CONGRESSO PROVINCIALE PCI

Milano 13 marzo 1986

Intervento di Riccardo Terzi

In questo nostro Congresso sono aperti interrogativi e problemi di essenziale difficoltà. Abbiamo alle spalle una stagione assai travagliata, segnata da alcuni gravi insuccessi politici del partito, di cui bisognerà analizzare più a fondo le ragioni, senza rifuggire dalle necessarie considerazioni autocritiche.

E soprattutto è posta in questione la prospettiva politica della sinistra e del movimento operaio, per le profonde trasformazioni che stanno avvenendo su scala nazionale e mondiale, e per la dura offensiva di destra che tende a colpire non solo le conquiste sociali, ma i valori ideali sui quali la sinistra ha costruito le proprie basi di consenso.

C’è bisogno, per questo, di un Congresso che sia guidato da uno spirito di ricerca e di sperimentazione.

Il pericolo maggiore è l’inerzia burocratica, la ripetizione passiva di formule e di ideologismi ormai svuotati di senso.

Misurando con questo metro il nostro dibattito congressuale, io avverto uno scarto, un ritardo, la mancanza di una discussione radicale, che faccia i conti con le radici della crisi che attraversa la nostra politica.

Le tesi approvate dal CC si muovono lungo una linea di consolidamento, di riconferma, quasi ignorando il fatto che siamo stati spinti alla decisione inusitata di un congresso anticipato. Né questo limite viene superato dagli emendamenti che sono stati resi pubblici, e il fatto che si sia concentrata l’attenzione, anche sulla nostra stampa, intorno all’esito di questi emendamenti non ha certo giovato a far decollare un vero dibattito politico.

Il punto più fecondo delle tesi sta nella dichiarazione, per la prima volta così esplicita, di una nostra collocazione come parte integrante della sinistra europea. Questa affermazione libera il campo da antiche barriere ideologiche, e porta il partito al cuore del problema, al destino della sinistra nei paesi capitalistici sviluppati, alla necessità quindi di ridefinire un’identità politica, un insieme organico di obiettivi, una risposta programmatica forte e coerente alle strategie neo-liberistiche oggi prevalenti. A questa posizione politica deve corrispondere una prassi conseguente la ricerca sistematica di forme e sedi di confronto e di elaborazione politica comune tra le forze della sinistra democratica in Europa.

Sono presenti e attive molte spinte che vorrebbero deviarci da questa rotta, e che tendono a rimettere in discussione le posizioni politiche che abbiamo conquistato negli ultimi anni.

È importante chiarire, per questo, come ci atteggiamo di fronte alle importanti novità che sono emerse nella politica del nuovo gruppo dirigente sovietico. Si sta tentando un processo di modernizzazione della società sovietica, di superamento della stagnazione burocratica che ha caratterizzato il periodo precedente.

Se è miope e insensato negare queste novità, e gli effetti positivi che esse possono determinare sulla politica mondiale, sarebbe però altrettanto sbagliato affrettarsi in una manovra precipitosa di ritirata dalle posizioni di principio che abbiamo assunto, perché i problemi di fondo, strutturali, sono ancora tutti sul tappeto, e non basta il dinamismo e l’intelligenza di un leader a ricomporre un dissenso che non era e non è contingente. Quando abbiamo posto la famosa questione della “spinta propulsiva” abbiamo espresso un giudizio sulla capacità di quel sistema politico e sociale di agire come punto di riferimento dinamico per l’insieme delle forze progressive nel mondo, e davvero non c’è motivo per ribaltare questa posizione. Per questo, non solo giudico non condivisibili alcuni emendamenti, ma vorrei anche esprimere una riserva sostanziale sulla posizione che ha tenuto la nostra delegazione al Congresso del PCUS e su alcune dichiarazioni di sostegno incondizionato al nuovo corso sovietico, che sono state espresse dal compagno Pecchioli.

