AUTONOMIA DELLA PERSONA, SOCIALITÀ, CITTADINANZA ATTIVA

Scritto di Riccardo Terzi. Il testo è stato pubblicato anche in una versione estesa come postfazione di “A partire dagli anziani”.

Sono ampiamente conosciuti i dati sulle tendenze demografiche che sono in atto in tutti i paesi sviluppati, tra i quali si segnala il caso dell’Italia, dove si combinano con una particolare intensità i due fenomeni dell’allungamento della vita media e del calo della natalità. È un processo in piena espansione, destinato a produrre a breve termine effetti profondi e del tutto inediti nella struttura sociale, nelle relazioni interpersonali, nel ruolo della famiglia, nel percorso di vita delle persone e nella loro identità.

Se la politica è il modo in cui organizziamo la nostra vita collettiva, dovrebbe essere chiaro che ci troviamo di fronte ad un problema politico di prima grandezza. E tuttavia, nonostante questa evidenza dei fatti, il dibattito politico su questo tema è del tutto opaco e reticente, e non c’è nessun tentativo, neppur timido, di tematizzare l’invecchiamento della società come uno dei grandi nodi strategici per il nostro futuro. Abbiamo qui una riprova della distanza che si è prodotta tra politica e società, tra il sistema istituzionale e la vita reale delle persone, e il risultato di questo scarto è che la società è lasciata a se stessa, alla sua spontaneità e alla sua emotività, senza che prenda forma una struttura, un’idea di comunità, un principio di organizzazione e di coesione.

 

Non si tratta solo dell’invecchiamento, ma di tutte le grandi emergenze sociali, che restano senza risposta, senza elaborazione, perché non si va oltre l’armamentario inconcludente di una retorica a buon mercato. Così è per il lavoro, per il groviglio drammatico di disoccupazione e precarietà, che viene affidato alle aleatorie aspettative di una futura ripresa economica, senza nessuna proposta incisiva per il presente, per cui il lavoro resta sullo sfondo, in una prospettiva sfumata ed incerta, e non diviene una priorità della politica. Così è per lo straordinario fenomeno dell’immigrazione di massa dal Sud al Nord del mondo, che è lasciato in balia dei calcoli politici più strumentali, tra le due opposte retoriche della fermezza e dell’accoglienza, senza che sia percepibile una strategia, una visione di insieme del problema.

L’invecchiamento è l’altro grande tema su cui la politica attuale non sa dire altro che banalità e luoghi comuni. Non viene affatto colta tutta la straordinaria complessità del problema, con tutte le sue implicazioni sociali e politiche. Sulle ragioni di questa afasia della politica ci sarebbe molto da discutere e da approfondire. Mi limito qui a registrare il fatto che con il tramonto delle grandi rappresentazioni ideologiche si sono perdute tutte le connessioni sia con la nostra storia passata, sia con il nostro futuro, e si resta quindi del tutto prigionieri dello stato di cose presente. La politica si è ridotta così alla manutenzione tecnica del sistema, senza più nessuna capacità di immaginazione e di progettazione. In questo senso, non ci sono che “governi tecnici”, perché il loro orizzonte è solo quello della governabilità e della stabilità. E allora, in questa condizione di opacità del pensiero e di svuotamento della politica, l’invecchiamento è solo un elemento di disturbo da aggirare e da neutralizzare. Come? Con due semplicissime e brutali operazioni: le pensioni costano troppo, e vanno quindi diminuite, le aspettative di vita si allungano e quindi va alzata l’età pensionabile. Tutto qui: un’operazione contabile, che prescinde totalmente dal vissuto concreto delle persone.

Il risultato non può che essere devastante, con un incremento massiccio delle condizioni di povertà, e con una criticità sempre più acuta e drammatica nel passaggio dal lavoro alla pensione: lavoro che si perde e pensione che viene rinviata nel tempo, condizioni di fatica e di stress che non vengono riconosciute, progetti di vita che vengono d’un tratto azzerati, creando così una generale condizione di precarietà e di incertezza. In una società che esalta la flessibilità come nuovo e superiore paradigma sociale, il regime pensionistico è regolato secondo un criterio di totale rigidità, senza nessuna considerazione per la diversità delle situazioni personali: condizioni di salute, diverse tipologie di lavoro, carico del lavoro di cura, soprattutto per le donne, varietà delle scelte, delle aspettative e dei progetti, individuali e familiari. Qui davvero occorrerebbe il massimo di flessibilità, incentivando anche forme di passaggio graduale dal lavoro alla pensione. E occorrono strumenti di protezione del lavoro delle persone anziane, che sono assai spesso le prime vittime di tutti i processi di ristrutturazione e di ammodernamento, senza avere nessuna possibilità di accedere a nuove occasioni di lavoro. Se è condivisibile l’obiettivo di allungare l’età lavorativa, ciò può essere fatto solo con una politica complessiva che riorganizzi il mercato del lavoro, e non con l’innalzamento forzoso dell’età pensionabile, che ha solo l’effetto di alimentare i fenomeni di esclusione sociale, ingrossando sempre più l’esercito dei cosiddetti “esodati”.

In sostanza, tutto il sistema previdenziale dovrebbe essere ripensato e riorganizzato su nuove basi, favorendo la libera scelta delle persone, e assicurando comunque a tutti quelle condizioni dignitose di vita di cui parla la nostra Costituzione, e che invece sono state via via sempre più intaccate da tutte le varie manovre di risanamento economico, le quali tutte hanno considerato le pensioni come il campo più accessibile e più redditizio per operazioni di taglio della spesa pubblica. Siamo giunti ora ad un punto critico non più sostenibile.

Ma non c’è, nei fatti, nessuna inversione di tendenza, e anzi si alimenta la spinta verso un conflitto intergenerazionale, con la tesi del tutto paradossale che siano le generazioni più anziane ad aver rubato il futuro dei giovani, che dunque siamo in presenza di una categoria di privilegiati e di parassiti. C’è, in questo senso, una copiosa produzione giornalistica, che mette in discussione tutte le conquiste sociali del nostro passato, e che sostiene l’insostenibilità del nostro sistema di welfare. Non è più il tempo, secondo costoro, di far valere i diritti di una cittadinanza universale, ma ci possono essere solo misure limitate ed emergenziali, di tipo caritatevole, per i più bisognosi. Questo è il nodo oggi, in Italia e in Europa: diritti o assistenza, stato sociale universale o interventi settoriali, uguaglianza o accettazione acritica delle attuali condizioni di disparità sociale. Il mondo degli anziani sta dentro questo dilemma, questa alternativa, tra l’essere riconosciuto come un soggetto pieno della cittadinanza, politica e sociale, o l’essere solo il destinatario di qualche misura assistenziale.

Destra e sinistra dovrebbero prendere senso su questo crinale. Ma tutti i confini sono oggi slabbrati ed incerti, e tutti i discorsi sono improntati ad una sorta di realismo rassegnato, senza quella nettezza e radicalità delle posizioni che dovrebbe contrassegnare un serio confronto politico. Basti vedere che fine ha fatto la nobile tradizione del riformismo, che ha ormai un segno del tutto capovolto, da strumento di liberazione del lavoro a copertura ideologica di tutte le manovre della restaurazione capitalistica. Si è prodotta così una vera e propria devastazione dei significati, una distorsione del linguaggio politico, e la sinistra ha subito passivamente questo salto di egemonia, temendo di apparire passatista, conservatrice, ideologica. Non c’è oggi chi prenda in mano con decisione, e anche con la necessaria asprezza, la causa dell’universalismo dei diritti sociali, rovesciando il paradigma dell’economia liberista. Le parole più radicali sono oggi quelle del pontefice, che vengono però assorbite e neutralizzate, interpretandole come un messaggio solo di ordine spirituale e pastorale, che resta dentro i confini della coscienza individuale, senza nessun effetto politico. Il papa non si discute, ma le sue parole stanno su un altro pianeta, e noi, persone realiste e moderate che stiamo nel mondo reale, adattiamo la nostra fede, o la nostra morale, alle circostanze e alle convenienze. Questa è la partita oggi aperta, tra una visione globale e una visione menomata della condizione umana, tra l’intransigenza della teoria e il realismo accomodante che si adatta passivamente al corso delle cose.

