CENTRALITÀ DEL LAVORO E DEMOCRATIZZAZIONE, PER RICOSTRUIRE LA SINISTRA POLITICA
Relazione di Riccardo Terzi al Comitato Direttivo nazionale SPI CGIL del 21 maggio 2013, di cui cui però rappresenta una versione rivista ed ampliata. La versione originale (record D4bis) è stata pubblicata in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, p.167, col titolo “Dentro la crisi: centralità del lavoro, ruolo del sindacato”, pp. 167-177
In questi ultimi tre mesi vi sono stati tre passaggi politici di straordinario rilievo: le elezioni di febbraio, la riconferma di Napolitano alla Presidenza della Repubblica, la formazione del nuovo governo.
Quale che sia il giudizio sui comportamenti e sulle scelte compiute dai diversi soggetti politici, occorre valutare in tutta la sua eccezionale portata il fatto che l’intero quadro politico-istituzionale ne esce sovvertito e sconvolto, aperto ai più diversi sbocchi. Ed è in particolare la sinistra l’epicentro di questa violenta ondata sismica, per il risultato elettorale deludente, per lo sfondamento operato dal Movimento 5 Stelle, per i susseguenti contorcimenti tattici, e per lo sbocco finale di un accordo di governo con il centro-destra che sembrava essere, fino a ieri, del tutto al di fuori di ogni possibile previsione, e che ha prodotto la rottura dell’alleanza elettorale tra il Pd e SeL. Se il campo della sinistra è diviso, frammentato, se sul Pd in particolare si scaricano tutte le tensioni dell’attuale momento politico, tutto ciò offre alla destra un grande vantaggio strategico. La prima regola dell’arte politica, come dell’arte militare, è tenere unito il proprio campo e dividere il campo avverso, ed è sorprendente, sotto questo profilo, l’avventatezza tattica dello stato maggiore della sinistra. La conclusione più elementare che possiamo trarre da questa vicenda è che la crisi del sistema politico, già da tempo in via di maturazione, è ora esplosa, mandando in pezzi tutti gli equilibri precedenti e tutto il castello di carta delle previsioni e delle tattiche politiche, pensate in astratto, senza capire ciò che stava maturando nel sottosuolo della nostra coscienza collettiva, senza intercettare i sentimenti di rabbia, di rifiuto, di rancore che sono il prodotto disperato di una “crisi di sistema”, la quale investe nello stesso tempo la sfera dell’economia e quella dell’etica pubblica.
In questo stato di cose, esposto pericolosamente a possibili esiti distruttivi ed eversivi, su ciascuno di noi, individualmente e collettivamente, incombe la responsabilità di ricercare e di costruire delle possibili vie di uscita. È chiaro che anche il sindacato è chiamato in causa, perché organizza e orienta milioni di persone, perché è una grande organizzazione di massa che deve far sentire con forza la sua voce. Avremo presto il congresso della CGIL per discutere di questo, per decidere quale ruolo intendiamo svolgere nel mezzo di questa crisi sistemica. Nelle situazioni di crisi ciò che occorre è la lucidità dell’analisi e il coraggio dell’innovazione, vedendo non solo le insidie, ma anche le nuove potenzialità che dalla stessa crisi possono essere suscitate.
Ciò che dobbiamo maggiormente temere è quella sorta di micidiale buon senso, per il quale tutto alla fine si aggiusta, e si tratta solo di continuare il cammino già sperimentato, aspettando, rinviando, senza mai correre il rischio di una qualche sterzata. Se ci si affida al buon senso, alla prudenza, ai piccoli passi, al realismo del giorno per giorno, in attesa di una schiarita che non si capisce da dove possa venire, ciò vuol dire semplicemente non aver capito nulla della profondità della crisi in cui siamo precipitati.
