CONGRESSO DS A MILANO

Dicembre 2001

Intervento di Riccardo Terzi

Dopo che si è concluso il confronto congressuale e si è registrata la volontà democratica degli iscritti, deve cominciare ora il lavoro di ricostruzione, e sarebbe bene che in questo lavoro fossero impegnate unitariamente tutte le nostre risorse, perché è un compito di straordinaria difficoltà. Ricostruzione non può significare tornare ad essere quello che siamo stati, perché questo non è nell’ ordine delle possibilità disponibili. Il nostro tema è la funzione storico-politica che la sinistra può assolvere in questa fase, in un mondo che si sta trasformando con estrema velocità ed intensità, e non solo per gli effetti sconvolgenti dell’11 settembre. Non possiamo trovare le risposte in una tradizione, in una identità già consolidata. Tutti infatti diciamo, anche se con parole diverse e forse con intenti diversi, che è necessaria una svolta. Ma una svolta va pazientemente costruita, elaborata, e deve maturare nel vivo di un processo reale. Non può essere solo un gesto di volontà, un annuncio, una retorica del cambiamento, e soprattutto è questo partito che la deve realizzare, a partire dalle sue risorse, non un partito immaginario che nasca miracolosamente da non si sa quale rivolgimento.

Io interpreto così i risultati del congresso, come la decisione di ripartire da ciò che siamo, senza correre dietro ai miraggi, come una prova di forza, di autonomia e di fiducia, nonostante tutto, per poter affrontare il lungo cammino che abbiamo davanti con un partito non destabilizzato, non lacerato. Se il cambiamento è globale, la prima condizione è una capacità di lettura, di interpretazione del mondo. Non ci sono più recinti nei quali arroccarsi. Il localismo torna sì a riemergere, ma come falsa risposta, come inseguimento di un mito. Come dimostra tutta la parabola politica della Lega, che ha dovuto, per sopravvivere, mettersi al servizio di una società di mercato livellatrice, che non conosce identità, culture, ma solo convenienze. Anche a sinistra molti hanno pensato di trovare una chiave strategica nella specificità, nell’ autonomia dei Nord, nella competizione territoriale che si sostituisce all’antica competizione di classe. Ma se dovesse essere questo il futuro, è un futuro nel quale la sinistra non può avere nessun posto.

Credo dunque che dobbiamo oggi ribaltare i termini della questione: Milano non è una dimensione locale da riscoprire, ma è un nodo essenziale della politica nazionale e delle relazioni globali. Anche il successo della destra non si spiega solo in termini locali, ma come il consolidamento di un nuovo blocco di potere, con una sua base sociale ed anche con una sua capacità di unificazione ideologica. In questi anni, ci siamo invece attardati in una rivendicazione sterile di autonomia: dobbiamo decidere noi, ma poi quando è il momento di decidere non succede nulla. Noi abbiamo bisogno che la politica nazionale del partito attraversi Milano, si incroci con questa realtà decisiva per gli equilibri del Paese. E noi siamo, operando a Milano, un pezzo del gruppo dirigente nazionale, non una specie in via di estinzione da proteggere.

La ricostruzione della sinistra, o il suo rinascimento, come ha suggerito Giorgio Ruffolo, da dove deve partire? Da una ridefinizione della strategia, e anche pregiudizialmente da una discussione su che cosa significhi oggi possedere un’intelligenza strategica. Noi rischiamo invece di fare una discussione solo su un terreno secondario, derivato, sui singoli errori, sulle singole responsabilità, sulle scelte tattiche che hanno fallito il loro obiettivo. Questo tipo di discussione finisce per risolversi in una caccia al capro espiatorio, come se fosse possibile sceglierne uno solo, e soprattutto tiene la nostra riflessione solo sulla superficie. La nostra crisi – questa è la premessa necessaria – è il risultato di un cedimento strutturale, di un processo di sfondamento che ha investito i nostri tradizionali punti di forza, sul terreno sociale e su quello culturale. Per cui oggi siamo una forza incerta, di difficile decifrazione quanto ai sui stessi fondamenti, senza un preciso ancoraggio sociale e senza un pensiero politico riconoscibile. Poi vengono gli errori, ma sono solo l’epifenomeno di una crisi più profonda.

Per questo, occorre parlare della strategia, se vogliamo davvero andare al cuore dei nostri problemi. E sta qui, mi sembra, un nodo irrisolto nella nostra discussione. Fassino ha messo al centro della sua piattaforma un concetto-chiave: competere sul terreno della modernizzazione. Le controrepliche sono piuttosto sorprendenti. O si tratta di argomentazioni strumentali e propagandistiche, per rappresentare questa posizione come una linea di mero assecondamento della modernizzazione capitalistica, come l’accettazione acritica del nuovo in quanto nuovo, e c’è allora da sperare che, finita la conta congressuale, si torni all’uso della ragione. Se la polemica politica viene condotta sulla base di interpretazioni caricaturali, non facciamo nessun passo in avanti. Così, spero che nessuno più usi come tema di battaglia politica interna la questione dell’art. 18 dello Statuto, perché è come sfondare porte aperte. Oppure, se non è solo la strumentalità di una polemica contingente, vuol dire che abbiamo un approccio diverso intorno ad un punto strategico essenziale. Perché una strategia politica consiste precisamente nella capacità di organizzare le forze del cambiamento, di presidiare i punti decisivi dell’innovazione, tentando così di far giocare a nostro vantaggio i processi reali e i conflitti sociali che ne derivano. La modernizzazione quindi è il luogo della strategia, non ce n’è un altro. L’alternativa è il ritirarsi in una posizione periferica, in uno spazio che è fuori dalla grande corrente del cambiamento storico: così si può forse sopravvivere, ma solo in una dimensione settoriale, corporativa, non più politica. Tutta la storia del movimento operaio, da cui veniamo, è la storia di un progetto di modernizzazione, che si basava sulla premessa che lo sviluppo capitalistico ha in se stesso le condizioni del suo superamento, e riproduce continuamente le basi materiali dell’antagonismo sociale. Questo è il nocciolo del marxismo: non l’immaginazione utopica, ma la capacità di usare la forza d’urto delle contraddizioni reali.

La strategia dunque è, nella sua essenza, accumulazione di forza. E la forza è possibile se sappiamo rappresentare ciò che nella società si sviluppa, la dinamica sociale, gli interessi materiali, le forme nascenti di soggettività, le domande e i bisogni che si formano, con modalità sempre nuove, nel corso dello sviluppo. Competere non è adattarsi, ma avere la forza di governare i processi e indirizzarli. Il punto politico è quello di individuare oggi quali sono le frontiere del conflitto. Perché la politica è un luogo di conflitti, e non può mai essere ridotta all’astrattezza dei valori, all’ ecumenismo che cerca di tenere insieme tutto. Se guardiamo alla destra vediamo che essa ha costruito la sua forza su alcune precise linee di conflitto: prima la Lega con il conflitto territoriale, etnico, antinazionale, e poi Forza Italia con l’opposizione di mercato e stato, di anarchismo sociale e regolazione politica, assorbendo così, in una nuova forma di populismo reazionario, anche gli spiriti antipolitici del movimento leghista. Noi abbiamo il problema di definire quale è il campo conflittuale che intendiamo rappresentare, tenendo conto del fatto che il conflitto classico del Novecento tra capitale e lavoro, insediato nella grande fabbrica fordista, non è più il paradigma su cui si costruisce tutto l’insieme delle relazioni sociali.

Il conflitto si sposta, si allarga, si frantuma, investe l’organizzazione sociale complessiva più che i singoli luoghi della produzione. E viene immesso nel grande movimento della globalizzazione. Per questo la centralità del lavoro non viene meno, ma si complica, e si deve arricchire in una visione sociale più ampia. La linea del conflitto può essere forse rintracciata tra la polis e la sua disgregazione, o, per usare la terminologia del filosofo Roberto Esposito, tra la communitas, come dono reciproco, e l’immunizzazione individualistica che rinchiude ciascuno nel suo bunker privato. La polis non è il comando della politica, lo statalismo, ma è piuttosto la collettività sociale che trova un suo punto di coesione e garantisce l’universalità dei diritti. In questo senso, il riformismo diviene la capacità di rimettere in forma una società lacerata e divisa. Agisce in questa direzione una domanda reale, possiamo cioè far leva su una soggettività sociale realmente esistente, su un campo non immaginario di conflitti? Perché, se nella società non dovessero esistere queste condizioni, nessuna politica potrebbe farle nascere dal nulla. Io credo che questa possibilità ci sia, che sia questa una strategia praticabile, ma per questo occorre dislocare tutte le nostre forze in una direzione nuova, e affrontare la modernizzazione come il terreno su cui è possibile ricostruire una forza e una rappresentanza sociale.