Ma il punto politico su cui in particolare vorrei che si impegnasse il nostro dibattito è quello della proposta politica e di governo che noi oggi dobbiamo prospettare al Paese. Non risolviamo questo problema con l’invenzione di formule, che appaiono tutte poco convincenti e poco praticabili. Francamente, la discussione sul “governo di programma” o sul “governo costituente” mi sembra essere del tutto nominalistica, disancorata dalla realtà, non commisurata ai processi reali che stanno avvenendo.

Davvero pensiamo di essere alla vigilia di un nostro ingresso nell’area di governo, e che si tratta ormai soltanto di definirne le modalità, concordare i punti programmatici su cui costruire un’intesa politica?

Se c’è un pericolo di destra all’interno del partito, io lo vedo qui, in questa vocazione programmatica fine a se stessa.

Il fatto è che i rapporti di forza e di potere si sono spostati, che il movimento operaio è stato costretto sulla difensiva, che è stato sconvolto il tessuto unitario, nel movimento di massa e nel governo locale, che c’è dunque un lavoro preliminare di ricostruzione e di rilancio di una nuova unità e solidarietà di classe, come base oggettiva da cui partire per ridare fiato all’azione politica della sinistra.

Per questo considero più realistica, più produttiva, più capace di suscitare iniziative e movimenti reali una proposta di alternativa che sia prospettata limpidamente, senza subordinate tattiche. L’essenziale è tener ferma una prospettiva di fondo: la costruzione di un assetto di potere nuovo, antagonistico al sistema politico imperniato sulla centralità e sull’egemonia del partito democristiano, con la disponibilità a verificare, senza rigidità, quali possono essere i passaggi, le tappe intermedie.

Le stesse tensioni presenti nella maggioranza di governo, e le riflessioni nuove che abbiamo nel PSI, dimostrano che il problema di un nuovo assetto politico è virtualmente aperto, anche se è impossibile oggi anticipare i modi e i tempi che potrà avere questo processo.

Mi rendo conto che anche queste formule – alternativa, unità della sinistra – rischiano oggi di essere logore. Non servono a molto se sono usate come predicazioni, se non si traducono in un programma di lavoro concreto, se non si individua un preciso terreno di lotta. Finché restiamo nell’ambito della politica pura rischiamo di muoverci in un circolo vizioso, in quanto un partito come il nostro può pesare politicamente solo in quanto esprime un movimento reale, e riesce ad attivare le forze dinamiche e progressive della società italiana.

Ridefinire l’alternativa vuol dire esattamente questo: cogliere la dinamica delle forze in campo, l’evoluzione dei rapporti di classe, individuare punti di scontro oggi decisivi sui quali concentrare la nostra iniziativa per realizzare, concretamente, una dislocazione più avanzata degli equilibri politici.

È indicativo, a questo proposito, quanto è avvenuto nel campo sindacale, dalla rottura dello scorso anno fino al recente congresso della CGIL.

A me sembra che questo Congresso abbia segnato un punto di svolta, abbia davvero posto le condizioni per uscire dalla crisi. Ma questo è avvenuto perché non ci si è limitati a predicare l’unità, ma si è compiuto uno sforzo impegnativo di innovazione delle politiche sindacali, di analisi dei cambiamenti, di ricostruzione di un fronte di lotta a partire dai luoghi di lavoro. Ciò può avere effetti politici assai importanti e positivi, e già se ne vedono i primi segni. Anche la nostra discussione congressuale sulla questione sindacale non può che partire da questi fatti nuovi, senza indugiare oltre su forzature critiche che sarebbero aggi ancor meno comprensibili e apparirebbero come un tentativo fuori tempo di imporre al sindacato una tutela dall’esterno, o come una scelta di linea tutta agitatoria che si rifiuta di fare i conti con la complessità politica e sociale del mondo del lavoro.

Sul piano politico abbiamo la stessa esigenza, la necessità di una ridefinizione dei fini e del blocco di forze sociali a cui ci indirizziamo, con un programma essenziale, che non sia l’elenco generico delle cose auspicabili, ma la scelta di precise discriminanti.