È tutto il rapporto tra istituzioni politiche e società civile che si è spezzato, è il sistema dei partiti che non riesce più a rappresentare la complessità delle domande sociali, è quindi la democrazia stessa, nella sua sostanza, che entra in sofferenza e che ha bisogno, a questo punto, di essere riorganizzata su nuove basi. Occorre un progetto complessivo di democratizzazione del sistema, sperimentando nuovi strumenti partecipativi e ripensando alla radice la stessa funzione del partito politico.
Non si tratta affatto, come da varie parti si sostiene, di riscrivere l’architettura costituzionale, ma piuttosto di darle compimento. Non servono quindi soluzioni presidenzialiste, decisioniste, di ulteriore accentramento del potere, ma serve una democrazia organizzata, allargata, partecipata, capace di ricomporre un rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini.
Occorre inoltre che il tema della democratizzazione venga posto con forza a livello europeo, per realizzare quel passaggio mai finora compiuto dalla diplomazia degli Stati nazionali alla costruzione di una vera sovranità sovranazionale, legittimata democraticamente. Qui davvero servirebbe un processo costituente, per dare vita ad una effettiva cittadinanza politica europea. E questo medesimo salto di qualità deve essere compiuto dalle organizzazioni sindacali, che fin qui hanno costruito solo un debole strumento di coordinamento, senza veri poteri di iniziativa e di contrattazione.
Ma ora il vero problema politico che abbiamo di fronte è la costituzione del governo Letta, sostenuto da Pd, Pdl e Scelta Civica. Possiamo tutti convenire, ovviamente, che non è il governo del cambiamento da noi auspicato, e credo sia comune a tutti noi, pur con accenti diversi, una forte preoccupazione per l’esito politico che alla fine si è prodotto. Non è una soluzione di necessità, per il semplice fatto che la necessità non è una categoria della politica, e in ogni momento si tratta di valutare tutte le diverse opzioni possibili. Parlare di necessità vuol dire abdicare alla libertà di scelta, e farci trascinare passivamente dalla forza d’inerzia. Il governo è il risultato di una scelta a cui hanno concorso diversi fattori, a partire dalla tenace determinazione del Presidente della Repubblica, e dalla concorde sottomissione incondizionata delle forze politiche al suo ruolo non di garante, ma di decisore, con una evidente forzatura dei limiti costituzionali. E non è, se non in superficie, il ritorno della politica dopo la parentesi dei “tecnici”, perché la base parlamentare su cui si regge l’attuale governo è esattamente la medesima del governo Monti: cambiano i protagonisti, ma non cambia affatto la motivazione di fondo su cui si regge tutta questa operazione, nel nome di un superiore “interesse nazionale”, a cui devono essere sacrificate le parzialità, le diversità, le ragioni plurali della rappresentanza politica. Il governo non è tecnico nella sua composizione, ma lo è nelle sue premesse fondative, perché è l’espressione di una emergenza, la quale richiede che la dialettica democratica venga sospesa. Che si tratti solo di una tregua, o di un progetto più audace di “pacificazione nazionale”, resta il fatto che vengono rimossi e oscurati tutti i conflitti politici, etici e valoriali che hanno segnato il nostro recente passato. Siamo dunque ancora sotto il dominio di una superiore oggettività tecnica a cui è inevitabile sottomettersi.
A questo punto, ciascuno può fare liberamente le sue scelte politiche e tattiche, e non è mio compito entrare in questo tipo di discussione. Ma si eviti, per favore, di dire che “dobbiamo metterei la faccia”, perché, in una situazione di estrema complessità, non serve la teatralità un po’ arrogante del gesto decisionista, ma serve solo metterci tutta l’intelligenza possibile. In ogni caso, tutto il vasto campo della sinistra, a cui anche noi apparteniamo, è messo in tensione, in movimento, e deve interrogarsi sul suo futuro, e in questo lavoro tutte le identità del passato devono essere ripensate e trasformate.
