CENTRALITÀ DEL LAVORO E FEDERALISMO

Convegno nazionale Associazione Ambiente e Lavoro - Firenze 12 ottobre 2001

Relazione di Riccardo Terzi

Il referendum del 7 ottobre ha avuto un esito positivo, perché appare sufficientemente netta la volontà degli elettori a sostegno della riforma, sia pure nel quadro di una partecipazione prevedibilmente limitata, e soprattutto ha determinato un passaggio istituzionale di grande portata, con l’approvazione in via definitiva di un nuovo assetto dello Stato, il quale ridisegna tutta la gerarchia delle relazioni e delle competenze tra i diversi livelli dell’ordinamento in una prospettiva di tipo federalista. La partita non è chiusa, ovviamente, perché è evidente e dichiarata l’intenzione della maggioranza di governo, e in particolare della Lega, di riaprire tutto il problema, non solo per attuare le necessarie integrazioni costituzionali, a partire dalla riforma del Parlamento, ma per rovesciare il senso di marcia dell’azione riformatrice e per attuare un diverso impianto, una diversa logica istituzionale, alternativa alla legge approvata con il referendum. C’è in questa posizione del centro-destra un tentativo assai disinvolto di aggirare ed eludere gli impegni ed i vincoli che derivano dall’esito del referendum e dal nuovo quadro costituzionale che si è determinato.

Ma, a prescindere dai problemi di carattere istituzionale, che pure sono di grande rilevanza, è importante cogliere esattamente dove sta il punto dirimente tra le diverse prospettive politiche.

La differenza essenziale sta nel fatto che il centro-destra punta a ridurre al minimo, o eliminare del tutto, la “legislazione concorrente”, ovvero l’integrazione e l’intreccio di funzioni statali e funzioni regionali, per attuare una divisione netta delle competenze, con un trasferimento alla potestà esclusiva della legislazione regionale di interi blocchi di materie.

In particolare, si individuano tre campi fondamentali: sanità, istruzione, ordine pubblico.

In questa medesima direzione andavano i referendum promossi dalle regioni del Nord, ed è questo il senso concreto che viene attribuito alla parola d’ordine della “devolution”.

È in sostanza il passaggio dal federalismo solidale e cooperativo al federalismo competitivo.

Già nella Commissione Bicamerale si era a lungo discusso di questi possibili modelli, e si era trovato infine un punto di approdo unitario, condiviso in quel momento anche dai rappresentanti del Polo.

Tenendo conto delle particolari condizioni dell’Italia, dei forti squilibri territoriali che la attraversano, è necessario scegliere un modello federalista che non produca un ulteriore esasperazione di questi squilibri e che al contrario preveda al suo interno gli indispensabili meccanismi di perequazione, a garanzia dei diritti costituzionali che debbono valere su tutto il territorio nazionale.

Ora, è proprio questo equilibrio che si tenta di rompere, e l’effetto della devolution è il venir meno, in via di principio, di un ordinamento unitario, e la stessa cittadinanza, come insieme di diritti costituzionalmente garantiti, si frantuma e si differenzia, dando luogo così a sistemi territoriali che sono divisi nel loro stesso fondamento, non disponendo più di una comune carta dei diritti.

Accade così, in questa logica, che non c’è, non ci deve essere, un sistema scolastico nazionale, un sistema sanitario, ma una concorrenza di diversi sistemi.

Non ci sono quindi diritti validi su tutto il territorio nazionale, non c’è una cittadinanza nazionale, ma solo cittadinanze regionali. (Indicative di questa ispirazione sono le due bozze di statuto per la regione Veneto predisposte da Galan e da Cacciari, con la concettualizzazione della “cittadinanza veneta”).

Si contrappongono quindi due idee di federalismo: il federalismo come articolazione dei poteri e dei livelli di governo all’interno di uno Stato unitario che garantisce i diritti uguali di tutti i cittadini, oppure il federalismo come meccanismo di concorrenzialità e di competizione tra i diversi territori, senza un quadro comune di garanzie.

