ASSISE NAZIONALE DEI GIOVANI COMUNISTI

I giovani liberi nella scuola, nel lavoro, nella vita, protagonisti della politica costruiscono una nuova società. 4 marzo 1967

Relazione di Riccardo Terzi, in qualità di Segretario della Federazione di Milano

Compagni,

negli anni della espansione economica, era di moda la teoria del neo-capitalismo, ovvero l’ipotesi che il capitalismo potesse risolvere le sue antiche piaghe e por fine così all’antagonismo radicale delle classi.

Illusione questa, abilmente diffusa dai propagandisti della borghesia, e causa di tante rinunce e di tanti estremismi.

Sta a noi, compagni, riportare tutto il movimento operaio all’ analisi obbiettiva dei rapporti sociali, analisi che vi mostra sia nelle zone di sottosviluppo sia nei punti alti del capitalismo, come la classe operaia continui a pagare un prezzo insostenibile e sia spinta a lottare per la propria sussistenza e per la propria dignità.

I giovani, in particolare, hanno conosciuto il neo-capitalismo soltanto nella teoria, e fanno prova ogni giorno delle contraddizioni in cui si consuma la società attuale.

Usciti dall’arretratezza di un capitalismo primitivo, i giovani oggi sono animati da un’aspirazione profonda alla qualificazione professionale: vogliono svolgere una funzione socialmente riconosciuta, vogliono trovare nel lavoro il mezzo per migliorare le loro capacità, uno strumento di affermazione quindi e non di avvilimento.

Ma tutto ciò non è compatibile con le esigenze del capitalismo, per il quale i lavoratori restano sempre strumenti di lavoro da sfruttare nella misura più alta possibile.

Questo limite di fondo del sistema viene avvertito sempre di più, dalla massa dei giovani che spinti a conquistarsi nuove e più alte capacità professionali, incontrano poi su questa via ostacoli ed intralci, che li costringono a rimanere al di sotto delle loro aspirazioni e delle loro capacità.

Nel passato, i confini di classe venivano subito tracciati in modo netto attraverso la scuola, concepita come un privilegio delle classi ricche e non come un servizio sociale al quale ha diritto tutta la popolazione. L’estrema carenza delle strutture scolastiche, il costo degli studi, l’assenza quasi totale di scuole professionali, erano fattori che provocavano una rapida e marcata selezione sociale.

Ora questa situazione si viene lentamente modificando, sia per la funzione democratica esercitata con tenacia dalle forze di sinistra, sia perché la stessa industria capitalistica richiede operai dotati di certe capacità professionali.

Per effetto di queste due spinte diverse, è venuto sempre più crescendo il grado di frequenza scolastica, e oggi la realtà, nelle zone industrialmente sviluppate, si avvicina alle norme fissate dalla Costituzione, che prevede l’obbligo scolastico fino ai 14 anni.

È stata abolita con l’istituzione della scuola media unica, la vecchia distinzione fra scuola media e scuola di avviamento industriale e commerciale. Ma a questo primo passo non hanno fatto seguito le misure necessarie per garantire il carattere democratico dell’istruzione pubblica.

Infatti, quali possibilità si aprono per la maggioranza del ragazzi, una volta usciti dalla scuola media unica?

La pressione delle condizioni economiche familiari fa sì che ci si orienti verso corsi rapidi di formazione professionale, così da poter entrare a breve scadenza nell’attività produttiva.

Questa disuguaglianza economica è un dato di fatto, di cui ciascuno deve tener conto. Non si tratta allora di far scomparire la scuola professionale (sarebbe questo un tal progresso!), ma piuttosto le scuole professionali devono essere uno strumento di effettiva qualificazione. Dovrebbe essere questo il settore della scuola maggiormente curato, perché in essa si formano la personalità e le capacità professionali della grande maggioranza del giovani.

Ebbene, qual è invece la situazione attuale, qual è la scelta compiuta dal governo e dalle classi dominanti?

Il settore della formazione professionale e sì in via di sviluppo, ma si sviluppano le scuole private, aziendali, speculative e parrocchiali, e nel programmi del governo non si prevede nessuna misura per modificare questa situazione. Dei giovani lavoratori lo Stato ha deciso di non occuparsi: si penseranno i padroni.