Trovo che sia del tutto privo di senso giudicare l’attuale situazione in base alle passate provenienze politiche, come se ancora si trattasse di comunisti, o socialisti, o democristiani. Non c’è nessun ritorno al passato, ma c’è un nuovo contesto politico e culturale, e ciò che conta, in questa situazione del tutto inedita, non è da dove si viene, ma solo dove si vuole andare. Le antiche appartenenze si sono ormai dissolte, e credo che il tratto nuovo della nostra epoca sia la fine delle logiche di appartenenza, e l’emergere di una posizione di maggiore criticità, fondata sull’autonomia e non sulla fedeltà, sull’irrequietezza e non sulla stabilità. In questo senso, le vecchie logiche identitarie finiscono per essere solo una gabbia, che ci impedisce di pensare in modo più aperto e di lavorare sulle contraddizioni e sulle trasformazioni del nostro tempo attuale.
La sinistra, in fondo, ha il suo fondamento nella forza delle contraddizioni sociali che agiscono nella società, e che attendono di essere rappresentate e organizzate. Non è il residuo di una storia tramontata, ma può essere l’intelligenza critica messa al servizio di un progetto attuale. C’è un dato molto importante nelle ultime vicende politiche: la definitiva messa fuori gioco di quello schema politologico che ci è stato testardamente propinato in questi anni, per cui tutta la partita politica si decide al centro, e vince chi è in grado di rappresentare il voto moderato. Secondo questo schema, la sinistra può vincere solo se occupa il centro dello schieramento e si libera di tutte le posizioni più radicali. Ora, ciò che è emerso con le elezioni politiche è all’opposto un processo di radicalizzazione, e appare evidente l’inconsistenza strategica di tutte le ipotesi centriste. Se la sinistra è in affanno, è perché ha offuscato le sue ragioni e si è strappata dalle sue radici, sociali e culturali.
C’è dunque un lungo lavoro di ricostruzione, ed è questo l’elemento decisivo, al di là delle contingenze e delle miserie della vicenda politica.
Fabrizio Barca parla, nel suo documento, del partito-palestra: palestra delle idee e della partecipazione democratica. Si può convenire, naturalmente. Ma la palestra, se essa sta a significare la vitalità democratica, non si lascia rinchiudere nei confini di un partito, quale che esso sia, ma deve allargarsi a tutti i soggetti sociali organizzati, sindacato compreso. E in questa sfida per un più avanzato livello di democrazia dobbiamo saperci confrontare con le diverse esperienze di movimento che si sono costruite su un’idea di democrazia diretta, e con la nuova realtà politica del Movimento 5 Stelle, che ha dimostrato una straordinaria capacità di mobilitazione. Serve una linea di dialogo e di inclusione, per impedire che queste energie finiscano nel vicolo cieco di una posizione solo distruttiva.
Veniamo da una storia segnata dall’idea del “primato della politica”, e in questo orizzonte il sindacato è solo un momento parziale, tendenzialmente corporativo. Ma ora i termini del problema sono completamente mutati, e non è più possibile pensare la dimensione sociale e quella politica come i due lati di uno stesso processo, all’interno di un comune fondamento ideologico. Da questo punto di vista, occorre forse riflettere sulla troppo frequente e disinvolta prassi del passaggio dall’uno all’altro campo, come se si trattasse solo di una diversa collocazione funzionale, di una continuazione in altre forme dello stesso impegno militante. L’involucro teorico unitario che teneva insieme partito politico e sindacato si è dissolto, e questi due momenti ora camminano su diversi binari, e di volta in volta possono incrociarsi o scontrarsi.