Se interpretiamo così il nostro essere una forza fondata sul lavoro, intendendo il lavoro come l’insieme delle condizioni sociali, possiamo aprire la nostra iniziativa in una molteplicità di direzioni: l’accesso al sapere, le tecnologie, la cittadinanza sociale, l’immigrazione, il riconoscimento e la tutela dei nuovi lavori, ricomponendo in unità i diversi movimenti intorno ad una idea politica, a un modello di società. Questo nuovo processo politico si può mettere in moto solo se riusciamo ad intervenire sui dati della realtà, sulla dislocazione delle forze, non può avvenire l’inverso. Non possiamo partire dal progetto, da una operazione tutta intellettuale, perché il progetto può essere solo il risultato di ciò che nella società si muove e si organizza. Non è il progetto che determina la forza, ma la forza che determina il progetto.

Si può dire, in generale, che una strategia è efficace solo se è strutturale, se individua nella dinamica sociale concreta gli elementi su cui far leva, e che dunque non saranno mai sufficienti soluzioni solo politiche. L’alternativa non è tra moderatismo e radicalismo (è questa una visione giornalistica della politica), ma tra intelligenza strategica e spiazzamento strategico, tra azione efficace e azione velleitaria. Una sterzata a sinistra, da sola, intesa solo come una radicalizzazione delle posizioni, non è la risposta giusta, e può tradursi in un movimentismo perdente, nella decisione di dare battaglia senza avere preparato le condizioni per vincere. E di fronte ad una destra attrezzata e aggressiva, è assai alto il rischio di cadere nella trappola dell’estremizzazione e dell’isolamento, di logorare le forze anziché saperle allargare. In questo senso, l’unità sindacale va riproposta come una nostra priorità.

Ancora più evidente è l’inadeguatezza di una risposta politica che affidi all’Ulivo la missione strategica, perché così i termini del problema sono solo spostati, da un soggetto politico ad un altro, e non si capisce per quale misteriosa ragione il tracollo dei partiti si possa tramutare in una coalizione vincente. È un caso di puro misticismo: siccome noi siamo impotenti, qualcun altro provvederà. Non ci sono scorciatoie politiche, e il nostro congresso andrebbe incontro ad un fallimento se ci accontentassimo di formule, di evocazioni, di costruzioni culturali improvvisate quanto fragili, come in gran parte è accaduto a Torino, con la grande sinistra nel grande Ulivo, e con lo slogan vuoto del socialismo liberale.

Noi dobbiamo riconquistare una reale autonomia, di pensiero e di iniziativa politica. Ma non c’è autonomia senza innovazione, senza un profondo lavoro di scavo nella realtà di oggi, nelle contraddizioni nuove del mondo globalizzato. Come accade a ciascuno nella vita, l’autonomia si conquista con un duro lavoro prolungato e tenace. A questo dobbiamo attrezzarci. Ho solo accennato a Milano, e sappiamo tutti che qui le doti di tenacia, di sacrificio e di passione dovranno essere moltiplicate. Ne potremo discutere più distesamente dopo il congresso nazionale. Dovremo affrontare in modo radicale il problema di una struttura di partito che non riesce più ad interagire con la società, che si è avvitata su se stessa, che riproduce un rituale stanco e non sa mobilitare tutte le sue risorse potenziali. È il modello di partito che va complessivamente ripensato. Il problema della leadership e del gruppo dirigente va posto in questa prospettiva, e solo così acquista un significato, una dimensione concreta, non immiserita dai personalismi e dagli scontri per un potere che non c’è. Al nuovo gruppo dirigente è affidato il compito di una riconversione strategica, per essere una forza di cambiamento e di innovazione sociale. Tornare a competere è la condizione perché sia possibile tornare a vincere.



Numero progressivo: H7
Busta: 8
Estremi cronologici: 2001, dicembre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -