CONGRESSO REGIONALE DEL PCI

Intervento di Riccardo Terzi

Questo Congresso deve essere l’occasione per una verifica, di ordine generale, dello stato del partito e delle sue possibili prospettive. Il momento che attraversiamo è denso di interrogativi, di problemi, di nodi teorici e strategici, e per questo la “dimensione regionale” del Congresso non deve in nessun modo rinchiudere e limitare il nostro dibattito.

Dobbiamo partire dalla realtà dei fatti, da un esame del tutto oggettivo delle attuali condizioni del partito con quel tanto di freddezza che è necessaria per vedere come stanno effettivamente le cose. Dopo le difficoltà incontrate e il logoramento subito negli anni passati, ancora non è stata imboccata la via della ripresa. Tutti gli indici sono ancora di segno negativo o stazionario: il tesseramento, la dinamica elettorale, l’influenza della nostra stampa, il rapporto con le nuove generazioni, la capacità di penetrazione in nuovi strati sociali.

Si parla talora del triennio ‘76-‘79 come di una parentesi negativa, di un offuscamento transitorio dei legami di massa del partito. Ma la parentesi non è stata chiusa. E sarebbe più corretto ragionare sull’intero arco di questi 5 anni, sulle difficoltà non superate di un’intera fase politica. Non si tratta infatti, di ripristinare un antico modello di partito, ma di guardare con più coraggio alle novità della situazione.

Il Congresso deve cercare di cogliere le ragioni di questo stato di difficoltà, e per questo deve avere una forte impronta critica, deve scavare dentro le questioni più delicate, più difficili, rimuovendo ogni forma di inerzia. Davvero, non varrebbe la pena riconvocare oltre mille delegati, se non tentassimo insieme di misurarci criticamente con la realtà.

Le difficoltà riguardano il nostro rapporto con la società italiana, con la sua evoluzione, con i cambiamenti che si stanno producendo nella composizione delle classi e nelle forme di coscienza collettiva.

I conflitti aperti nel rapporto tra partiti e società coinvolgono anche noi e non può essere sufficiente la difesa delle nostre peculiarità, della nostra tradizione.

Ma ancor prima, le difficoltà sono di ordine interno, stanno nella vita stessa del partito. Il partito, oggi, è un organismo assai complesso, percorso al suo interno da una ricca varietà di tendenze, molto più permeabile che nel passato a ciò che si agita nella società.

Questo mutamento è, in ultima istanza, positivo, perché ciò che si perde quanto a compattezza, a diversità autosufficiente, a solidità di un comune patrimonio ideologico, viene largamente compensato dal fatto che il partito entra in un rapporto più fecondo con la società, non è più un corpo chiuso, e può quindi allargare il raggio della propria influenza.

Ma occorre che a questo mutamento intrinseco corrisponda una riforma, coraggiosa e innovativa, nella nostra vita interna. Nel C.C. di Gennaio questa questione era stata posta, ma poi, nei fatti, la nostra capacità di innovazione è stata di gran lunga al di sotto delle necessità.

Se c’è disagio diffuso e incertezza nei nostri quadri più sensibili, ciò dipende in misura determinante, da questo ritardo.

Il problema della democrazia nel partito mi sembra essere in questa fase la condizione pregiudiziale per creare un nuovo clima, per dare slancio alla ricerca, per restituire motivazioni profonde ad una passione politica che rischia altrimenti di arenarsi.

Senza di ciò, non si ottiene un’attivizzazione di tutte le nostre ancora ricche energie.

Ora, la nostra democrazia interna è ancora essenzialmente una democrazia di mediazione, che accentua, come tale, il ruolo dei gruppi dirigenti, e lo configura come processo di “orientamento” dall’alto, su una linea già pregiudizialmente definita e mediata.

Ne risulta una linea mediana, che troppo spesso non sceglie tra le alternative possibili, ma le combina in una sintesi solo apparente.

La nettezza e il rigore delle posizioni politiche lasciano così il posto alla discrezionalità delle interpretazioni, a un ondeggiamento confuso che disorienta e scoraggia il corpo vivo del partito.

La stessa svolta che ha portato nella direzione di una politica di alternativa ha subito gli effetti di questo metodo di mediazione, al punto da stemperare il suo valore di rottura e di novità, e da essere anch’essa ricondotta entro un quadro di sostanziale continuità con il passato.

Alternativa democratica e solidarietà democratica finiscono per essere due diverse espressioni per enunciare lo stesso concetto: si smarrisce la specificità di questa fase politica, e non risultano perciò chiare le finalità concrete e immediate del partito.