Per questo l’invecchiamento è un grande problema politico, perché ha a che fare con il sistema dei diritti e con l’idea di società. E va affrontato con una visione di insieme, con un approccio antropologico prima che politico, sociale prima che economico, perché qui si tratta del nostro destino, della nostra identità e dignità, dell’essere persona o dell’essere strumento, di poter governare la propria vita, o di finire nel grande deposito degli scarti sociali ormai inutilizzabili.

Occorre ripartire dall’Articolo 3 della Costituzione, che impegna la repubblica a rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono la piena e consapevole partecipazione dei cittadini e dei lavoratori alla vita democratica. Ora, l’invecchiamento è proprio uno di questi possibili ostacoli che occorre rimuovere, considerando i suoi diversi profili: fisici, sociali, psicologici, culturali. L’obiettivo è la partecipazione piena ed effettiva alla cittadinanza sociale, senza discriminazioni, senza chiusure in un qualche ghetto più o meno protetto, senza nulla concedere al sentimentalismo ipocrita che vede la persona anziana come una persona dimezzata, bisognosa solo di protezione e di assistenza. Non sono per questo accettabili tutte quelle soluzioni che rinchiudono l’anziano in un suo mondo separato: non l’università della terza età, ma l’università popolare, non i centri per anziani, ma le case del popolo, non ciò che separa, ma ciò che unisce le diverse generazioni. Il problema dell’anziano è quello di essere riconosciuto come una persona, a tutti gli effetti, con pari diritti e pari doveri. Non chiede particolari privilegi, ma chiede di essere partecipe della vita collettiva.

Ma occorre vedere più a fondo tutta la criticità del processo di invecchiamento nella nostra esperienza individuale, di questa difficile fase di passaggio e di transizione, nella quale abbiamo bisogno di un nuovo progetto, di un nuovo fondamento su cui costruire il nostro futuro. Da un lato, c’è l’illusione giovanilistica, l’ansia di apparire ciò che non si è più, l’esibizione di una vitalità artefatta e ormai patetica; dall’altro lato, c’è la tendenza a rispecchiarsi solo nel passato, a vivere il tempo presente con un senso di estraneazione e di spaesamento, restando soffocati sotto il peso della memoria e della nostalgia. In entrambi i casi, c’è una vita senza baricentro, perché ci si concentra o sull’immaginario o su ciò che è tramontato, e non si dà un senso al presente, non si costruisce un progetto di vita adeguato alla nuova condizione. L’esperienza dell’invecchiamento richiede una elaborazione, una costruzione, una ridefinizione della propria identità, il che comporta un lavoro assai complesso di osservazione su se stessi e sul mondo, per ricostruire una rete relazionale in cui ritrovare la propria ragion d’essere, il significato possibile della propria esperienza in questa fase della vita.

Si dice che la vecchiaia è il momento della saggezza, ma purtroppo non c’è affatto questa coincidenza, e la saggezza è un traguardo assai difficile da conquistare, perché essa significa totale apertura e flessibilità del pensiero, capacità di cogliere tutta la complessità del reale, il suo movimento e le sue contraddizioni. Con l’invecchiamento si produce spesso l’effetto opposto: l’accanimento nelle proprie certezze e l’intolleranza verso tutto ciò che ci appare diverso. E si entra allora in una spirale di diffidenza, di rancore, di ostilità verso il nuovo, finendo così in una condizione di marginalità e di impotenza.

Tutta questa situazione esistenziale si complica ulteriormente nelle attuali condizioni della nostra modernità, dove tutto il processo dell’invecchiamento è posto di fronte a nuovi ostacoli. Rispetto alla società tradizionale, ci sono almeno tre grandi elementi di novità da considerare. Il primo e fondamentale cambiamento è che viene meno la rete, protettiva e oppressiva ad un tempo, della comunità, della famiglia allargata, e ciascuno deve quindi elaborare in solitudine le regole del proprio invecchiamento. Può essere un atto di libertà creativa, ma può anche essere uno smarrimento, un senso di declino e di perdita dell’identità. Per la prima volta l’invecchiamento è un processo essenzialmente individuale, senza reti protettive, e in questa difficile sfida tutto il corso vitale resta aperto a diversi possibili esiti, di realizzazione o di svuotamento, e in questo gioco molto dipende dal capitale sociale e culturale che si è accumulato. C’è un rapporto stringente tra ciò che siamo stati e ciò che potremo essere, e in questo senso l’invecchiamento non è affatto un problema settoriale, ma prende senso dall’organizzazione complessiva della società. È la società, nel suo insieme, che deve produrre socialità, relazioni, partecipazione consapevole, e la condizione degli anziani è un sensibilissimo metro di misura per valutare la qualità complessiva dell’ordinamento sociale, se esso ha o non ha la forza di tenere insieme tutti i passaggi della nostra vita, senza segmentarli in scomparti rigidamente separati, se dunque lavoro, formazione e libero uso del tempo sono sempre tra loro intrecciati, nelle diverse fasi della vita.

In secondo luogo, siamo entrati in un mondo di rapidissima e vorticosa trasformazione, che sta cambiando non solo le tecniche, ma gli stili di vita, i valori, le forme della convivenza, e in questa situazione tutto il deposito di esperienza delle persone anziane finisce per essere messo del tutto fuori gioco, con un effetto drammatico di spiazzamento, essendo sovrastati da un nuovo mondo tecnologico di cui non si possiedono le chiavi. I tempi della vita e i tempi del cambiamento si sono del tutto divaricati, e ci troviamo ad invecchiare in un mondo nuovo, sconosciuto, che ci può apparire ostile e disumano. Mentre nella società tradizionale, dai ritmi lenti, l’anziano è il custode della sapienza collettiva, è il testimone e il garante di una continuità, ora questa continuità viene spezzata, e si rischia di finire del tutto fuori strada, senza possedere gli strumenti indispensabili per orientarsi nel mondo che cambia. Anche sotto questo profilo, abbiamo bisogno di un forte bagaglio culturale per reggere l’urto del cambiamento.

Infine, l’insidia più velenosa sta nel fatto che la società si è organizzata in forme iper-competitive, e ciò che conta è solo il successo, la visibilità, l’apparire, in una logica individualistica e narcisistica esasperata e talora grottesca, e in questo contesto diviene ancora più faticoso gestire il proprio invecchiamento, il quale richiede un progressivo ritrarsi dai meccanismi nevrotici della competizione. Il problema è: come ritirarsi senza rinunciare, come svolgere in altro modo e in altre forme la propria funzione sociale. In questo difficile varco si inseriscono i professionisti della “rottamazione”, della liquidazione di tutto il patrimonio di esperienza accumulato, gli adoratori del “nuovo”, e a questo punto c’è la necessità di difendere la propria dignità e la propria storia. Si può stare in una posizione più defilata, in un ruolo non di decisione, ma di riflessione, si può cioè coltivare l’arte della saggezza, ma si deve pur dire che il fanatismo iconoclasta dei giovani rottamatori è il segno di un imbarbarimento fascistoide, a cui è necessario reagire con grande fermezza, non per continuare a competere nelle posizioni di comando, ma per essere riconosciuti come persone che hanno una storia alle spalle e che possono partecipare con pari diritti alla costruzione del nostro futuro.