La prima essenziale condizione per l’alternativa è la capacità nostra di fissare priorità, coerenze, di render chiara la nostra immagine di grande forza riformatrice. Ed è su questo terreno, invece, che abbiamo registrato oscillazioni ed incertezze: in alcuni casi una prudenza eccessiva, in altri una tendenza a rincorrere discutibili spinte corporative, come è accaduto sulla Legge Visentini e sul condono edilizio. E su molti temi, come ad esempio su quello della riforma istituzionale, abbiamo la più completa confusione delle lingue. E allora che senso ha l’enfasi copernicana sui programmi, se nemmeno tra di noi è chiaro di quale programma si tratta?

C’è dunque un’opera vasta, difficile, di elaborazione politica e programmatica, che è necessaria per ridar vigore, forza e credibilità alla politica di alternativa democratica. Ma perché il partito si impegni con slancio in questo lavoro, bisogna dire, con chiarezza, che siamo a un passaggio critico, che dobbiamo avere la capacità di rimetterci in discussione, e bisogna creare le condizioni per un confronto interno che sia davvero libero, aperto, senza impacci, senza preclusioni.

Non è ancora così, a mio giudizio, nonostante i passi in avanti compiuti.

Anche nelle tesi registriamo la sovrapposizione di due piani di discorso non coincidenti: da un lato il riconoscimento delle legittimità del dissenso, del valore che ha la presenza nel partito di una pluralità di idee, di culture, di contributi, dall’altro l’affermazione che la vita interna del partito si regge sul principio dell’unità, introducendo così una formula nuova, che reinterpreta e in sostanza rafforza l’idea del centralismo democratico. L’unità non può essere un principio, un valore aprioristico, ma solo ii risultato, auspicabile ma non obbligato, di un confronto pluralistico aperto. Ma soprattutto resta, al di là delle formule dei documenti politici ufficiali, una costituzione materiale, un insieme di regole non scritte, ma operanti, che limitano la democrazia di partito e la costringono entro vincoli rigidi.

Ciò fa sì che il principio dell’unità si risolva nel principio della incensurabilità dei gruppi dirigenti.

Vorrei essere inteso bene su questo punto, che so essere per tutti noi un punto delicato. Io non ho nessun proposito di contrapposizione, di critica astiosa e pregiudiziale. Ma mi domando se al partito serve un’unità fragile, compromissoria, o se non sia invece più proficua una discussione di verità, di chiarezza, se non sia oggi necessario scavare in profondità dentro di noi, dentro questo corpo politico così vario e complesso che noi oggi siamo, per ritrovare insieme le ragioni dell’unità del partito, e anche della solidarietà tra compagni, in un confronto politico schietto, senza sotterranee faziosità.

Se non risolviamo questo problema, se non costruiamo nel partito condizioni nuove perché tutti, senza esclusione alcuna, possano sentirsi partecipi delle decisioni politiche, noi rischiamo che si moltiplichino fenomeni silenziosi di abbandono e di disimpegno. O, peggio, rischiamo di allevare una generazione pavida di calcolatori, che ogni volta commisurano i comportamenti alle convenienze.

Con il Congresso, possiamo dimostrare la piena maturità democratica del partito. È questa una condizione indispensabile, un solo per migliorare il regime interno, ma per poter parlare, con più forza e più […], alla società italiana, per essere pronti a cogliere tutti gli elementi di cambiamento che in essa maturano.

Non sarà un buon Congresso se ci dovessimo limitare a ratificare decisioni già prese, perché nessuno può negare che abbiamo molti problemi da approfondire, molte incertezze da chiarire.

La vitalità di un Congresso si misura da questo, dalla capacità di una discussione non diplomatizzata, non burocratica.

Questo, compagni, dipende solo da noi.


Numero progressivo: H11
Busta: 8
Estremi cronologici: 1986, 13 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Fogli battuti a macchina
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -