CONFLITTI SENZA POLITICA
La crisi della sinistra
di Riccardo Terzi
Il PCI non riesce più a tradurre il sociale in politico. Ma questa strozzatura si può superare con una forte strategia istituzionale
Al congresso di Bologna si sono confrontate analisi e proposte politiche contrapposte, le quali tuttavia avevano in comune una lettura del processo politico del PCI in questo ultimo decennio come un processo di crisi non congiunturale, tale da richiedere un’operazione complessa di riaggiustamento strategico.
Si sono usate parole impegnative: rifondazione, vero rinnovamento, rottura della continuità storica, nuova cultura politica. Il risultato elettorale conferma la pertinenza di tali valutazioni, conferma l’acutezza dello stato di crisi in cui versa la sinistra e tiene aperta la discussione sulle soluzioni politiche da adottare, sulle prospettive, sulle traiettorie strategiche, Non può essere usato come arma per la polemica interna. D’altra parte, la scelta del congresso ha avuto il significato di un investimento per il futuro. Può essere una scommessa azzardata, ma in ogni caso la si può valutare solo in un orizzonte temporale adeguato. Mi sembra quindi un’impresa inconcludente quella di piegare l’analisi del voto per farne un motivo di conferma delle proprie personali convinzioni politiche. Così si vede solo ciò che si decide di vedere. E il partito rischia di bloccarsi in una contrapposizione non risolvibile, perché basata su certezze non verificabili, e tale perciò da ridursi, in ultima istanza, a una questione di fiducia nel gruppo dirigente.
Se cerchiamo invece di analizzare il risultato elettorale al di là delle posizioni preconcette, possiamo forse mettere meglio a fuoco i caratteri di questa fase politica, e la dinamica dei processi di fondo che si stanno verificando. Appare innanzitutto in risalto una crisi profonda nel rapporto tra società e politica. Tutti gli indicatori vanno in questa direzione: il successo delle leghe, l’astensionismo crescente, la proliferazione di liste che esplicitamente si caratterizzano sula base di identità corporative e settoriali e la stessa degenerazione clientelare dei partiti in intere realtà.
È un processo di spoliticizzazione più che di spostamento a destra, una crisi della politica nella sua funzione democratica di selezione e di scelta dei fini e dei valori di ordine collettivo su cui regolare lo sviluppo, per sostituire a essa un insieme eterogeneo di aggregazioni, localistiche o lobbistiche. Non convince la definizione di questo fenomeno come “voto di protesta”, come se fossimo in presenza di un potenziale di lotta “deviato”, di un movimento che ancora non ha trovato le sue forme politiche adeguate, ma che è tuttavia portatore di istanze democratiche di trasformazione.
Nella nostra discussione interna sembra prevalere una lettura ottimistica: una protesta che non abbiamo saputo raccogliere e che ci deve spingere ad accentuare il nostro carattere di opposizione sociale, o, in un’ottica solo parzialmente diversa, un sommovimento della società civile che conferma le potenzialità di una sinistra sommersa a cui si rivolge il progetto della nuova formazione politica. Ho l’impressione che le cose stiano in modo assai diverso, e che ancora non abbiamo compiutamente avvertito la portata delle trasformazioni sociali degli anni 80 e i suoi effetti sui rapporti politici e di potere.
Ha avuto luogo un più profondo smottamento, culturale e ideale prima ancora che politico, e viene così alla luce una costellazione sociale tutta chiusa nel calcolo egoistico, nell’ottusità di una dimensione privata che non riesce più ad aprirsi alla considerazione dei valori collettivi, e quindi alla politica.
È questo il portato più allarmante del processo di modernizzazione in atto, il quale si realizza come frantumazione corporativa del corpo sociale, come regressione politica in quanto diviene politicamente opaca la trama degli interessi sociali. La sfida alla sinistra diviene così totale perché si nega in via di principio la possibilità di una politicizzazione del conflitto sociale, perché non c’è nessun passaggio dal sociale al politico.
Nelle teorie sulla “società complessa” è solo la tecnica di mediazione attraverso la quale funziona un sistema sociale che si articola e si differenzia in una serie indefinita di sottosistemi regolati da proprie specifiche norme di funzionamento, Non ci sono fini politici, ma solo tecniche appropriate di regolazione.
In questo scenario la sinistra politica non ha alcuna prospettiva, perché per essa è essenziale un continuo rapporto di comunicazione fra il sociale e politico, e una loro reciproca visibilità e traducibilità.
È in questo processo, non solo ideologico ma reale; di segmentazione corporativa della società che sta a mio avviso la ragione di fondo della crisi della sinistra, e delle sue divisioni, del suo oscillare tra una vocazione governativa impotente e subalterna e una rincorsa dei bisogni e dei conflitti in cui si smarrisce la capacità di selezione politica. Proporrei allora, se questo è il punto, una linea di ricerca che tenti di individuare le possibili articolazioni di un nuovo rapporto tra società e politica. Ed emergono allora tre grandi nodi: la cultura politica, il partito, rassetto istituzionale.
Se riflettiamo sulla storia passata del movimento operaio, e anche sull’esperienza originale del nostro partito, possiamo agevolmente individuarne i punti di forza: un impianto forte di teoria politica, che si traduceva a livello di massa in una coscienza ideologica diffusa, e una struttura organizzativa radicata nel tessuto sociale e capace di collegare efficacemente le rivendicazioni concrete e l’iniziativa politica più generale. L’ideologia ha funzionato come un potente strumento di politicizzazione del sociale, ed è stato un punto di forza e di tenuta nei momenti più aspri della lotta di classe. Le singole lotte e le singole conquiste, anche quelle più immediate ed elementari, si configuravano infatti come un pezzo di un processo storico universale e prendevano il loro senso alla luce di un obiettivo finale di liberazione e di riscatto. E il partito agiva come il concreto soggetto politico che riassumeva in sé questa funzione storica.
La crisi, ormai definitiva, di questa particolare configurazione storico-politica del movimento operaio ha aperto un vuoto, e in questo vuoto, in questa perdita di motivazioni culturali forti, passa il processo di frantumazione sociale e di spoliticizzazione. C’è dunque pregiudizialmente un problema di cultura politica, che è stato fin qui solo intuito e non esplicitamente affrontato. Fino a quando non facciamo un bilancio critico complessivo del nostro passato patrimonio ideologico, e non rendiamo visibili gli elementi di innovazione e di revisione, fino a quando siamo solo dei post-comunisti, o dei comunisti pentiti, il nostro è un messaggio di incertezza e di confusione, incapace di esercitare una qualsiasi egemonia.
Il cuore di una nuova identità politica può essere cercato nel concetto-chiave di una democratizzazione conseguente e radicale della società e di tutte le sue strutture di potere. Non più, dunque, il rinvio a una meta storica finale, ma l’esercizio oggi di una pratica democratica coerente e l’affermazione concreta dei diritti universali di cittadinanza.
Problemi analoghi si pongono per l’organizzazione del partito, che deve ricollocarsi nel quadro di una nuova strategia e definire in modo nuovo i propri compiti pratici: non più una organizzazione pedagogica, di propaganda e di agitazione, ma uno strumento di autogoverno, una sede di lavoro e di sperimentazione al servizio di una politica dei diritti.
Ma c’è un terzo fattore che a questo punto, nel quadro di una strategia che pone al centro il tema della democratizzazione, diviene essenziale e assume un rilievo del tutto nuovo rispetto al passato, ed è il fattore istituzionale.
La strozzatura tra società e politica può essere superata con una coraggiosa strategia istituzionale, che ricostruisca i percorsi, le linee di comunicazione dai cittadini alle istituzioni politiche, che consenta di rendere visibile e trasparente la politica e i suoi conflitti.
Deve trattarsi di una strategia che affronti il problema in tutte le sue dimensioni. Decentramento dei poteri, nuovo regionalismo, riforma elettorale che renda trasparente le scelte politiche e di schieramento, elezione diretta, dal sindaco al presidente del Consiglio, valorizzazione dello strumento del referendum: è l’insieme di queste misure che può dar luogo a un nuovo assetto democratico, capace di rimettere in movimento una situazione stagnante, che alimenta la sfiducia e il qualunquismo e che dà forza alla demagogia delle leghe.
Anche il presidenzialismo può avere un positivo effetto dinamico, se non viene visto in un modo isolato, se è collocato in una strategia più complessa. Perché mai dovremmo farne il simbolo della svolta a destra? Una tale strategia democratica deve allargarsi ai luoghi di lavoro, all’economia, al sindacato. Solo così si può tentare di uscire dalla frantumazione corporativa. Si tratta dunque di guardare in avanti, a una possibile ripresa strategica della sinistra, sapendo che è un processo tutto da costruire. La discussione nel partito, con tutta la ricchezza delle sue articolazioni, può essere utile solo se è proiettata al futuro.
È questo il primo obiettivo: spostare in avanti la discussione e la ricerca, e liberarci, al più presto, dei veleni di una lotta intestina che di impedisce di guardare con lucidità e con razionalità alla realtà di un mondo che cambia, e alle nuove domande di teoria politica che questi cambiamenti reclamano.
Busta: 8
Estremi cronologici: 1991, 3 giugno
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 17, 3 giugno 1990, pp. 32-33