Se le relazioni sono di natura competitiva, la prima conseguenza inevitabile è l’esplodere del conflitto circa la distribuzione delle risorse, per cui la politica fiscale diviene il terreno di una continua negoziazione tra centro e periferia, tra regioni forti e regioni deboli.

D’altra parte, è stato esattamente questo il primo impulso del movimento leghista: rompere il vincolo solidaristico, e trattenere nelle regioni ricche del Nord tutte le risorse che vi vengono prodotte.

Se la secessione politica resta sullo sfondo, come mito politico più che come obiettivo concreto, la secessione di fatto sul terreno economico e sociale è tutt’altro che scongiurata.

Ora però, dopo il referendum, questo disegno è di più difficile praticabilità, perché siamo in presenza di una legge costituzionale approvata, che nel suo disegno di fondo si oppone esplicitamente a questa prospettiva.

Per questo, è stato giusto decidere nella passata legislatura di approvare la riforma costituzionale, anche con una maggioranza ristretta, perché la destra non ha offerto nessun terreno di confronto, ma ha solo cercato di far saltare il tavolo istituzionale, per poter dire agli elettori che con la sinistra statalista non c’è nessun accordo possibile e che la vera riforma la farà la destra dopo aver conquistato il governo del paese.

Sarebbe stato un errore cedere a questo ricatto. E di conseguenza era essenziale un forte impegno politico per il sì nel referendum.

Se non si fossero compiute queste scelte, non ci sarebbe oggi nessun ostacolo politico all’attuazione della linea leghista.

Se fosse prevalsa a sinistra una linea conservatrice, o eccessivamente prudente, avremmo consegnato al centro-destra una condizione di totale libertà di movimento, il che era esattamente quello che aveva cercato di ottenere, con la sconfessione degli accordi della Bicamerale e con il boicottaggio parlamentare, tentando così di avere le mani libere dopo le elezioni.

Ma non si tratta solo di contrastare con forza la manovra politica che sarà messa in campo dalla destra, si tratta anche di realizzare, dopo il referendum, alcuni sviluppi essenziali e dare coerenza e organicità a tutto il disegno di riforma.

In questo senso, la partita è aperta anche per noi, e il successo del referendum non è il punto di arrivo, ma è solo un momento di passaggio.

I problemi che restano aperti riguardano tre diversi campi di intervento. Il primo è il completamento della riforma costituzionale con l’istituzione di una seconda Camera che sia rappresentativa dei poteri locali. È questa una condizione necessaria per un corretto ed efficace funzionamento del federalismo cooperativo, il quale richiede una sede istituzionale a cui affidare il delicato compito del raccordo e dell’armonizzazione tra legislazione nazionale e legislazione regionale. In assenza di ciò, tutto il campo della legislazione concorrente rischia di divenire un campo di conflitti, di sovrapposizioni, di contese giuridiche e interpretative, di continui ricorsi all’arbitrato della Corte Costituzionale.

Sembra ormai esserci un’adesione generale alla prospettiva di una riforma strutturale del Parlamento, ma restano ancora assai differenziate le ipotesi di soluzione. La forza di inerzia del sistema politico, che ha fin qui impedito una qualsiasi decisione in materia e ha fortemente condizionato anche i lavori della Bicamerale, tende ora ad indirizzarsi verso una soluzione solo apparente e di facciata, con la proposta di una seconda Camera ancora su basi elettive, anche se con competenze differenziate.

Non è una soluzione convincente, perché finiremmo per avere un’istituzione che risponde ancora alle logiche politiche nazionali, alla dialettica dei partiti, ed è esattamente per questa ragione che essa appare gradita al sistema attuale dei partiti, che potrebbero così mantenere sostanzialmente intatto il loro controllo sulla vita istituzionale. Sarebbe una riforma a metà, più apparente che reale.

Ciò che occorre, per realizzare una riforma che sia davvero innovativa, è l’adozione di un bicameralismo che fondi la legittimazione delle due Camere su due diversi principi: da un lato la rappresentanza politica generale, con il voto dell’universalità dei cittadini, dall’altro lato la rappresentanza dei poteri locali. In questo senso, il modello più convincente resta quello del Bundesrat tedesco (la seconda Camera rappresenta i governi regionali), anche se possono essere studiate forme di adattamento alla più complessa rete delle autonomie locali esistente nel nostro paese. Una nuova struttura del Parlamento risolverebbe anche l’esigenza di una diversa composizione della Corte Costituzionale, perché sarebbe il Parlamento così riformato, con la rappresentanza dei territori, a nominare i suoi rappresentanti nella Corte. E ciò può valere per tutte le nomine nei diversi organi di garanzia.

Il secondo campo di intervento è la definizione dei principi generali entro i quali si deve esercitare l’autonomia regionale, per tutte le materie per le quali è previsto il meccanismo della legislazione concorrente. Con quale criterio? Occorre impedire che si riproponga per questa via una logica di centralizzazione, sulla base del pregiudizio statalistico che porta a vedere solo nello Stato il presidio indispensabile per tutto ciò che è rilevante.

Questa posizione di diffidenza verso le autonomie è incompatibile con un sistema di tipo federale. Allo Stato centrale non spetta ciò che è importante, ma ciò che è indivisibile: e in questo criterio di indivisibilità rientrano non solo le funzioni classiche del potere centrale (la moneta, la politica estera, la difesa, ecc.), ma tutti i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, i quali costituiscono i contenuti unitari della cittadinanza nazionale. Ad esempio, per quanto riguarda tutto il capitolo del lavoro, occorre nettamente distinguere il diritto del lavoro, che non può che restare unitario, e le politiche del lavoro, che invece devono potersi adattare ai diversi contesti sociali ed economici.

Il terzo fondamentale adempimento è l’attuazione della fase statutaria nelle regioni.

Gli Statuti non sono carte costituzionali, non possono quindi manipolare i principi della Costituzione, ma non sono soltanto dei regolamenti, delle norme di funzionamento della macchina regionale. Essi devono definire il quadro fondamentale delle regole e degli indirizzi per la politica regionale, e devono soprattutto costruire un sistema di relazioni con la società regionale, costruire cioè un sistema di governo che valorizzi nella misura più ampia possibile il contributo delle diverse forze che agiscono nella società.

Da qui derivano alcuni nodi di grande importanza: il rapporto tra regione e autonomie locali, per un modello istituzionale che realizzi appieno il principio della sussidiarietà verticale; gli strumenti da attivare per una partecipazione politica consapevole da parte dei cittadini; la ridefinizione delle competenze tra Presidente, Giunta e Consiglio; le forme della concertazione sociale, per attuare un modello di governo che sia basato sul concorso sistematico delle diverse forze rappresentative della società; i principi del sistema regionale del welfare (salute, sicurezza, ambiente, tutela del territorio).

Per questo occorre una discussione fortemente partecipata, che coinvolga l’intera realtà regionale in tutte le sue articolazioni, proprio perché non sono in questione solo i meccanismi istituzionali, ma i criteri ispiratori che debbono regolare il sistema regionale, inteso come l’insieme delle relazioni tra i diversi livelli istituzionali e tra le istituzioni politiche e la società, tra gli organi di governo e le rappresentanze.

L’obiettivo di tale processo non è un modello di tipo corporativo, ma un rapporto di tipo nuovo tra sovranità politica e tessuto sociale, nell’ autonomia dei ruoli, e in un continuo movimento di confronto, di interrelazione, di integrazione, per la costruzione di un sistema sociale coeso che sia capace di attivare e valorizzare tutte le risorse.

Infine, qualche considerazione conclusiva sul tema del lavoro.

