COMPROMESSO STORICO E ALTERNATIVA

di Riccardo Terzi

Nell’ultimo numero di Laboratorio politico (2-3, 1982 marzo-giugno) viene tentata una interpretazione della politica e della cultura del compromesso storico.

È un’occasione da cogliere, per riaprire una discussione nella sinistra su un tema tuttora assai controverso e non chiarito, piegato a interpretazioni diverse, motivo di polemiche e di diffidenze non ancora sopite.

È mia opinione che, in assenza di un chiarimento di fondo intorno alla politica del compromesso storico, non riesce a decollare e a prendere una fisionomia precisa la nuova ipotesi strategica dell’alternativa democratica.

Si tratta infatti di definire il senso di questo passaggio, i mutamenti che esso implica nell’analisi della società italiana, nel sistema di alleanze che ci si propone di costruire, e quindi nella tattica politica concreta.

In vista del prossimo Congresso nazionale del PCI, questi nodi si ripropongono, e già affiorano approcci diversi, letture diverse della storia politica di questi ultimi anni. Occorre certamente valutare la esperienza politica del triennio della “solidarietà democratica” come l’espressione di una ricca e complessa elaborazione strategica, che ha radici profonde e lontane nella cultura comunista.

Non si è trattato di un incidente di percorso, o di una parentesi, di una vicenda politica datata e circoscritta nel tempo. Al contrario, quella esperienza costituisce un momento alto e significativo di tutta l’iniziativa politica del PCI, il punto più avanzato che si è raggiunto lungo la traiettoria della conquista di un ruolo di governo.

Nel momento in cui le crescenti difficoltà politiche hanno determinato la rottura della maggioranza di solidarietà e hanno costretto il PCI ad una manovra di ritirata e di sganciamento, l’orizzonte politico e strategico restava tuttavia inalterato, e l’idea di una sostanziale continuità ha permeato le posizioni politiche del PCI per un lungo periodo di tempo, fino ai nostri giorni, per cui la discussione sul compromesso storico investe, più di quanto non si pensi, il presente della politica del partito.

Agisce quello che Asor Rosa chiama il “continuismo” della politica comunista. E non si tratta di un fenomeno di facciata, ma del fatto che il retroterra teorico è rimasto il medesimo, che la continuità, quindi, non è solo apparente, ma sostanziale. Se esaminiamo i documenti e le dichiarazioni di quest’ultima fase possiamo infatti notare come la proposta dell’alternativa democratica venga fatta discendere da un’argomentazione politica e da un’analisi che non si discostano sensibilmente da quelle usate negli anni precedenti.

L’idea di fondo è quella di una crisi storica della società italiana, da cui si può uscire solo con uno sforzo eccezionale di solidarietà collettiva, di tensione unitaria, e quindi con soluzioni politiche capaci di attivare la più larga unità delle forze democratiche.

La discussione intorno al tema della continuità tocca quindi aspetti essenziali, e solleva problemi a cui occorre dare una risposta precisa.

Se l’accento cade sulla permanenza dei capisaldi strategici su cui si reggeva la politica del compromesso storico, allora ne deriva inevitabilmente che la proposta di alternativa democratica si riduce ad essere un aggiustamento tattico, o ancora più semplicemente un mero ricambio delle formule politiche, dati gli equivoci e le incomprensioni che hanno stravolto l’idea del compromesso storico.

Il concetto di “alternativa” viene quindi usato in un senso improprio.

Non è l’idea di un nuovo schieramento politico e sociale che si candida alla direzione del paese in opposizione a quello guidato dalla Democrazia Cristiana, ma è piuttosto l’idea più indeterminata di un cambiamento degli indirizzi politici, il cui metro di misura è dato dall’abbandono di ogni discriminazione a sinistra, dall’allargamento delle basi sociali dello Stato democratico.

La questione degli schieramenti politici resta quindi indefinita e secondaria, e non è allora del tutto paradossale, in tale contesto, l’idea di un’alternativa che passi attraverso una rinnovata intesa con la stessa Democrazia Cristiana.

Con l’avvio della preparazione del Congresso, questa incertezza e questa ambiguità cominciano ad essere superate, ma c’è stato tutto un periodo nel quale la preoccupazione principale del gruppo dirigente sembrava essere quella di ridimensionare la portata della “svolta “, di smorzarne gli effetti, di impedire che si mettesse in moto un processo di radicale cambiamento nella linea e nell’azione pratica del partito. E se pensiamo all’andamento stentato ed incerto che ha fin qui caratterizzato il cammino della politica di alternativa, alle interpretazioni contraddittorie, alle oscillazioni, vediamo allora come sia tuttora aperto, non risolto, il nodo di fondo, come ancora sia tutta da definire l’effettiva portata della “svolta” e il suo raccordo con l’elaborazione precedente.