Ed oggi è proprio il sociale che esplode, nell’indifferenza e nella sordità della politica. C’è un intero territorio sociale, di lavoro operaio, di lavoro precario, di piccola impresa, che non ha rappresentanza politica, e che per questo può divenire la massa di manovra per le più svariate operazioni demagogiche: ieri la Lega, oggi Grillo, e domani qualche altro avventuriero di successo. Non ce la caviamo con la predica moralistica contro il populismo, che spesso serve solo a stigmatizzare tutto ciò che non riusciamo a capire. Non è solo un problema della politica, ma è anche un segno drammatico della nostra debolezza, della nostra incapacità di costruire una coscienza unitaria del mondo del lavoro, una identità, una prospettiva in cui ciascuno si possa riconoscere. Ogni volta che si dice populismo, anti-politica, dobbiamo interrogarci su noi stessi, perché vuol dire che non abbiamo saputo presidiare e organizzare il nostro campo, che ci siamo lasciati rinchiudere in una posizione solo difensiva. Il sindacato, lo sappiamo, è sotto attacco. C’è una concentrica campagna di delegittimazione, con la quale si tende a relegarci nell’angolo, presentandoci come una delle tante corporazioni che sono di ostacolo allo sviluppo e al rinnovamento del paese. E si è montata ad arte la contrapposizione tra giovani e anziani, tra precari e garantiti, con l’obiettivo di spezzare l’unità del mondo del lavoro. A questa strategia dobbiamo saper rispondere con un progetto politico che sia capace di parlare al paese, e in questa chiave dobbiamo far vivere l’iniziativa del “piano del lavoro”, facendone il centro della nostra mobilitazione.
È necessaria, in primo luogo, una battaglia culturale per affermare il principio della “centralità del lavoro”. Ma non in modo retorico: per definizione il centro è uno (non molti), però occorre definirlo con precisione e in modo concreto. Oggi siamo di fronte al paradosso per cui i due nodi che danno identità alla sinistra – quello di essere in grado di produrre una politica di massa e quello, nel contempo, di praticare il conflitto sociale – sono separati: c’è ancora effettivamente un partito di massa – il Pd – che però non pratica più il conflitto, ma lo annega in un generico interclassismo (e per questo è spesso bloccato da divisioni interne), e c’è una frammentazioni di gruppi, nella sinistra cosiddetta radicale, con al centro la pratica del conflitto, ma ridotti ad un minoritarismo tale da rendere inefficace ogni azione. La centralità del lavoro, in primo luogo, deve richiamare al superamento di questo paradosso, dentro un ipotesi di unità politica che colleghi la dimensione di massa alla pratica del conflitto sociale. Si può cominciare qui ed ora cercando di unire tutta la sinistra che c’è in un fronte politico comune, ma il processo innovativo deve essere più strategico e quindi più profondo. E allora, centralità del lavoro vuol dire che tutte le politiche economiche devono essere orientate prioritariamente all’ obiettivo della massima occupazione, utilizzando tutti gli strumenti, e con una fortissima funzione di coordinamento e di regia del potere pubblico, ai diversi livelli. È un rovesciamento rispetto a tutte le pratiche dominanti, orientate solo all’equilibrio di bilancio e alla minimizzazione del perimetro pubblico, in nome della libertà di mercato. Il risultato è l’attuale tragedia sociale di una disoccupazione di massa in tutto il nostro continente. Dobbiamo, in proposito, riallacciarci a tutta una tradizione di pensiero, socialista e riformista, che ha considerato le politiche del lavoro non come un capitolo di dettaglio, ma come il centro propulsore di una politica di sviluppo. Penso, ad esempio, a Riccardo Lombardi, che propone l’occupazione come la “variabile indipendente”, intorno alla quale far ruotare tutte le scelte di politica economica. Il piano del lavoro ha quindi questo significato di sfida e di alternativa rispetto alle politiche liberiste dominanti. Ma si tratta – ed è questa la sfida più impegnativa – di costruire una reale mobilitazione di massa, che sia capace di strappare alcuni risultati concreti. Il problema del lavoro si pone su diversi livelli. C’è, anzitutto, il livello delle politiche europee, dove è necessaria una decisa sterzata, dato il fallimento della linea di austerità e dati gli altissimi costi sociali che essa ha provocato. Da un patto per la stabilità occorre passare ad un patto per lo sviluppo, ed in questa direzione vanno ricercate tutte le alleanze possibili. È chiaro che il quadro europeo ci condiziona pesantemente, ma c’è comunque uno spazio di iniziativa nazionale che deve essere esplorato. È possibile un piano straordinario per l’occupazione, concentrato in particolare su alcune emergenze troppo a lungo trascurate: la messa in sicurezza del territorio, l’edilizia scolastica, l’uso di energie alternative, il ciclo dei rifiuti, le politiche di welfare di fronte alle nuove sfide dell’invecchiamento, della povertà e dell’immigrazione. Giovani e Mezzogiorno sono le priorità su cui lavorare.
Quindi la centralità del lavoro declinata sul principio fondamentale che ci deve guidare: il principio di eguaglianza; che è il cardine della nostra Costituzione, e su cui si concentrano tutti i tentavi di scardinamento, in forma palese o sotterranea, per imporre un diverso modello, nel quale all’universalismo dei diritti si sostituisce la sregolatezza di una competizione in cui ciascuno si afferma a scapito dell’altro. E un tale scardinamento è già da tempo in corso, mettendo in crisi la coesione sociale del paese. È sul terreno dell’eguaglianza che si misura il confine tra destra e sinistra, ed è questo il metro con cui dobbiamo giudicare di tutti i problemi aperti, con una linea di coerenza e di radicalità.
Eguaglianza dei diritti, tra Nord e Sud, tra cittadini e immigrati, tra uomini e donne, tra lavoratori stabili e precari: eguaglianza e non assistenza, intervento non solo sugli effetti, ma sulle cause delle disuguaglianze sociali. Questa è l’identità del sindacato, la sua ragion d’essere. E dobbiamo, in questo nostro lavoro, aprirci ad un rapporto di collaborazione con i diversi movimenti che pongono al centro il tema dei diritti e della qualità della vita, e per questo dobbiamo rendere trasparenti tutti i nostri processi decisionali e negoziali, con il massimo coinvolgimento democratico di tutte le persone interessate. Anche per noi c’è un problema di democrazia, che non sempre siamo riusciti a risolvere in modo soddisfacente. Anche al nostro interno ci sono varie strozzature burocratiche che devono essere rimosse, e c’è la necessità di un rinnovamento dei gruppi dirigenti. La spinta al cambiamento che c’è nel paese riguarda anche noi, il nostro modo di lavorare, la nostra capacità di relazione con la vita reale delle persone. Siamo una grande forza organizzata, ma c’è uno scarto tra questa forza e i suoi risultati, c’è un problema di efficacia, di concretezza, che dobbiamo saper risolvere.
Alla luce di questa esigenza, lo stesso principio della confederalità deve essere meglio interpretato e declinato, intendendolo come la più larga e aperta sperimentazione orizzontale, in cui ciascuna struttura, territoriale o di categoria, cerca di dare un senso e un contenuto generale, non corporativo, al proprio lavoro. E lo si può vedere come un principio guida alla necessaria riforma anche della forma partito tradizionale, centralizzata, ma anche anchilosata, nella sua pretesa funzione sintetica di tutte le questioni. La confederalità non è l’accentramento burocratico, ma è lo sguardo che ciascuno, nel suo ambito, tiene aperto sull’intera condizione sociale: uno sguardo sul mondo, e insieme una capacità di agire nel concreto, di presidiare in modo creativo il proprio specifico campo di intervento. Se la società, come ci dicono tutte le analisi sociali, è sempre più frammentata e differenziata, la confederalità non può che essere il libero concorso di diverse esperienze. Così messa, può valere anche per noi l’immagine della palestra, in cui ciascuno si addestra a vincere gli ostacoli, in un lavoro collettivo e in una costante e aperta tensione democratica.
Busta: 4
Estremi cronologici: 2013, 21 maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Pubblicazione: “Progetto Lavoro”, 2013, pp. 40-44