ATTENTI AI SEGNALI D’ALLARME
Che cosa dice il voto alle Leghe. Non è politicismo agire rapidamente per la riforma delle istituzioni
”Dal sociale al politico”, rubrica di Riccardo Terzi
L’irruzione sulla scena politica delle leghe regionali, con la Lega lombarda secondo partito nella più progredita ed europea regione d’Italia, è un evento di così violenta rottura degli equilibri politico-istituzionali da non poter essere inquadrato facilmente nelle categorie di cui disponiamo: voto di protesta, qualunquismo, riflusso moderato.
Confesso di non disporre ancora di una spiegazione soddisfacente. E tento quindi qualche primo ragionamento provvisorio, qualche spunto di ricerca, avvertendo con un certo disagio tutti i limiti dei nostri strumenti di analisi, che ci hanno lasciati indifesi di fronte a un fatto politico così radicalmente nuovo e così massiccio nelle sue dimensioni. Le leghe, la proliferazione delle liste, la formazione di gruppi e movimenti che rifiutano la forma classica del partito politico, l’astensionismo: sono segni di una strozzatura, che si è fatta ormai drammatica, che ostruisce e blocca i canali di comunicazione tra la società e la politica. E in molti casi gli stessi partiti sono il terreno di caccia su cui giocano la loro partita gruppi di interesse, con armi legali o con armi criminali.
Questa dissociazione del sociale dal politico è un tratto inquietante del nostro tempo. Non si confrontano opposte strategie politiche, ma la società cosiddetta “civile”, che è nella realtà un coacervo di interessi e di egoismi, tende a dilagare nelle sue forme più elementari, corporative, senza più disporre di un sistema di valori condiviso. La società, entrati in crisi i sistemi politici e ideologici, torna a quello stadio che Hegel ha definito come il “sistema dei bisogni”, senza che vi sia un’ulteriore sintesi dialettica.
Le leghe nascono, mi sembra, su questo terreno: sono il fragile involucro politico attraverso il quale si esprime l’atteggiamento di chi, di fronte alle contraddizioni di un mondo che cambia, vuole difendere con i denti il suo pezzetto di benessere, di sicurezza, il suo “particulare”, e costruisce così una trincea di difesa contro nemici reali o immaginari.
Ci sono tutti gli ingredienti tipici della psicologia reazionaria. E il razzismo non è un accessorio, ma è l’impasto necessario che consente di scaricare l’aggressività che si è accumulata in un’umanità frustrata, egocentrica, incapace di vita sociale. Non è un arcaismo, ma il prodotto di una modernizzazione che ha reso strumentali tutte le relazioni umane. Per questo esplode nelle regioni ricche.
Alberto Arbasino ha tentato con ironia infelice, di mettere la cultura di sinistra in contraddizione con se stessa perché mentre ha nel passato esaltato il valore delle autonomie etniche e culturali, ora si indigna per questi indigeni lombardi che vogliono autogovernarsi. Ma il cemento in questo caso non è la cultura, ma l’interesse, non è la comunità, ma l’individuo. È il rifiuto della solidarietà sociale. Entrano, ovviamente, in questo fenomeno anche altri elementi, e anche esigenze legittime. C’è, come sempre nei fatti politici, una combinazione complessa. E su questa contraddittorietà si potrà lavorare per disinnescare questa miccia che è stata accesa. Ma stiamo attenti a non smarrire il giudizio di fondo, e a non confondere lo sforzo necessario di comprensione con la tendenza alla legittimazione.
C’è stata in questi anni troppa retorica sulle “virtù” della società civile, troppa strumentale esaltazione del privato contrapposto al pubblico, troppi ammiccamenti verso le tendenze individualistiche. E ora l’interesse egoistico, nella sua forma più grossolana, chiede il conto. In questa crisi della politica è inscritta la crisi della sinistra. Per la sinistra, infatti, è essenziale una continua azione di rimando dal sociale al politico, e l’ostruzione dei rapporti tra questi due piani è il pericolo maggiore che essa possa correre.
Per questa ragione trovo del tutto insufficiente una risposta politica che si riduca alla parola d’ordine dell’opposizione sociale. Non basta riscoprire, come suggerisce Bertinotti, le parole-chiave del conflitto di classe. Una sinistra che sia tutta immersa nel “sistema dei bisogni” non esce dalla sua crisi, perché su questo terreno è vincente la logica dei particolarismi.
Abbiamo di fronte un nodo politico-strategico non semplice. È il nodo che abbiamo cercato di affrontare al congresso. E appare davvero di una strumentalità inaccettabile e sconcertante il tentativo di misurare il progetto politico del congresso, che si giocherà nei tempi lunghi di un processo di ricostruzione e di rifondazione della sinistra, con il metro di queste elezioni amministrative. O al congresso ci siamo tutti presi in giro, e bastava una campagna di propaganda azzeccata? o magari un gruppo dirigente diverso da quello attuale?
Per rimettere in comunicazione la società e la politica, occorrerà una strategia complessa e di lungo periodo. E certamente è necessaria, nel momento in cui i processi sociali sono fortemente segnati da una frantumazione corporativa, un’iniziativa sul versante politico-istituzionale. Non è politicismo. È la convinzione, affermata con forza fin dal XVIII congresso, che alla degenerazione delle istituzioni politiche si deve rispondere con un progetto organico e radicale di democratizzazione. Per restituire ai cittadini e alle forze che si muovono nella società gli strumenti di una rappresentanza politica, perché sia possibile dare voce politica ai conflitti.
Busta: 8
Estremi cronologici: 1990, 27 maggio
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Pagine rivista
Tipo: Scritti
Serie: Scritti Politici - Riflessioni politiche -
Pubblicazione: “Rinascita”, n. 16, 27 maggio 1990, p. 35