Compromesso storico e alternativa sono due concetti divergenti, e i tentativi di ricomporli in una visione unitaria hanno solo l’effetto di produrre incertezza e di lasciare libero corso alla discrezionalità delle interpretazioni, là dove invece si tratta di tracciare una linea ferma.

L’idea centrale del compromesso storico è quella dell’unità di tutte le forze democratiche e popolari. Il richiamo storico è all’unità antifascista, alle teorie della “democrazia progressiva”, a un filone di pensiero che è stato un momento alto della tradizione comunista.

E in tale contesto l’obiettivo politico che si persegue nei confronti della Democrazia Cristiana è il coinvolgimento unitario, la costruzione di una esperienza nuova e originale di collaborazione, di progressiva convergenza, facendo leva sulle matrici popolari presenti nella DC, e cercando un equilibrio anche con le forze moderate, che sarebbero altrimenti sospinte lungo una linea di contrapposizione, in una logica di scontro, che avrebbe necessariamente sbocchi eversivi e reazionari.

Si tratta quindi di una impostazione politica che esclude ogni idea di alternativa, che lavora anzi in una direzione opposta. E fu necessaria, per questo, una battaglia politica contro lo spontaneo “alternativismo” presente nella coscienza immediata del partito. È questa una ricostruzione troppo sommaria, semplificata? Significa questo accettare l’interpretazione propagandistica di chi ha voluto ridurre tutta la tematica del compromesso storico alla ricerca di un accordo di governo con la Democrazia Cristiana?

Ci sono state le caricature, è vero, c’è stata la campagna contro il regime DC-PCI, ci sono state numerose distorsioni e forzature. Ma resta vero il fatto, al di là di tutte le polemiche strumentali, che l’obiettivo politico del PCI è stato, in quegli anni, quello di rendere possibile un accordo di governo basato sulla più larga unità di tutti i partiti democratici. Se non fosse così, sarebbe incomprensibile la storia politica degli ultimi anni, e apparirebbe priva di senso e di logica tutta la linea di condotta del PCI.

Si può certo distinguere, come qualcuno fa con una certa sottigliezza, tra il compromesso storico e la politica di solidarietà democratica attuata nel triennio ‘76-‘79. Da un lato starebbe un’impostazione strategica generale, dall’altro un’esperienza pratica che ha avuto mille condizionamenti e nel corso della quale si sono commessi anche errori di valutazione ed ingenuità di tattica politica. È una distinzione possibile e legittima. Ma essa non ci porta lontano, perché la questione di cui si discute non si limita ai risultati immediati di quella determinata fase politica, ma riguarda l’ispirazione politica generale, riguarda le ipotesi strategiche entro cui quella esperienza si inquadrava.

Una linea politica, d’altra parte, si misura sempre alla prova dei fatti, alla luce dei risultati, e si giudica anche per l’immagine che essa riesce a dare di sé, per gli elementi di senso comune che essa determina.

Quando si è costretti a dire che l’opinione pubblica è stata deviata, che c’è stata incomprensione, si tenta una difesa inefficace, e in realtà si prende atto di un fallimento.

Non si può sorvolare sul fatto che la politica del compromesso storico è andata incontro ad un insuccesso, sia perché il tentativo di avviare un nuovo rapporto con la DC è stato bloccato, sia per gli effetti elettorali negativi che ne sono derivati per il PCI.

Da tutto ciò viene una fase di travaglio e di ricerca, e l’indicazione di una linea di alternativa, pur con tutte le incertezze prima ricordate, comincia ad affermarsi e prende via via consistenza come risposta a quell’insuccesso, come costruzione di un’altra ipotesi politica, come esigenza di svolta e di cambiamento.

Si tratta di una svolta difficile e rischiosa. Negli anni della solidarietà democratica è maturata, all’interno del partito, una coscienza politica più alta, un’attitudine a ragionare come forza di governo, e si è affermata una concezione della politica non propagandistica, in quanto ci si è misurati con le altre forze politiche per quello che sono e per quello che rappresentano.

Nulla sarebbe più dannoso di una ritirata precipitosa, di un passaggio all’indietro che immobilizzi il partito in un’azione sterile di protesta, di agitazione, di propaganda settaria.

Bisogna dunque vedere bene che cosa e dove correggere.