Questo difetto di “continuismo” è stato largamente presente nella direzione regionale del partito. Non si è dato il necessario impulso al rinnovamento della nostra politica, non è stata sollecitata la creatività del partito, e non si è incoraggiato il pluralismo fecondo delle idee.

Si configura così un rischio di uniformità, di omogeneizzazione, di appiattimento e obiettivamente agisce la tendenza a collocarsi prudentemente nella linea mediana.

Esprimo – me ne rendo conto – con una certa secchezza questi giudizi. Ma è questa la sede, credo, per un confronto esplicito, in cui ciascuno si assume la responsabilità delle proprie convinzioni.

Il problema politico centrale è quello della definizione della linea di alternativa democratica, tentando un primo bilancio del lavoro che abbiamo fatto nel corso di questo ultimo anno. La mia opinione, detta in modo un po’ sommario, è che questa politica, nella realtà dei fatti, non è stata effettivamente e conseguentemente praticata dal partito.

Da un lato c’è la tendenza alla continuità, dall’altro c’è un uso solo propagandistico, la tendenza cioè ad agitare il tema dell’alternativa solo come una bandiera che dà colore alle nostre manifestazioni.

Più in generale l’alternativa democratica appare come un orizzonte lontano, come un disegno storico di rinnovamento del sistema politico, e non invece, come una politica concreta, da realizzare a partire dai dati attuali della situazione, come la costruzione di un processo, di un blocco di forze, di uno schieramento di governo.

Un’alternativa, politica e non ideologica non può che avere il senso della costruzione, qui, in Italia, di una nuova dimensione unitaria della sinistra, di uno sforzo tenace in questa direzione, cogliendo tutte le possibilità, tutte le occasioni, gli spiragli anche parziali e limitati che possano far crescere l’idea e la realtà di una moderna sinistra democratica, capace di porsi come fondamento di una nuova direzione politica del Paese.

Ci siamo mossi così, in questo ultimo anno? Nella realtà sono state prevalenti altre spinte, e si è accumulato un potenziale pericoloso di ostilità e di intolleranza verso il partito socialista. E non si tratta solo di un elementare settarismo di base. C’è in larga parte dei gruppi dirigenti del partito un giudizio sull’attuale PSI come parte integrante di un disegno di restaurazione conservatrice.

C’è l’idea del “craxismo” come nuova e aggiornata incarnazione dello spirito del capitalismo. Ma allora, se si pensa così, a che si riduce la politica di alternativa?

Una chiarezza su tale questione non può essere ulteriormente rinviata, perché è evidente che dalla risposta che viene data dipendono politiche diverse, anzi opposte.

La questione degli schieramenti, delle alleanze resta essenziale nella definizione di una strategia politica. Non mi convince la cosiddetta “rivoluzione copernicana” nel rapporto tra schieramenti e contenuti, che rischia di portarci a una posizione che annebbia tutto il valore politico dell’alternativa.

L’errore che abbiamo compiuto negli anni della solidarietà democratica non è stato quello di privilegiare gli schieramenti, ma al contrario di ritenere che un programma di rinnovamento potesse sopportare qualsiasi schieramento, che la stessa DC potesse quindi essere associata a tale compito. Ora, proprio quella esperienza ci dimostra come sia essenziale non solo fissare degli obiettivi, ma indicare a quali forze essi vengono affidati, per impedire che siano vanificati e distorti.

L’ipotesi politica che abbiamo perseguito negli anni dal ‘76 al ‘79, l’ipotesi di un passaggio intermedio contrassegnato da un’ampia coalizione democratica, non ha retto la prova dei fatti e appare ora del tutto bruciato, nell’immediato sicuramente, e io credo anche nella prospettiva.

La tendenza in atto nella DC sembra essere infatti, prevalentemente, quella che la configura come polo moderato, con l’aggravante di venature populistiche e integraliste.

Diviene allora necessario avanzare altre ipotesi, indicare un diverso percorso politico.

Il passaggio intermedio può essere dato, a me pare, da un progressivo spostamento di peso politico dalla DC ad altre forze, da un processo non sappiamo di quale durata, nel corso del quale viene progressivamente scalzata la centralità democristiana, si spostano gli equilibri, si strappano anche “pezzi di potere” e si avvia la costruzione di un nuovo blocco.

Ciò comporta una precisa tattica politica, una manovra che spinga in questa direzione, per non dare spazio ai tentativi democristiani di ricucitura del proprio blocco politico. Tentativi che sono già in atto, e che non vanno sottovalutati.

L’assemblea “aperta” dell’EUR segna una ripresa di iniziativa politica della DC, che tende a riappropriarsi del suo tradizionale retroterra cattolico.

Ho parlato di tattica, di manovra. La politica non ha efficacia se non sa individuare, con realismo, i percorsi possibili, gli svolgimenti concreti, i passaggi, talora tortuosi, che occorre percorrere.

Se la situazione appare difficile, se il campo dei rapporti politici si presenta insidioso, la risposta non la si ritrova all’esterno, nel volontarismo di rivolgimenti epocali, o nel rigore di una coerenza morale tutta chiusa in se stessa.

D’altra parte, sembra ritornare nel nostro dibattito interno la vecchia disputa sul rapporto tra il sociale e il politico, sulla priorità da assegnare all’uno o all’altro di questi momenti. Nella realtà, c’è un continuo movimento di rimando, c’è un intreccio che non può essere spezzato.

Certo, una politica di alternativa non cammina se non mette in movimento forze sociali, se non c’è anche una proposta di aggregazione nuova di un determinato blocco sociale, se, in sostanza, non riesce ad essere una politica di movimento.

Il vecchio blocco dominante è entrato in crisi, nuove forze sociali mirano ad operare come soggetti politici autonomi, non si riconoscono più nella mediazione interclassista moderata della DC.

Qui sta il rapporto tra la alternativa politica e le alleanze sociali. Qui vediamo la coerenza possibile di una linea che, sui diversi terreni, lavora per un ricambio, per un mutamento di segno politico, per un passaggio di egemonia.

E il blocco sociale nuovo, se vuole a sua volta essere dominante, deve poter racchiudere in sé quegli strati sociali capaci di guidare lo sviluppo, la classe lavoratrice nella sua accezione più larga, le forze dell’intellettualità teorica e scientifica, quella parte di borghesia imprenditoriale che si pone l’obiettivo dello sviluppo, che non accetta la decadenza del nostro apparato produttivo, che è disponibile quindi ad operare nel quadro di una politica di programmazione.

Quanto alla “nuova soggettività”, alla più attenta sensibilità per i problemi della sfera individuale, dobbiamo certo incoraggiate un processo che conduce ad una concezione più ricca e complessa della condizione umana, a superare l’angustia di un “primato della politica” che non è più in sintonia con i tempi, ma appunto perciò lasciamo che tutta questa tendenza nuova possa trovare le sue forme, liberamente, senza dover vestire i panni della politica.

Nel processo di costruzione di un nuovo blocco si richiederanno equilibri provvisori, fasi di assestamento parziale. In questo senso esiste anche per noi un problema di governabilità, l’esigenza cioè di non lasciar prevalere, in modo incontrollato, le spinte alla frantumazione corporativa, di assicurare, in una delicata fase di trapasso, la tenuta delle istituzioni democratiche.

Occorre allora valorizzare i punti di forza di cui già dispone il movimento operaio (il sistema del governo locale, il ruolo conquistato dal movimento sindacale unitario), e indicare la possibilità di nuove conquiste, di nuovi terreni di potere e di controllo: la democrazia industriale, come strumento per una più avanzata possibilità di partecipazione e di decisione per il movimento operaio, e una riforma dello stato che sia ispirata all’obiettivo del governo dei processi economici e sociali, che ponga quindi la questione della democrazia non in termini di generica partecipazione ma di reali possibilità di intervento e di decisione.

Se valutiamo con questi criteri le divisioni della sinistra italiana, che sono sicuramente reali, appaiono però non insanabili, non definitive. In realtà, la polemica si fa tanto più aspra quanto più si resta bloccati a vecchie contrapposizioni, mentre se ragioniamo senza pregiudizi sui compiti nuovi allora si fa strada, sia pure faticosamente, una possibile convergenza.

Questa esigenza di analisi critica, di rinnovamento delle nostre categorie di giudizio, si pone oggi, in modo impellente, per ciò che concerne la situazione internazionale e la crisi dei modelli di socialismo fin qui conosciuti. Stupisce che, di fronte all’involuzione tragica della Polonia, ci possano essere giustificazionismi e reticenze, ed è un fatto politicamente grave che ciò sia apparso pubblicamente, nel voto al Consiglio comunale di Milano. Non si tratta più, infatti, solo di singoli errori, di deviazioni, ma di un esito che capovolge interamente ogni idea di socialismo, l’esito appunto della dittatura militare con tutti i suoi rituali dispotici, rivolta contro la classe operaia e i suoi rappresentanti.

Dovremo trarre da ciò tutte le conseguenze necessarie, e il Partito, anche su questo problema, si deve pronunciare con chiarezza, senza sacrificare all’unità interna la limpidezza e la coerenza delle proprie scelte.



Numero progressivo: F29
Busta: 6
Estremi cronologici: [1981]
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -