel meccanismo della competizione globale?

Platone poteva concepire l’ordinamento perfetto della polis come un sistema di caste sociali, ciascuna realizzata e appagata nel suo proprio ordine. Ma la storia ha via via rimescolato e destrutturato l’ordine sociale tradizionale, e solo un’utopia conservatrice può continuare a raffigurarsi la società come un sistema gerarchicamente ordinato.

Il tratto della nostra epoca è integrazione, interdipendenza, globalizzazione, e quindi ogni problema, anche parziale, chiama in causa il processo complessivo. L’efficacia di qualsiasi azione dipende dalla sua capacità di interagire sulla scala globale con tutti gli altri elementi che sono messi in gioco, altrimenti essa si consuma e si spegne. È questo il destino di tanti progetti di riforma, se vengono pensati in una dimensione troppo angusta e settoriale, perché finiscono schiacciati dalla logica del sistema e dalle sue rigide compatibilità. Insomma, se il processo è globale, anche i progetti politici lo debbono essere.

Per quanto attiene al rapporto tra il sindacato e il sistema politico, esso ha subito, negli ultimi anni, una mutazione decisiva. Nella tradizione storica della sinistra, il primato del partito politico era legittimato dal suo essere la forma superiore della coscienza di classe, lungo una linea di interconnessione organica dal sociale al politico. Partito e sindacato erano concepiti come parti di un complesso unitario, del movimento operaio come unità storica. Ma ora è proprio questa configurazione che si è dissolta. Dov’è oggi il partito di classe? La politica si è emancipata dai suoi referenti sociali. Sinistra e destra non sono più blocchi sociali, ma sono piuttosto blocchi culturali, alternativi sotto il profilo dell’etica e dei valori più che sotto il profilo degli interessi.

E allora non c’è più nessuna possibilità di delegare la rappresentanza del lavoro alla sfera politica, perché essa è strutturata su altri e diversi principi. Ci può essere dialogo, e ci possono essere convergenze, ma non c’è, intrinsecamente, unità di fini e di prospettive. Il sindacato quindi, liberato ormai dal cordone ombelicale che lo legava ai partiti della sinistra di classe, deve giocare in proprio le sue carte, senza alleanze precostituite, e non può, oggi meno che mai, rinchiudersi in una funzione settoriale perché ciò significherebbe una definitiva estromissione da tutti i processi decisionali di valore strategico.

Nel momento in cui la politica si de-socializza, il sindacato è costretto a politicizzarsi, non nel senso di un nuovo collateralismo, ma, all’opposto, per affermare una sua piena indipendenza come soggetto della rappresentanza sociale. Si tratta quindi di una politicizzazione conflittuale, che determina uno spazio dialettico nel rapporto tra movimento sindacale e sistema politico, un campo di conflitto non più regolato dalle appartenenze ideologiche. Di questo conflitto occorre prendere coscienza, e attrezzarsi per essere in grado di gestirlo.

È invece in atto, sul versante politico, un tentativo di mascheramento e di neutralizzazione. Si mettono in campo le ormai esauste risorse ideologiche per pretendere una subalternità dei soggetti sociali alla sinistra politica, e si finge una comunanza di fini, la quale ormai appartiene solo a una retorica convenzionale, senza rapporto con la realtà. Non dico che il conflitto politico sia, dal punto di vista sociale, del tutto neutro e indifferente, ma che esso sta su una diversa lunghezza d’onda e non esaurisce in sé le ragioni della rappresentanza sociale. Sono due sfere che si incontrano dialetticamente, non sovrapponibili l’una all’altra.

Come dice Michele Magno, «l’autonomia del sindacato è sottoposta a una torsione profonda da parte del sistema dei partiti» (Cfr. Quale Stato, cit.). Questa oggi è la posta: se c’è spazio o no per una autonomia del sociale. Sotto questo profilo occorre valutare le ipotesi di riforma del nostro ordinamento costituzionale. Dove sta il cuore del problema? La mia opinione è che l’aspetto centrale, anche dal peculiare punto di vista che è proprio del sindacato, riguarda l’architettura complessiva del sistema istituzionale, più che le singole formulazioni che attengono più esplicitamente alla sfera “sociale”. I diritti sociali sono trattati in modo soddisfacente nella Prima Parte della Costituzione, la quale non è fortunatamente oggetto del processo di revisione.

C’è stato un tentativo di sconfinamento, nel segno dell’ideologia liberista, con la prima formulazione dell’Articolo 56, introducendo un primato del privato sul pubblico; ma la successiva stesura ha eliminato questa forzatura e ha ripristinato, almeno per ora, un corretto equilibrio. Non c’è bisogno di ulteriori affermazioni di principio, anche perché un testo costituzionale deve essere necessariamente sobrio e non deve concedere nulla alla retorica. Può valere, in questo caso, l’ammonimento di Marx: «Componendo migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna».

La Costituzione non è, e non deve essere, un programma di politica sociale, il quale dovrà essere definito dal libero confronto delle forze politiche, fermi restando i diritti fondamentali costituzionalmente protetti. Così, ad esempio, una politica di concertazione sociale che vincola il governo a negoziare con le parti sociali le proprie scelte di politica economica, dovrebbe essere un tratto distintivo della sinistra politica (anche se non sempre nella realtà si verifica questa coincidenza), ma non può divenire un principio costituzionale, perché essa è una delle politiche possibili, ma non l’unica legittima. La proposta avanzata dalla CISL di “costituzionalizzare” la concertazione rappresenta pertanto una forzatura impropria, e come tale essa è caduta nel vuoto, come era logico prevedere.

Occorre tenere distinto il piano politico e quello costituzionale. La concertazione è un obiettivo della politica, e sarebbe già un segnale importante la piena assunzione di tale obiettivo da parte della sinistra politica e dell’intero movimento sindacale. In realtà, nell’uno e nell’altro campo permangono aree refrattarie, o per l’illusione di una iniziativa sociale capace di realizzare una operazione di “sfondamento”, oltre i vincoli delle compatibilità economiche, o per celebrare il rito del “primato della politica”, senza i condizionamenti degli interessi sociali organizzati. Velleitarismo sociale e dirigismo politico si combinano, e da questa miscela prende corpo una posizione di ostilità verso il sindacato e verso ogni sua iniziativa che sconfini nel recinto sacro della politica. Da Rifondazione comunista ai settori cosiddetti “liberal” della sinistra, c’è l’idea che il sindacato debba stare al suo posto.

Che hanno a che fare queste concezioni con le ragioni storiche della sinistra? La sinistra si costituisce a partire dal dinamismo sociale, e vede in esso la forza motrice del cambiamento, mentre all’opposto è la destra che tenta di organizzare un argine, con la costruzione di un potere politico forte, che sia capace di disciplinare il movimento della società.

Ora, nella situazione attuale, l’elemento inquietante è proprio questo ritorno del “primato della politica”, il quale rappresenta, anche quando è ammantato da argomentazioni di sinistra, un progetto di restaurazione. Ciò non è un segno di forza della politica, ma di debolezza. La politica è evidentemente in difficoltà, spiazzata dai processi di mondializzazione dell’economia e dall’affermazione di grandi tecnostrutture internazionali che non dipendono dal circuito politico, ma lo sovrastano e lo condizionano. Si tenta allora la carta di un rilancio della politica, non verso l’alto, come sarebbe necessario, per costruire nuovi più adeguati strumenti di sovranità nel contesto dell’economia mondiale, ma verso il basso, per ricomporre l’ordine sociale e per riportare sotto controllo i movimenti di autonomia che si sono in questi anni realizzati: nella magistratura, nell’informazione, nella rappresentanza sociale, nelle dinamiche territoriali.

Ecco allora dove sta l’elemento dirimente del nuovo progetto costituzionale: se si tratta di una operazione di ricentralizzazione, di rafforzamento dei poteri di comando, o se viceversa si costruisce una poliarchia, un pluralismo dei poteri, che sia capace di riflettere e di riconoscere la complessità del tessuto sociale e istituzionale. Possiamo usare la formula del CENSIS: «valorizzare la vitalità del policentrismo», il che significa sostituire alla verticalizzazione della politica la capacità di mettere in rete i diversi soggetti, valorizzandone le capacità di autonomia.

Sotto questo profilo, il progetto della Bicamerale è ambivalente, perché in esso convivono, non adeguatamente mediate, culture politiche diverse, determinando infine un modello istituzionale incerto, talora contraddittorio, non chiaro nelle sue premesse fondamentali. Presidenzialismo, governo parlamentare, federalismo regionale, municipalismo: tutti questi elementi convivono e si giustappongono, ma proprio perciò, non essendo chiara la ratio complessiva del sistema, è da temere siano già poste le basi per futuri conflitti istituzionali.

È aperta una partita politica molto complessa e difficile, dagli esiti incerti, con il rischio non ancora scongiurato di un fallimento del tentativo di riforma. In questa fase ancora così aperta è essenziale che tutte le forze vive della società italiana siano impegnate nel processo riformatore, allargando così il campo d’azione oltre i confini ristretti del ceto politico e degli specialisti. Alla fine è chiaro che il punto d’arrivo non potrà che essere un punto di equilibrio e di compromesso tra esigenze diverse, ma può essere, a seconda della dinamica politica dei prossimi mesi, un equilibrio di stabilizzazione conservatrice o l’avvio di una vera innovazione istituzionale. Ciò dipenderà, in primo luogo, dalle relazioni tra potere centrale e poteri decentrati, dall’attuazione o meno di una coerente riforma federalista dello Stato.

Che rapporto ha tutta questa problematica con il sindacato e con il suo futuro? A mio avviso c’è un rapporto assai stretto, che è ancora troppo tiepidamente avvertito dai gruppi dirigenti del sindacato. Una struttura federalista dello Stato è una struttura aperta, all’interno della quale il pluralismo della società può trovare i propri canali di regolazione e di autogoverno. Se all’inverso si assume il modello della democrazia plebiscitaria, che si esaurisce nella legittimazione popolare del leader, lo spazio per le rappresentanze sociali, per i corpi intermedi, per la “società di mezzo”, si restringe drasticamente. Da un lato c’è una struttura reticolare, orizzontale, la quale funziona proprio in quanto la società è una articolazione di rappresentanze (sociali, territoriali, funzionali, politiche); dall’altro lato c’è un movimento verticale che va direttamente dalla parcellizzazione individualistica degli interessi verso il luogo dell’autorità politica, la quale ha solo il limite della sua legittimazione democratica originaria, ma una volta istituita agisce in condizioni di totale irresponsabilità.

Il prevalere dell’uno o dell’altro di questi possibili modelli ha evidentemente un impatto fortissimo con la dinamica delle rappresentanze sociali, che possono essere valorizzate o messe fuori gioco. Nel passaggio verso la cosiddetta “seconda Repubblica”, qual è la linea di marcia? Verso una società più strutturata e capace di autogoverno, o verso una condizione di generale analfabetismo politico, per cui tutto viene delegato al leader carismatico? Nella realtà, entrambe queste possibili traiettorie sono presenti. In una società sempre più frastornata dalla politica-spettacolo, si rafforzano le varie forme di populismo, e anche la sinistra è attraversata da questo processo, con una ormai debolissima rete difensiva. Ma nel contempo la società italiana è una società di poteri diffusi, di pluralismo istituzionale, di articolazione sociale e territoriale, ed è questa la risorsa fondamentale su cui far leva per una crescita di consapevolezza democratica, contro i miti del decisionismo politico e quelli, ancor più devastanti, della separazione etnica.

L’esito di questo conflitto, che riguarda il meccanismo sostanziale della nostra democrazia, non è affidato solo al dibattito parlamentare e alle sorti delle riforma costituzionale, ma si gioca in primo luogo nella società reale, nel processo sociale concreto e nei rapporti di forza che si costituiscono su questo terreno. Qui il ruolo del sindacato può essere davvero determinante. Ma è necessario, per questo, un forte salto di qualità dell’azione sindacale. Oggi la posta in gioco è la qualità dell’organizzazione sociale complessiva. Il conflitto si estende oltre i luoghi della produzione e investe l’intera condizione sociale e la stessa dimensione esistenziale. È il conflitto tra i meccanismi della società competitiva e i loro effetti di destrutturazione sociale, e dall’altro lato i possibili percorsi di ri-socializzazione, di ricostruzione delle forme della solidarietà.

Questo è oggi l’orizzonte di un sindacato moderno, all’altezza delle grandi sfide del nostro tempo. Il suo campo d’azione, quindi, si allarga, oltre la dimensione contrattuale, e la sua stessa funzione rappresentativa non può più limitarsi alle figure classiche del lavoro “fordista”. Occorre un sindacato di tipo nuovo, concentrato nel sociale più che nella fabbrica, nel territorio più che nei luoghi tradizionali della produzione, impegnato a contrattare non solo le condizioni di lavoro, ma il modello sociale.

Ed ecco tornare il tema della politica, perché tutto ciò richiede una strategia complessa e non solo un’azione contrattuale, richiede dunque un intervento direttamente nel campo della politica. La politica ha tematizzato l’obiettivo della modernizzazione, e a esso subordina tutti gli aspetti sociali, come problemi solo derivati e secondari. L’azione sindacale apre perciò necessariamente un campo di conflitto, in quanto essa pone in primo piano il tema della coesione sociale, non in termini di astratta contrapposizione ideologica, non in alternativa alle necessità della modernizzazione, ma esplorando dentro la modernità tutte le possibili risorse per un nuovo progetto sociale, tutti i possibili contrappesi che possono bilanciare la logica pervasiva della competitività economica.

Tra politica e sindacato si determina così un movimento complesso di inter-relazione, nel quale si confrontano diversi, anche se non incompatibili, criteri di osservazione della realtà. L’autonomia del sindacato ha qui le sue radici profonde. Se l’autonomia sta in questa capacità di radicamento nel sociale, essa sarà tanto più efficace quanto più si stabilisce una corrispondenza con i diversi contesti territoriali, ribaltando la logica e la prassi del centralismo. Il sindacato stesso deve essere coinvolto nella riforma federalista, mutando le sue regole e le sue forme organizzate, se non vuole ridursi a essere la stampella del vecchio centralismo statale.

Occorre quindi un cambiamento di grande portata: dalla fabbrica al territorio, dal conflitto di classe alle politiche di concertazione, dalla centralizzazione al federalismo, dalla subordinazione al primato della politica alla rivendicazione di una propria autonoma e piena soggettività.

Un tale cambiamento di orizzonte, teorico e pratico, non sarà possibile se non si pone all’ordine del giorno l’obiettivo dell’unità sindacale, per il semplice motivo che solo un grande rimescolamento, un grande processo di ridefinizione delle ragioni e degli obiettivi del sindacalismo italiano può schiodare le vecchie logiche consolidate, le forze d’inerzia della burocrazia, lo spirito di sopravvivenza delle identità e delle appartenenze del passato, che non hanno ormai nessun rapporto con la realtà. L’unità è il campo della possibile costruzione del nuovo, della possibile innovazione. È una scelta obbligata.

Ma finora questa urgenza strategica non è ancora avvertita in tutta la sua necessità, e sembra prevalere un gioco tattico inconcludente, nel quale si alternano gli impegni solenni e le polemiche strumentali, col risultato di tenere la situazione inchiodata al suo punto di partenza. Ciò riguarda anche la CGIL. Anzi, soprattutto la CGIL, che è la forza maggioritaria e ha per questo le maggiori responsabilità. Si pratica una linea di prudente realismo: tenere la prospettiva aperta, ma non forzare i tempi. Il risultato di questa tattica è il nulla. Nei momenti di sconvolgimento degli assetti costituiti e di accelerazione del cambiamento, come è il momento attuale, ha un futuro solo chi ha il coraggio dell’innovazione. Non c’è nulla di più imprudente della prudenza, e nulla di più velleitario del realismo.



Numero progressivo: C33
Busta: 3
Estremi cronologici: 1998, febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - CRS -
Pubblicazione: “Quale stato”, n. 1-2, 1998, pp. 158-168