È il senso complessivo di questo passaggio politico, di questa svolta, che deve essere tracciato con chiarezza, con rigore, per non lasciare spazio ai massimalismi risorgenti, e anche per evitare che il cambiamento sia solo nelle parole, nelle formule, nell’apparato esteriore.

In questo duplice rischio stanno oggi le difficoltà che incontra il partito.

L’alternativa non ha finora messo in moto quelle energie nuove che potrebbe attivare e mobilitare sia perché è apparsa ad alcuni settori sociali come una proposta solo propagandistica, sia anche perché sopravvive il sospetto che al cambiamento delle parole non corrisponda un’innovazione reale.

La riflessione critica e la correzione di rotta investono anzitutto, a mio avviso, un aspetto essenziale del compromesso storico, quell’aspetto che, a ragione o a torto, è stato inteso come il nocciolo di quella politica: il rapporto con la Democrazia Cristiana.

A me sembra che l’esperienza degli anni passati abbia dimostrato il carattere necessariamente antagonistico dei rapporti tra DC e PCI, che si sia rivelata quindi velleitaria e impraticabile l’idea di una progressiva convergenza, non solo politica ma anche ideale, tra le due maggiori forze politiche italiane.

Non è solo una questione di volontà politica, non si tratta quindi solo e principalmente della resistenza di forze conservatrici all’interno della DC. C’è il fatto che il ruolo storico della DC e il suo peso politico stanno nel suo essere una forza che è altro rispetto alla cultura del movimento operaio e socialista, che è in un rapporto di competizione e di conflitto con la sinistra. Solo in questo quadro la DC riesce ad assicurarsi una legittimità, un’identità, e riesce a garantirsi la rappresentanza del proprio blocco sociale.

Non c’è bisogno, per questo, di essere anticomunisti viscerali. Anche le componenti democratiche e popolari di questo partito sanno bene che il loro ruolo sarebbe messo in forse nel momento in cui esse cessassero di essere portatrici di valori propri, di una propria autonoma identità politica e culturale.

Per questo, l’esperienza della “grande intesa” è andata all’insuccesso. Il risultato non è stato quello di una forte tensione unitaria nel paese, nella coscienza politica delle masse, ma all’opposto si sono diffuse, su ciascuno dei versanti, diffidenze e incomprensioni. Si sono accentuate le spinte a una segmentazione corporativa della società, e hanno trovato spazio atteggiamenti di segno qualunquistico e forme di radicalismo demagogico, che potevano apparire, in quel contesto, come l’unica espressione possibile di opposizione.

Di questo ordine di problemi, di questi limiti che obiettivamente condizionavano ogni possibile evoluzione dei rapporti di collaborazione tra DC e PCI, ha avuto nel complesso una percezione più chiara e realistica il gruppo dirigente democristiano.

Lo stesso Moro, che fu l’interlocutore politico più sensibile ed aperto, vedeva la necessità di un nuovo tipo di rapporto col PCI, ma nel contempo escludeva e temeva un’intesa politica di carattere generale che compromettesse la natura sostanziale della DC. La sua era una manovra tattica accorta e intelligente, era l’attuazione di quell’idea di flessibilità, di elasticità, che egli considerava virtù politica necessaria per un partito che voglia conservare una funzione di governo e un’egemonia nei mutamenti della società moderna e nella crescente complessità e mobilità delle situazioni politiche.

Ho l’impressione che noi non abbiamo visto con chiarezza questa diversità di prospettive.

Come osserva Baget Bozzo, l’unico equivalente democristiano della formula del compromesso storico è il concetto di “indifferenza”, di cui si serve Moro nel discorso di Benevento, nel novembre del ‘77. Con questo termine, egli intendeva appunto esprimere un rapporto che non poteva più essere di contrapposizione ideologica, ma che nel contempo manteneva un’estraneità reciproca dei due partiti. Ciò poteva rendere possibili convergenze momentanee, ma escludeva accordi di lungo periodo.

Si determinava così, all’interno della maggioranza di solidarietà democratica, una duplicità di prospettive: una concezione “strategica” da parte comunista, e all’inverso una concezione “tattica” da parte democristiana.

Tra le ragioni del fallimento del compromesso storico c’è anche, a mio giudizio, il fatto che il PCI si è lasciato guidare da una vocazione strategica nel momento in cui la partita, di fatto, veniva giocata su un diverso terreno, e richiedeva essenzialmente intelligenza tattica e duttilità.

E su questo terreno la DC ha manovrato meglio di noi. Il rapporto ineguale non dipendeva solo dal fatto che la DC era nel governo, e il PCI in una posizione di appoggio esterno. C’era una ragione più essenziale: c’era il fatto che, mentre il gruppo dirigente democristiano si limitava ad una manovra dilatoria, il PCI ha teso invece ad attribuire un valore strategico e di principio ad un’operazione ancora tutta precaria, e ha finito quindi per identificarsi in toto con un quadro politico all’interno del quale la sua influenza effettiva restava marginale, per vedere in esso l’embrione di un processo unitario che avrebbe dovuto progressivamente svilupparsi. Per questo errore di “presbiopia” lo sforzo del partito si concentrò non tanto sui risultati concreti e immediati, ma piuttosto sui segni politici, sulle dichiarazioni di principio, su ciò che poteva in qualche modo preparare e legittimare il dopo, lo sviluppo cioè di un rapporto organico di collaborazione. Importava quindi il riconoscimento del PCI come parte integrante della maggioranza, e importava meno sfruttare tutta intera la forza contrattuale di cui in quel momento si disponeva per strappare risultati, per ottenere un potere effettivo in determinati campi.

Ciò ha consentito che, finita l’esperienza della “solidarietà democratica “, il sistema di potere democristiano potesse ricostituirsi in tutta la sua pienezza, non essendo stato sostanzialmente intaccato.

Per tutte queste ragioni, occorre quindi oggi affrontare la questione democristiana su un piano diverso.

Il necessario equilibrio, o compromesso, con le forze moderate rappresentate dalla DC non implica, come unica possibilità, la costruzione di una larga coalizione unitaria, ma può avvenire attraverso un assetto complessivo del sistema politico che offra a tutte le diverse forze, tra loro in un rapporto di competizione, delle garanzie di equilibrio democratico, definendo nel funzionamento delle istituzioni un sistema di regole e di contrappesi, tale da consentire, in modo fisiologico, non traumatico, il ricambio delle maggioranze.

Il compromesso, rivelatosi impraticabile sul piano politico, può essere realizzato su quello istituzionale.

In questa stessa direzione sembra muoversi la nuova segreteria democristiana, che abbandona la vecchia concezione dell’“area democratica”, entro la quale si esauriscono tutte le possibili combinazioni e alleanze, e configura un gioco democratico più aperto, senza discriminanti pregiudiziali.

Con questa nuova impostazione, la DC di De Mita vuole togliersi di dosso l’immagine del partito-regime, del partito che si è insediato nel cuore dello Stato identificandosi con esso.

E, nello stesso tempo, la legittimazione di un’ipotesi di alternativa viene compiuta all’interno di uno schema bipolare, basato sulle due grandi forze politiche; e questo tipo di rappresentazione non è certo casuale, ma ha l’obiettivo preciso di imbrigliare la possibile formazione di una maggioranza alternativa, in quanto le forze laiche intermedie e lo stesso PSI avrebbero solo la possibilità di un passaggio di campo, da un’egemonia all’altra, senza poter svolgere una funzione autonoma sulla scena politica.

È la DC che ha interesse a far fallire ogni idea di “polo laico”, e impedire una più robusta e autonoma aggregazione di forze nell’area laico-socialista, perché vede in questo possibile processo una minaccia potenziale, un pericolo di rottura del sistema di vassallaggio che ha finora legato alla DC i partiti minori.

Stando così le cose, De Mita può anche permettersi di disquisire intorno all’alternativa, perché può contare sul fatto che i partiti-vassalli non hanno la forza per sottrarsi al dominio democristiano.

Per questa medesima ragione, il processo di alternativa va configurato in termini del tutto diversi da quelli indicati da De Mita. Esso non è la perpetuazione dello schema bipolare, ma la sua rottura, non è il passaggio da una sudditanza all’altra, ma la possibilità di uno schieramento politico aperto, articolato, in cui ogni singola forza politica può far valere la propria autonomia, in un rapporto di collaborazione alla pari. Rispetto alla politica del compromesso storico, dunque, tutta la questione dei rapporti politici e delle alleanze si pone in una ottica diversa. Anche il giudizio sul PSI va allora misurato in questa chiave. Se il processo dell’alternativa è possibile solo come rottura dello schema bipolare, allora il tema dell’unità a sinistra si presenta in termini del tutto nuovi, e diviene essenziale una capacità di iniziativa autonoma del PSI, una sua collocazione di frontiera che lo metta in grado di rappresentare forze sociali che possono essere spostate e liberate dall’egemonia democristiana. Potremmo quindi dire, usando una formula un po’ paradossale, che il problema irrisolto della sinistra non è quello dell’unità, ma è quello della sua complessiva capacità di espansione e di rappresentanza di forze sociali diverse. Si propone un problema cruciale che era al centro di tutta l’elaborazione del compromesso storico: il rapporto con gli strati intermedi, con l’area moderata, la necessità di dar vita ad un blocco sociale ampio, che eviti i rischi di lacerazioni profonde e di rotture insanabili nel corpo della società italiana.