L’idea di fondo che ci deve guidare è quindi quella della cittadinanza attiva, in tutte le fasi della vita, e per questo vanno disinnescate le trappole dell’invecchiamento, le quali tutte si riassumono in un possibile esito di passività e di emarginazione. A questo proposito, viene molto sottolineato, e giustamente, il ruolo prezioso dell’associazionismo e del volontariato, sia come occasione di impegno per le persone anziane, sia come strumento di sostegno, per fronteggiare le crescenti situazioni di difficoltà che sono proprie dell’età matura. Il volontariato ha queste due facce: anziani che aiutano, e anziani che vengono aiutati, e spesso c’è una compresenza di questi due aspetti. E tuttavia questo contributo di generosità, che ha un grande significato etico e solidaristico, non può essere sufficiente, e la politica pubblica non può scaricare sulla rete del volontariato le proprie responsabilità, la propria funzione di governo e di progettazione sociale. Qui c’è un nodo politico che non è stato sciolto e che riguarda l’interpretazione del principio di sussidiarietà, che ha ora un riconoscimento costituzionale, il quale viene spesso deformato e frainteso, come un ritrarsi del pubblico, in una prospettiva di totale privatizzazione, per cui tutto il tema della coesione viene lasciato all’autogoverno sociale, e la politica non si deve intromettere.

Ma così accade che il meccanismo che alimenta tutti i fenomeni di diseguaglianza e di squilibrio sociale resta inalterato, e ci si affida solo alle risorse limitate di un movimento spontaneo di aggiustamento e di compensazione che può essere prodotto dall’interno della società civile. Se il sistema produce delle strozzature, delle fratture sociali, si tratta solo di attivare qualche meccanismo lubrificante, e soprattutto si teorizza che questo non può essere un compito dello Stato, perché è tutto il perimetro dell’intervento pubblico che deve essere radicalmente circoscritto, in omaggio all’ideologia liberista e al suo fondamentalismo antipolitico. Il discorso va del tutto rovesciato, perché è evidente che, per fare seriamente i conti con un così massiccio cambiamento della struttura demografica del paese, c’è bisogno di una progettazione politica, di un ripensamento complessivo delle forme della nostra organizzazione sociale, di come sono strutturati gli spazi e i tempi della nostra vita collettiva. Ciò è ancora più evidente in presenza dell’attuale devastante crisi economica, la quale dimostra l’insostenibilità del modello liberista e la necessità di politiche pubbliche, per la crescita economica e per la coesione sociale.

L’invecchiamento della società non è, ripeto, un dettaglio secondario, un qualcosa che si aggiunge, un problema settoriale da affrontare in una logica di tipo corporativo, ma è il segnale di una nuova condizione sociale ed esistenziale nella quale tutti siamo immersi, e che ci deve spingere a guardare con occhi nuovi le forme della nostra convivenza, che appaiono oggi deturpate e alienate. In questo lavoro di ricostruzione del tessuto sociale dobbiamo avere due bussole: la socialità e l’autonoma della persona. Non c’è affatto contraddizione tra questi due principi, ma al contrario essi sono strettamente legati, perché non c’è libertà individuale senza una rete di relazioni sociali, e non c’è autentica vita collettiva se non su una base di maturità e di responsabilità del singolo. Socialità e autonomia stanno insieme, ed entrambe sono oggi insidiate dai processi di massificazione, di omologazione, che sono il prodotto di un modello politico autoritario. Quanto più il potere si accentra, tanto più alla figura del cittadino si sostituisce quella del consumatore-spettatore, che non ha una propria forza politica, ma può assistere, con adesione passiva o con disgusto, ad un gioco di vertice sul quale non ha nessuna influenza.