Quando riaffermiamo il valore della “centralità del lavoro”, non assumiamo una posizione arcaicamente classista, ma ci riferiamo al criterio ispiratore generale sancito nel primo articolo della Costituzione, per il quale il lavoro è il fondamento della cittadinanza.

Ciò significa che il progetto politico-costituzionale è quello di una società che valorizza il lavoro in tutte le sue forme e che considera la persona nella sua dimensione sociale, e quindi i diritti politici come inseparabili dai diritti sociali, andando così oltre l’impostazione del vecchio liberalismo.

Con la riforma federalista, cambia la strumentazione istituzionale, ma non può cambiare l’indirizzo di fondo.

Occorre dunque distinguere nettamente diritti e politiche del lavoro, norme fondamentali che devono essere necessariamente unitarie e strumentazione operativa, che dipende dai diversi contesti sociali.

Nella legge costituzionale approvata c’è un punto critico, laddove si affida alla legislazione concorrente la “tutela e sicurezza del lavoro” il che può aprire un varco insidioso verso una destrutturazione del carattere unitario del diritto del lavoro.

Questo problema era stato sollevato con forza dalla CGIL e da gran parte della cultura giuslavorista, chiedendo che venisse adottato una formulazione non ambigua, non suscettibile di diverse e contraddittorie interpretazioni.

La ristrettezza dei tempi parlamentari non ha consentito di operare questa correzione. Ma restano del tutto valide le ragioni costituzionali che si oppongono ad una sorta di balcanizzazione del diritto del lavoro, e nello stesso testo costituzionale riformato esistono sufficienti garanzie, sia perché rimangono alla competenza statale esclusiva l’ordinamento civile e la tutela della concorrenza (e in questo ambito rientra tutta la materia contrattuale che regola i rapporti tra le parti sociali), sia perché spetta comunque al Parlamento nazionale fissare i principi generali entro i quali si svolge l’autonomia della legislazione regionale. D’altra parte, in una economia sempre più integrata su scala europea e su scala mondiale, è evidente la necessità di armonizzare le regole e di contrastare fenomeni di dumping sociale. Nel momento in cui costruiamo una nuova dimensione politica dell’Europa appare del tutto priva di senso l’idea di una territorializzazione dei diritti.

Nello stesso tempo, occorre vedere nel federalismo non solo un rischio, ma una nuova opportunità. Fatti salvi i diritti fondamentali, la rottura del vecchio centralismo statale può aprire la strada a nuove sperimentazioni nel campo delle politiche del lavoro, in un rapporto più stretto e funzionale con i diversi contesti economico-sociali. È un nuovo terreno da esplorare, e anche il sindacato deve saper innovare le sue politiche rivendicative e contrattuali. C’è ancora una forza di inerzia legata ad una vecchia prassi statalista e centralista, che occorre a questo punto superare e correggere profondamente.

La dimensione regionale può essere un campo di sperimentazione e di innovazione, nel quadro di nuove forme di concertazione territoriale. Governo attivo del mercato del lavoro, formazione, flessibilità e politiche di protezione sociale, regolazione dei nuovi lavori, sono tutti terreni nuovi che debbono essere esplorati ed affrontati anche con approcci differenziati, tenendo conto delle diverse realtà territoriali.

In sostanza, dobbiamo saper usare il federalismo come una risorsa, come una nuova potenzialità, come l’occasione per costruire uno Stato che sappia rispondere più direttamente alle diverse domande sociali.

Il federalismo è il tentativo di costruire un nuovo rapporto tra Stato e società, dopo avere registrato il fallimento e l’inefficacia delle politiche di centralizzazione. La sinistra, che ha avuto il merito di dare un impulso decisivo alla riforma dello Stato, deve ora saper utilizzare i nuovi strumenti istituzionali. Non deve giocare in difesa, ma essere in prima fila nella battaglia politica per la trasformazione dello Stato e dell’amministrazione pubblica.



Numero progressivo: C11
Busta: 3
Estremi cronologici: 2001, 12 ottobre
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa da file PC
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - CRS -