Si vedeva allora nella DC l’interlocutore obbligato, in quanto espressione politica sia di questi strati sociali, sia, per altro verso, dell’insieme del mondo cattolico.

Il tema delle alleanze sociali veniva sussunto nel quadro delle alleanze politiche. Era l’intesa politica a determinare un nuovo rapporto tra le classi, e non viceversa. Le alleanze sociali erano dunque mediate politicamente.

Ma in questi anni vi sono stati mutamenti profondi che hanno messo in crisi la compattezza del blocco sociale democristiano. Il vecchio blocco di potere è attraversato da tensioni e contraddizioni di tipo nuovo, è percorso da spinte centrifughe: forze sociali di vana natura esprimono, in forme diverse, un’inquietudine politica, una ricerca di nuove soluzioni, non soltanto sul terreno della rappresentanza politica ma ancor più su quello di una loro autonoma presenza organizzata nell’insieme della vita sociale.

Si tratta di vedere bene e di analizzare attentamente questo processo, di precisare i contorni e le possibili dinamiche di questa crisi del blocco dominante, da cui dipende la possibilità di un declino del ruolo centrale della DC e della sua egemonia.

Un tale processo è già a un punto avanzato nei grandi centri urbani, mentre in altre parti del paese i mutamenti sono più lenti, o hanno anche, talora, un segno contrario. In ogni caso, è solo sulla base di spostamenti reali nella società, di una nuova dislocazione delle classi sociali, che può prendere corpo una politica di alternativa democratica, per la quale, quindi, il rema delle alleanze sociali costituisce una condizione primaria. Non si tratta qui solo degli spostamenti possibili sul piano politico-elettorale, ma dell’attivizzazione di nuove forze, della costruzione di movimenti, dell’entrata in scena di nuovi soggetti politici, di nuovi protagonisti.

Solo così infatti il blocco sociale dominante può entrare in crisi, non perché alla centralità di un partito se ne sostituisca un’altra, ma perché la società si organizza in forme tali da rendere necessario un rinnovamento profondo delle forme della politica.

Tutto questo ragionamento si regge su un’analisi della società italiana nella quale, nonostante la crisi e nonostante gravi processi degenerativi, si individuano forze che sono interessate al massimo sviluppo delle potenzialità produttive del paese: tecnici, quadri, intellettualità tecnico-scientifica, lavoratori del terziario avanzato, settori di borghesia imprenditoriale. Si tratta di forze che pongono esigenze di efficienza, di razionalità e di rigore, e che per questo entrano in conflitto con un sistema di potere costruito su basi del tutto diverse.

D’altra parte, anche il rapporto con il mondo cattolico si fa più complesso, più problematico, ed è sempre meno riconducibile alla questione democristiana. C’è una ripresa in forme nuove di iniziativa religiosa, che tende ad affermarsi nella pienezza della sua autonomia e tende a rompere con le forme tradizionali del collateralismo.

Si tratta naturalmente, per ciascuno di questi aspetti, di mutamenti solo tendenziali, graduali, non ancora pienamente sviluppati, di cui dobbiamo verificare l’effettiva possibilità di una ulteriore evoluzione. La politica di alternativa, se non vuole essere velleitaria o avventuristica, è affidata a questi processi.

Con il compromesso storico, la questione delle alleanze sociali e la questione cattolica trovavano la loro collocazione nell’ipotesi di un accordo con la DC.

Ora, invece, dobbiamo affrontarle direttamente, con una iniziativa politica che acceleri i processi in atto, che sviluppi tutte le nuove potenzialità.

In questo senso, la politica di alternativa implica una strategia più ricca e complessa; non può essere un ripiegamento, ma richiede una visione di governo ancora più matura, una capacità più vasta e dispiegata di iniziativa politica.



Numero progressivo: G17
Busta: 7
Estremi cronologici: 1982
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Estratto rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - PCI -
Note: 2 copie
Pubblicazione: “Laboratorio politico”, n. 4, 1982, pp. 204-212. Ripubblicato in “La pazienza e l’ironia”, pp. 49-61