La socialità richiede spazi, luoghi, strumenti effettivi di partecipazione democratica, e l’autonomia richiede conoscenza, accesso alle informazioni, e soprattutto il pieno riconoscimento del pluralismo delle culture e delle libere scelte individuali, nei diversi campi e nelle diverse fasi della vita. Se ci sono queste condizioni, la stagione dell’invecchiamento può essere gestita come un passaggio creativo, perché si è nello stesso tempo parte di un esperienza collettiva e liberi nelle proprie scelte, membri di una comunità e portatori di una propria autonoma identità. Ma tutto questo non si produce spontaneamente, e chiama in causa le responsabilità della politica, perché ciò che è in gioco è l’idea di società, il suo modello, il suo progetto. E occorre una fortissima azione di contrasto verso tutto ciò che va nella direzione opposta, verso le identità chiuse, settarie e rancorose, nelle quali all’identità viva della relazione si sostituisce l’identità morta del rifiuto dell’altro e dell’intolleranza.

Nuovo progetto sociale: questo è il terreno su cui investire tutto il nostro impegno, e ciò richiede una interazione tra le diverse competenze specialistiche (sociologia, urbanistica, economia, diritto pubblico, scienza dell’organizzazione, filosofia), per rispondere, con uno sforzo congiunto di elaborazione, alla domanda: come organizzare uno spazio pubblico che sia aperto al contributo e alla partecipazione di tutti, giovani e anziani, cittadini e immigrati, senza esclusioni, e senza le strozzature di un potere di tipo oligarchico.

E il sindacato? Noi abbiamo in Italia l’esperienza del tutto originale e innovativa del sindacato dei pensionati, nell’ambito delle tre grandi confederazioni, che non solo ha avuto un grande successo di adesioni, ma che ha saputo, o dovuto, inventare una nuova pratica sindacale, per rappresentare le persone in una dimensione che va oltre gli aspetti strettamente economici e che investe la loro condizione sociale complessiva. È una indicazione preziosa, su cui tutto il sindacato, nel suo insieme, dovrebbe scommettere, perché esso può superare la sua crisi solo allargando il suo campo di intervento e alzando il tiro della propria iniziativa, per offrire alle persone un ventaglio più largo di strumenti e di proposte. È il territorio, in tutta la sua complessità, il nuovo possibile baricentro di un’azione sindacale che ricostruisca, in totale autonomia, la sua funzione di rappresentanza, in un rapporto di trasparenza democratica con tutto l’universo sociale che si intende rappresentare.

In questa direzione vanno tutte le numerose esperienze di negoziazione sociale, che hanno bisogno di essere ulteriormente rafforzate e approfondite. Il sindacato, è chiaro, si misura con il metro dell’efficacia dei risultati, e tutte le analisi, le proposte, le elaborazioni programmatiche, devono essere verificate e tradotte in una concreta capacità contrattuale. Questo dell’efficacia dovrebbe essere, a mio giudizio, il tema centrale su cui ragionare nel prossimo Congresso della Cgil, per non essere solo una forza di testimonianza e di resistenza, ma una forza che incide nei processi reali, e ciò vuol dire mobilitazione democratica allargata, e costruzione delle alleanze, e capacità di mettersi in relazione con tutta la pluralità dei soggetti sociali e istituzionali, per costruire piattaforme condivise e realistiche, finalizzate ad una nuova qualità del nostro sviluppo e della nostra coesione sociale. È su questo passaggio dall’analisi alla proposta, dalla rappresentazione del disagio sociale alla capacità di costruire soluzioni concrete, che dobbiamo concentrare, nel prossimo futuro, tutto il nostro impegno, cercando di aprire una nuova stagione di sperimentazione e di rilancio dell’azione sindacale.



Numero progressivo: E5bis
Busta: 5
Estremi cronologici: 2014, febbraio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Stampa pagina web
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Sindacali - SPI -
Note: Articolo pubblicato anche in “Economia e società regionale” (record E5), sostanzialmente identico
Pubblicazione: “Inchiesta”, gennaio-marzo 2014. “Inchiesta online”, 2 aprile 2014. Ripubblicato in “Riccardo Terzi. Sindacalista per ambizione”, pp. 141-151