Ecco un primo motivo di battaglia politica, intorno al quale ci dobbiamo impegnare. La scuola privata non può mai essere intesa come sostitutiva di quella pubblica. Essa nasce con dei fini del tutto particolari, e fornisce quindi un’istruzione limitata, unilaterale, o perché prevalgono interessi speculativi, o perché sono prevalenti preoccupazioni di ordine ideologico.

Lo Stato ha il dovere di rispondere a tutte le richieste che provengono dalla nazione, ha il dovere di assicurare a tutti un’istruzione professionale pubblica.

Soffermiamoci un attimo a considerare il fenomeno delle scuole aziendali. “Scuola aziendale” è espressione in se stessa contraddittoria. Come si può pensare che il datore di lavoro, dominato dai suoi interessi privati e dalle esigenze dell’azienda, pensi dar vita ad una scuola che sia veramente tale, che sia mezzo di formazione culturale e professionale?

Dalle scuole aziendali usciranno giovani addestrati ad eseguire determinate mansioni, formati sulla base delle caratteristiche tecnologiche dell’azienda, e la loro cultura sarà tutta orientata verso l’apologia del capitalismo e dello spirito imprenditoriale. Non è qui dunque che si potranno risolvere i problemi di formazione umana e tecnica delle giovani leve del lavoro.

Vi è una sola soluzione possibile: una scuola professionale pubblica, che segua criteri diversi da quelli aziendali, che si proponga di dotare il giovane di capacità professionali complete e di una visione generale, dei problemi della cultura e della società.

Ma, per raggiungere questo obiettivo, può essere sufficiente allargare il settore pubblico esistente, può bastare cioè un piano finanziario più consistente di quello previsto dal governo?

Noi diciamo di no, diciamo che l’istituto professionale di Stato esistente non può in nessun modo essere preso come modello, ma deve al contrario essere riformato profondamente.

Di questa esigenza di rinnovamento hanno avuto consapevolezza, a varie riprese, gli studenti di questi istituti, che pressoché spontaneamente hanno organizzato scioperi di un certo rilievo.

Che cosa chiedevano? Chiedevano che l’istituto professionale fornisse un diploma valido, riconosciuto in tutte le aziende: questa è sempre stata la rivendicazione di fondo.

Ma il problema deve essere visto in un quadro ancor più generale: si deve cioè affrontare il problema dei programmi e il problema degli sbocchi.

Nella nostra concezione, la scuola professionale non deve essere una scuola di ordine inferiore, in cui si impara poco e si impara male.

Deve essere, al contrario, una scuola nella quale il metodo di insegnamento è diverso, dovendosi giungere rapidamente alla applicazione pratica, ma altrettanto rigorosa deve essere la serietà culturale. Cultura e professione non sono due esigenze opposte, che si escludono a vicenda, ma tanto meglio si acquisisce una qualifica professionale, quanto più si ha coscienza dei contenuti tecnici e scientifici di quella professione e si è in grado quindi, sulla base di una salda preparazione scientifica, di adeguarsi rapidamente alle innovazioni tecnologiche che saranno via via introdotte.

In secondo luogo, quale sbocco viene aperto a chi termina l’attuale istituto professionale? Vi è la possibilità dell’esercizio della professione, senza che si possa proseguire negli studi in base ai corsi già frequentati. Certo, è sempre possibile iniziare una scuola diversa; ma questa non può comunque essere considerata una soluzione valida.

Il problema degli sbocchi è, per molti aspetti, il problema di fondo della struttura della scuola. Se non è realizzabile oggi una scuola unica fino al 18° anno, deve allora essere garantita la possibilità per tutti di giungere ai gradi più elevati dell’istruzione.

Devono cioè essere aboliti i vicoli ciechi, la barriera fra diversi tipi di scuole, si debbono cioè ridurre al minimo le conseguenze negative della disuguaglianza economica fra i diversi strati della popolazione.

Sulla base di questi principi, i comunisti hanno elaborato una proposta organica di riforma della scuola professionale, che prevede la fusione dell’attuale istituto professionale e dell’istituto tecnico in un unico corso di studi della durata di cinque anni.

Questa fusione comporta ovviamente una ristrutturazione generale dei programmi dell’uno e dell’altro istituto, in base a quella premessa di metodo sullo stretto rapporto intercorrente fra preparazione professionale e qualificazione culturale.

Ora, questo istituto tecnico-professionale unificato dovrebbe fornire, dopo due o tre anni, un primo diploma, che consenta l’ingresso immediato nell’attività produttiva. Con una differenza di fondo rispetto alla situazione attuale: che i giovani costretti a cercare subito un posto di lavoro, possono poi proseguire gli studi iniziati, portare a termine la scuola tecnico-professionale, conseguendo così un secondo diploma di grado più elevato, e infine, se ne hanno le capacità, possono decidere di frequentare gli studi universitari.

Noi crediamo che questa proposta sia l’unica risposta giusta, capace di indicare una prospettiva a tutti i giovani lavoratori. Obbiettare a questa nostra linea dei principi ideologici astratti, e avanzare l’ipotesi di un’unica scuola media superiore, vuol dire rinunciare a far presa sulla realtà attuale, far finta che non esista una struttura sociale classista; e quindi presentarsi alla grande massa dei giovani dicendo loro che non esistono obiettivi di lotta validi per il presente e che bisogna attendere la realizzazione del socialismo.

Gli obiettivi che noi presentiamo sono invece obiettivi attuali, capaci di suscitare un movimento reale, capaci di contestare concretamente lo sviluppo caotico e contraddittorio della società capitalistica.

Ma la riforma della scuola non è sufficiente, se ad essa non corrisponde un’organizzazione nuova dei rapporti di lavoro.

A chi servirebbe un’istruzione professionale organizzata nel modo migliore, se poi nella fabbrica venissero bruciate tutte le conquiste che si sono ottenute nell’ambito della scuola?

È dunque necessario analizzare i rapporti fra istruzione professionale e attività produttiva. Una prima forma di regolamentazione di questi rapporti è data dall’apprendistato.

Si tratta però di una soluzione che sempre meno risponde alle esigenze e al problemi nuovi della classe operaia.

Infatti, nelle aziende moderne il periodo effettivo di apprendistato, e cioè il periodo necessario per imparare il mestiere, si riduce sempre più sensibilmente, a causa della semplificazione del lavoro, e quindi il rapporto di apprendistato si riduce ad essere un anno di sfruttamento a basso costo della manodopera giovanile. Inoltre l’impiego di apprendisti è stato praticamente eliminato nei settori industriali più avanzati. Non si tratta dunque di far rivivere un istituzione che non corrisponde poi alla situazione reale ma di trovare nuove forme di definizione del rapporto di lavoro per i giovani lavoratori.

Noi dobbiamo partire dal presupposto che il giovane operaio deve avere la possibilità di proseguire negli studi, se vogliamo che la struttura democratica della scuola non finisca per essere una nuova forma di inganno. Il diritto allo studio, per essere realizzato, ha bisogno di un rapporto di lavoro, per i giovani, di tipo speciale, che li consideri come forza lavoro ancora in via di formazione e di qualificazione.

Ecco allora sorgere delle precise esigenze, e degli obiettivi di lotta.

Anzitutto, l’orario di lavoro. Il fenomeno crescente degli studenti lavoratori, costretti ad un impiego logorante delle loro energie, indica con chiarezza l’importanza che assume il problema dell’orario di lavoro per migliaia di giovani.

I giovani vogliono studiare, e devono lavorare. Bisogna riuscire a conciliare queste due esigenze, senza che ciò richieda quei sacrifici, oggi resi necessari dalla mancanza di un contratto di lavoro che tenga conto di questa realtà.

La protesta degli studenti serali, l’esplodere di lotte impegnative e qualificate: è questo uno dei tratti più positivi del mondo giovanile, è questa la forma di protesta e di rivolta che meglio serve a caratterizzare la nuova generazione.

Bisogna dunque rispondere a questi problemi, e rispondere nell’unico modo giusto, tenendo conto della realtà in movimento e dei problemi immediati che uno solleva.

Certo, noi pensiamo che in una società razionalmente ordinata non dovrebbe essere necessaria la scuola serale, ma oggi, nella realtà sociale italiana, essa può svolgere una funzione positiva, e le nostre proposte devono consentire alla maggioranza del giovani lavoratori di frequentare una scuola, per migliorare la loro preparazione professionale.

Riduzione dell’orario di lavoro dunque, come rivendicazione fondamentale.

Il secondo problema riguarda l’assetto delle qualifiche.

Nella situazione attuale, le capacità professionali acquisite non ottengono poi, nell’azienda, il loro giusto riconoscimento.

I giovani, in particolare, vengono impiegati ai livelli più bassi, prescindendo dalle loro capacità, e difficilmente riescono a trovare nella fabbrica una prospettiva di carriera professionale.

Da qualunque lato si guardi la condizione giovanile, vediamo sempre le tracce di uno sfruttamento incondizionato: bassi salari, dequalificazione, orari di lavoro logoranti, assenza di tempo libero.

Noi non ci illudiamo, certo, di por fine d’un tratto a tutte le ingiustizie della società capitalistica, ma vogliamo trovare la via della lotta, e trovare quindi gli obbiettivi capaci di suscitarla, capaci di mobilitare le masse giovanili.

Le due leve fondamentali sulle quali poggiare sono l’aspirazione al tempo libero e la spinta alla qualificazione professionale, due leve che agiscono insieme e nella stessa direzione.

Per fare della qualificazione professionale una effettiva conquista, è necessario che nella fabbrica il sistema della qualifica corrisponda ai gradi dell’istruzione acquisita nella scuola, è necessario che al progresso negli studi corrisponda un progresso nella carriera professionale, che vuol dire anche, ovviamente, un progresso nel trattamento salariale.

Queste ci sembrano essere le linee fondamentali di azione da seguire per conquistare una situazione radicalmente nuova nel campo dell’istruzione professionale.

Gli obiettivi che noi pensiamo modificano la funzione sociale della scuola, fanno saltare gli ostacoli che si oppongono allo sviluppo delle capacità intellettuali e produttive, riducono sostanzialmente lo sfruttamento sociale proprio dei rapporti capitalistici.

Lavorare nella direzione indicata, e fare su questa via degli effettivi passi in avanti, vuoi dire dunque introdurre nella società capitalistica, dominata dalla logica del profitto, delle tendenze che le sono estranee, vuoi dire rafforzare il potere della classe operaia.

Il capitalismo, entrato ormai nella fase della sua decadenza, non rappresenta più uno stimolo per le forze produttive, ma al contrario agisce come freno, producendo fenomeni di stagnazione e lasciando inutilizzate immense energie materiali e intellettuali.

La nostra non è quindi una battaglia di retroguardia, o astratta ed utopistica. Noi ci battiamo per una società più razionale, più efficiente, nella quale le forze produttive possono raggiungere il loro massimo sviluppo.

E fin d’ora ci rivolgiamo agli operai, al tecnici, agli studenti e chiediamo che il loro lavoro conti di più, possa svolgersi senza impacci, e trovi nella società il riconoscimento necessario.

Fino a quando il vecchio ordine capitalistico potrà tenere a freno la spinta sociale dirompente che proviene dal mondo del lavoro? Fino a quando riuscirà con la violenza e con la corruzione ad imporre il suo interesse, contrario ad ogni esigenza di progresso?

Noi faremo tutto il possibile perché queste contraddizioni vengano alla luce, ed entrino nella coscienza di tutti i lavoratori. Abbiamo di fronte, quindi un campo d’azione fecondo.

Partendo dalla diretta esperienza dei giovani, possiamo investire i problemi generali della società ed indicare la necessità di una soluzione socialista.

Se vogliamo essere un’organizzazione di massa, ed una forza politica d’avanguardia, è questa la via da percorrere.

Migliaia di giovani, con una coscienza più o meno chiara, sentono il bisogno di conquistarsi nuove condizioni di vita. Accorrono alle scuole professionali, decidono di studiare lavorando, entrano in fabbrica con grandi speranze. Ma ogni loro passo viene contrastato: nella scuola, nella fabbrica, nella società devono andare avanti con la forza di volontà, col sacrificio personale, con la lotta.

A questo mondo giovanile in movimento noi ci dobbiamo presentare con una visione chiara dei problemi, con delle proposte concrete, di lotta e di organizzazione.

Essere l’avanguardia non significa rifugiarsi nelle astrattezze, ma essere un passo avanti alle masse per guidarle e per organizzarle, e misurare i propri passi in base alla maturità della coscienza di classe.


Numero progressivo: V4
Busta: 13
Estremi cronologici: 1967, 4 marzo
Autore: Riccardo Terzi
Descrizione fisica: Opuscolo
Tipo: Relazioni
Serie: Scritti Politici - PCI -
Pubblicazione: S. E., Roma, s.d., pp. 42-48